Ferruccio Pinotti; Alberto Ramírez, Sette 1/2/2013, 1 febbraio 2013
BALTASAR GARZÓN: «DIFENDO ASSANGE SIMBOLO DI LIBERTÀ»
Baltasar Garzón è stato uno dei più controversi magistrati spagnoli. Le sue clamorose inchieste lo hanno portato a dare la caccia anche al dittatore Pinochet; ha indagato, tra gli altri, su Silvio Berlusconi (sua un’investigazione su Telecinco che si è conclusa nel 2007 con lo stralcio delle posizioni dell’ex premier e di Marcello Dell’Utri per immunità parlamentare e con l’assoluzione di altri otto manager). Ha lavorato alla Corte Penale Internazionale dell’Aja, ma il 9 febbraio 2012 è stato interdetto per undici anni dalla magistratura per avere effettuato intercettazioni illegali nel caso Gurtel. Oggi, a 57 anni, opera in alcuni Paesi sudamericani: in Colombia fa il consulente in materia di giustizia; in Messico guida un progetto contro la corruzione; in Ecuador è impegnato nella riforma della giustizia; in Argentina opera per il Centro dei diritti umani dell’Unesco. Nel frattempo, però, Garzón è diventato anche l’avvocato di Julian Assange, il fondatore di Wikileaks – la rete che ha svelato 251mila documenti riservati delle diplomazie occidentali –, accusato in Svezia di “rapporti sessuali non protetti” e negli Stati Uniti di spionaggio, e oggi rifugiato nell’ambasciata ecuadoriana a Londra. Per lui ha ingaggiato, gratis, una durissima battaglia legale. Lo abbiamo intervistato mentre si trovava in Colombia.
Dottor Garzón, qual è la situazione attuale di Julian Assange? Come sta?
«Julian Assange è una persona che ha una forza vitale e mentale impressionante, nonostante il suo aspetto piuttosto fragile. Siamo assolutamente certi che la sua situazione sia del tutto ingiusta. Credo che ciò che hanno fatto lui e Wikileaks sia stato un contributo molto importante, per il mondo intero. Hanno scoperto relazioni di potere che vanno oltre i rapporti diplomatici tra Stati. Assange è stato vittima di una grande ingiustizia, perché il procedimento contro di lui avviato negli Stati Uniti è di una gravità assoluta. L’unica cosa che ha fatto è stato di difendere la libertà di espressione e di informazione: questa persecuzione nei suoi confronti non ha senso. A me preoccupa che la situazione di Assange si prolunghi perché, anche se l’ospitalità presso l’Ambasciata dell’Ecuador è buona, lo spazio vitale è minimo. Il protrarsi di questa situazione può essere pregiudizievole per lui».
Il presidente dell’Ecuador, Rafael Correa, ha recentemente affermato che «l’Ecuador ha fatto tutto il possibile per Julian Assange, la responsabilità è ora dell’Europa». C’è il rischio che anche l’Ecuador abbandoni il creatore di Wikileaks?
«Non siamo mai fuggiti dalla giustizia svedese, Julian vuole rispondere alle accuse, anche se riteniamo che siano del tutto inconsistenti. Ma nel rispetto dell’azione della giustizia svedese, vogliamo che la questione venga chiarita e risolta. Il fatto è che nessuno dei governi coinvolti, Svezia e Gran Bretagna, ha dato assicurazioni sulla garanzia minima che durante il processo, o alla sua conclusione, non ci sarà estradizione negli Stati Uniti; questo è l’unica cosa – semplice – che chiediamo. Per tutto il resto Assange è coperto dalle garanzie di asilo politico concesse dall’Ecuador. Sarà il governo ecuadoriano a decidere se muovere passi a livello diplomatico e giuridico, in caso decidesse di portare questo caso alla Corte Internazionale di Giustizia».
La Svezia si impegna a non consegnare Assange agli Usa?
«La Svezia, negli ultimi anni, si è dimostrata chiaramente a favore delle estradizioni e ha sostenuto gli Stati Uniti in alcuni casi di dubbia applicazione nel campo dei diritti umani. Insomma, esistono precedenti per non essere tranquilli».
Vi appellerete alla Corte di Giustizia Europea o alla Corte per i Diritti dell’Uomo?
«Stiamo valutando questa ipotesi. Ma esortiamo anche la Commissione Europea a preoccuparsi delle misure restrittive nei confronti del finanziamento di Wikileaks realizzate attraverso il blocco delle carte di credito».
Avete pensato anche di fare appello nelle Nazioni Unite?
