Adam Michnik, l’Espresso 1/2/2013, 1 febbraio 2013
LA MIA SINISTRA ITNTERVISTA A MASSIMO D’ALEMA
Nel 1984, mentre stavo in una prigione comunista in Polonia, Massimo D’Alema partecipava a Mosca, sulla piazza Rossa, ai funerali di Jurij Andropov, ex capo del Kgb, diventato segretario del Partito comunista dell’Urss. Eravamo dalle parti opposte della barricata? Forse non fino in fondo. Che i comunisti italiani fossero un po’ diversi dagli altri l’avevo intuito già nell’agosto del 1968. Anche allora ero in carcere, e sulle pagine di "Trybuna Ludu", l’organo del Partito operaio unificato polacco ho letto la notizia: il Partito comunista del Lussemburgo appoggia l’intervento dei Paesi del Patto di Varsavia in Cecoslovacchia. Avevo capito come questa notizia andasse interpretata: il Pci aveva condannato l’azione dei sovietici. A Roma i comunisti la pensavano diversamente che a Mosca. Da allora il Muro di Berlino è caduto, la mia Polonia fa parte dell’Unione europea e della Nato e D’Alema è stato presidente del Consiglio e ministro degli Esteri italiano. Oggi è un esponente di primo piano della sinistra europea e italiana. Sono andato a Roma a sentire cosa ne pensa della sinistra, appunto, dell’eredità del comunismo, della destra, del populismo e della chiesa ai tempi della globalizzazione. E anche del lascito dei vent’anni di berlusconismo e del problema corruzione. E a questo proposito, nel frattempo è venuto fuori lo scandalo del Monte dei Paschi, una torbida vicenda di corruzione e truffe nel cuore rosso dell’Italia. Sull’argomento D’Alema è tranchant: «Il Pd non ha alcuna responsabilità nella vicenda di Monte dei Paschi. Nella Fondazione siedono le istituzioni locali e vorrei che fosse apprezzata la posizione assunta dal sindaco Ceccuzzi, che un anno fa chiese il ricambio totale del vertice della banca e per questo, alla fine, si dovette dimettere».
L’ex presidente tedesco Richard von Weizsäcker mi disse una volta: Berlusconi è una malattia europea, ed è il pericolo numero uno. Qual è invece la sua diagnosi del fenomeno berlusconismo?
«Si sta avviando verso la fine. Certo, Berlusconi è ancora forte, ha una grande influenza sui media, ma non vincerà le elezioni. Però c’è un lato culturale del fenomeno che all’estero si sottovaluta. A voi piace pensare che l’Italia sia il Paese di Antonio Gramsci. La verità storica è, invece, un’altra: a suo tempo, Gramsci era in prigione e gli italiani erano dalla parte di Benito Mussolini. Siamo l’unico Paese europeo in cui la sinistra, a eccezione del brevissimo periodo immediatamente dopo la seconda guerra mondiale, non è mai andata al governo fino al 1996. E se pensiamo che l’Unità d’Italia risale al 1861, abbiamo impiegato 135 anni per ottenere questo risultato».
C’è stato Craxi primo ministro; un uomo di sinistra. O forse per lei era di destra?
«Certamente non era di destra. Però il suo partito (del 10 per cento) era solo una piccola componente di un governo dominato dalla Democrazia cristiana. Insisto: non c’è altro Paese in Europa con una storia simile alla nostra. La nostra destra non si è mai caratterizzata per un’impronta liberale, anzi, è stata piuttosto statalista. E, ancora, l’influenza della Chiesa cattolica in Italia è sempre stata forte. Detto questo, Berlusconi è stato la conseguenza della crisi del sistema dei partiti causata dalla corruzione e dalla mancata alternanza al governo. Era un sistema, basato sulle divisioni della guerra fredda, che ha resistito in apparenza fino alla caduta del Muro di Berlino. In realtà, a mio parere, era finito con l’assassinio di Moro da parte delle Brigate Rosse nel 1978. Il crollo di quel sistema ha aperto le porte a Berlusconi».
Ma il berlusconismo e il populismo non sono solo un fenomeno italiano.
«Infatti. Berlusconi è la spia di un fenomeno più ampio. Lui si presentò sulla scena come l’uomo dell’antipolitica».
La fermo. Anche il mio compianto amico Václav Havel usava il termine antipolitica. Intendeva però la resistenza a un sistema autoritario e che si poggiava sulla menzogna. In Italia fate un uso diverso della stessa parola, vero?
«Per me, antipolitica significa l’egemonia culturale del pensiero neoliberale estremo. Dopo la caduta del Muro, si è cercato di dire che non era finito solo il comunismo, ma che era terminata la storia. In questo schema, che poi si è rivelato totalmente illusorio, la politica non avrebbe più avuto alcun ruolo. O meglio, un ruolo avrebbe dovuto averlo: liberare il terreno dagli ostacoli che lo Stato creava al libero sviluppo del mercato. Si trattava di un’idea di capitalismo anarchico. In questa rappresentazione del mondo, la modernità ai tempi della globalizzazione significava la dominazione dell’economia su tutto il resto. Berlusconi ha tradotto in italiano i termini di questa tendenza mondiale. Diceva che non ci fosse più bisogno della politica, cercava di convincere gli italiani che lo Stato dovesse essere gestito come un’impresa e lui, appunto, era un imprenditore».
Il berlusconismo è la conseguenza della crisi economica o della fine della guerra fredda? O forse di ambedue le cose?
«Non confondiamo i tempi storici. La crisi internazionale, finanziaria, economica e sociale, è di questi anni. Solo ora, dopo vent’anni di egemonia neoliberale, si riesce a capire che non si può eliminare la politica, che la mondializzazione senza governance ha creato disuguaglianze mostruose, provocando la crisi economica che stiamo vivendo. Ma negli anni Novanta era forte l’illusione che il capitalismo senza la politica avrebbe sprigionato tutte le sue virtù salvifiche».
Cosa è la destra oggi?
«Le rispondo accennando alla crisi della sinistra. A partire dagli anni Ottanta, convissero due visioni. Da un lato, c’era la sinistra della Terza via, di Blair, Schroeder e quanti erano convinti della bontà della mondializzazione. Avevano, infatti, un’idea ottimistica dei processi in atto ed erano persuasi che il loro compito storico fosse accompagnarli. Dall’altro lato, vi era una visione figlia del compromesso socialdemocratico, illusa che si potesse resistere a quei processi difendendo lo Stato nazionale. Guardiamo a cos’era la sinistra francese. Entrambe queste tendenze sono rimaste spiazzate di fronte alla globalizzazione, mostrandosi incapaci di governare il fenomeno. A causa dell’inadeguatezza della sinistra, è stata la destra a interpretare un processo fondamentalmente dominato da finanza e tecnocrazia. Questa è però solo una delle due facce della destra».
L’altra?
«È quella populista. La dominazione del pensiero tecnocratico, basato esclusivamente su rigore e taglio alla spesa sociale, ha finito per dar vita nella gran parte dei Paesi europei a una deriva di stampo populista, appunto. Così, oggi, la destra da una parte è rappresentata dalla figura della signora Merkel, dall’altra si nutre dei populismi. Il paradosso è che queste due destre sono riunite nello stesso partito: Angela Merkel, l’ungherese Viktor Orbán e Silvio Berlusconi sono tutti quanti membri del Partito popolare europeo».
La fa troppo facile. Berlusconi è populista, Merkel no.
«Ma la Cdu ha accolto Berlusconi nel Partito popolare europeo».
È un paradosso storico...
«No, è stata una scelta politica precisa».
Ma ora stanno espellendo Berlusconi dal loro partito.
«Dopo tanti anni e dopo che si è fortemente indebolito. Orbán è sempre là».