«Anche quest’azione è di competenza dell’Ecuador. Ma, ovviamente, c’è la possibilità di presentarsi dinanzi ai relatori delle Nazioni Unite per fare conoscere formalmente la situazione di Assange, perché potrebbe rientrare nella Convenzione Onu contro la tortura e i maltrattamenti. Avendo ottenuto asilo politico, Assange è in possesso di un diritto fondamentale, a prescindere dai problemi diplomatici tra gli Stati».
Si parla della possibilità che si presenti come candidato al Senato australiano.
«So di notizie al riguardo, in ogni caso sarei favorevole. Questo, comunque, non influenzerà la sua situazione giuridica. Chi pensa che sia una mossa per ottenere l’immunità diplomatica sbaglia. Se il popolo lo vota, Julian non otterrà nulla più di un seggio al Senato».
Com’è il suo rapporto con lui? Tra voi è nata anche un’amicizia?
«Quando Assange si è messo in contatto con me lo conoscevo solo attraverso i mass-media. Dopo aver parlato con lui, ho posto unicamente due condizioni: poter agire in modo indipendente e che i miei servizi non fossero pagati, perché credo che la situazione che sta soffrendo sia assolutamente ingiusta. Così è iniziato il mio lavoro. Poi la relazione si è fatta più stretta e Julian mi ha permesso di capire anche il suo stato d’animo personale. Ho poi incontrato sua madre, che è una donna vigorosa. Assange è una persona di forti convinzioni, che però ha sofferto di una campagna denigratoria potente. E questo mi ha fatto impegnare ancora di più al caso».
In che modo Assange rimane in contatto con il figlio?
«Via internet, che è diventato definitivamente la sua finestra sul mondo. Non dobbiamo dimenticare che è un esperto...».
Parliamo di politica e magistratura.
«In un Paese come l’Italia, non parlare di politica e del sistema giudiziario è quasi un peccato mortale (ride, ndr)».
Lei ha dichiarato che «è impossibile per un giudice essere amorfo, senza ideologia». Quali differenze interpretative della legge possono esserci tra un giudice di destra e uno di sinistra?
«Ovviamente non esiste una mente “vuota”, senza ideologia; e chi dice questo sta mentendo e sta già facendo ideologia. C’è una grande differenza quando si tratta di interpretare la legge in senso progressista, avanzato e di protezione o in un senso restrittivo ed eccessivamente formale. Io credo sia importante dare sostegno alle vittime e alle classi meno abbienti, senza che questo significhi però andare contro l’interesse delle altre classi sociali. In concreto, se in un’inchiesta sui crimini contro l’umanità si può scegliere tra un’interpretazione in cui il formalismo blocca le indagini e quella in cui un’interpretazione ampia consente di difendere le vittime, io scelgo senz’altro la seconda».
Chi sono i suoi modelli, come magi-
strati?
«Le mie fonti di ispirazione, quando mi occupavo di indagini penali, sono stati senz’altro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: la loro ottica investigativa globale coincide con la mia. La criminalità si espande e si può contrastare soltanto con misure di portata equivalente. Questo i due procuratori italiani l’avevano capito perfettamente».
In Italia diversi magistrati stanno entrando in politica. Pensa che sia giusto? E dopo l’impegno politico, secondo lei si può tornare a fare il pm o il giudice?
«Credo di sì, che si possa tornare alla magistratura. Ciò che non si può fare è occupare entrambi i ruoli. Quando si tornerà a fare il lavoro del magistrato, vi dovranno essere dei limiti di competenze. All’interno di questo concetto di servizio pubblico, penso che abbia la stessa dignità sia servire lo Stato come magistrato sia come politico».
In Italia si tenta periodicamente di limitare le intercettazioni e la possibilità di pubblicarle: pensa che la libertà di stampa sia a rischio?
«La libertà di stampa è sempre a rischio, ovunque. Nel momento in cui un giornalista tocca determinati settori o determinati interessi corporativi mette a rischio la propria carriera. A seconda della gravità della sua inchiesta, può anche mettere in pericolo la sua vita. Fare inchiesta e pubblicare ciò che si viene a sapere è però il dovere dei giornalisti e dei giornali».
Cosa pensa della sua destituzione dall’incarico di giudice per il caso Gurtel (che prende il nome da una presunta rete di persone coinvolte in un caso di corruzione legate al Partito Popolare spagnolo)?
«È stata una decisione politica, uno scontro tra coloro che difendono l’indipendenza della magistratura e indagano su tutto ciò che dovrebbe essere indagato, e coloro che non la pensano cosí. Temporaneamente, hanno vinto loro, ma continuerò a lavorare contro la corruzione e a difendere i miei diritti, se serve anche davanti alla Corte Europea dei diritti umani».