Sono di diverso parere. Orbán è un’altra cosa. È un fenomeno tipico dell’Europa centrale e dell’Est. Lo conosco, e bene, da vent’anni. È un esempio dell’involuzione dal liberalismo all’autoritarismo e alla retorica xenofoba. Penso che sia l’equivalente ungherese di Putin, non una variante di una destra europea civilizzata.
«È proprio questo il paradosso».
Parliamo della sinistra italiana. Ho sempre avuto l’impressione che voi comunisti italiani eravate differenti. E basta pensare alla condanna dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Lei ha raccontato che quel giorno era a Praga e che ha disegnato una svastica su un carro armato russo. È stato un momento decisivo nella sua vita?
«Faccio parte della generazione del Sessantotto. Noi eravamo antisovietici, ma nel partito c’era gente che aveva rapporti stretti con l’Unione sovietica. Erano legami personali e culturali profondi, creati durante la guerra, una guerra antifascista. In seno allo stesso partito, per anni, hanno convissuto diverse culture politiche. Enrico Berlinguer aveva capito qual era il vero volto dell’Urss. Ma prevalse in lui la preoccupazione che una rottura con quel mondo avrebbe portato a una spaccatura nel partito. Questa preoccupazione ha finito per rallentare il rinnovamento necessario del Pci. E così all’appuntamento con la storia siamo arrivati in ritardo».
Ha parlato dell’antifascismo. Sulla coscienza antifascista le voglio citare due politici italiani. Pietro Nenni, alla domanda della Fallaci se gli estremisti di sinistra fossero dei fascisti rossi, rispose di no. Giorgio Amendola, invece alla stessa domanda dà una risposta opposta: sì. Lei come la pensa?
«Aveva ragione Nenni. Mi spiego: c’è stato un estremismo di sinistra che è sfociato nel terrorismo che negli anni di Piombo si è reso responsabile di orrendi crimini. Quella di Amendola era una semplificazione, perché sul piano storico non si può dire fossero fascisti».
Il fascismo rosso non esiste? Amendola aveva torto?
«Amendola voleva dire: i terroristi non fanno parte della nostra storia. In realtà l’estremismo faceva parte della sinistra. Bisogna essere onesti quando si affrontano questi temi».
Cosa è la sinistra? Putin è destra o sinistra?
«Non può esserci una sinistra che non rispetti i diritti umani e le regole della democrazia. Putin non è di sinistra».
Neanche le Brigate rosse rispettavano i diritti umani e le regole della democrazia.
«Infatti. C’è stata una parte della sinistra che non ha rispettato valori che per noi sono fondamentali, penso anche allo stalinismo. Ma stiamo parlando del passato. È una storia chiusa. Oggi la sinistra deve essere la forza più attiva sul terreno dei diritti umani e della democrazia, se no che sinistra è?».
Fidel Castro?
«Un residuato della storia. Se penso alla sinistra in America Latina mi viene in mente Lula, non Fidel».
Chávez?
«È un militare, un nazionalista. Non c’entra niente con la sinistra».
Ma allora, quale il programma della sinistra da opporre alla destra? Mi dica quali sono i cambiamenti fondamentali in Francia, dopo la vittoria di Hollande?
«Intanto è cambiato il ruolo internazionale del Paese. Nicolas Sarkozy non aveva una posizione autonoma nei confronti della Merkel. Oggi la Francia di Hollande lavora per portare l’Europa verso una strategia di crescita e sviluppo, non solo di austerità. Succederà una cosa simile anche in Italia».
In concreto?
«Occorre una politica di solidarietà tra i Paesi membri dell’Unione per ridurre il peso della speculazione finanziaria sui debiti pubblici nazionali. Se saremo al governo ci batteremo assieme ai francesi per l’introduzione degli eurobond, a favore di un fondo europeo per ridurre il debito, e cercheremo di imporre una tassazione europea sulle transazioni finanziarie. La nostra dovrà essere una strategia improntata soprattutto alla crescita. È necessario dare la possibilità agli Stati nazionali di interpretare in una maniera più flessibile il Patto di stabilità, ad esempio distinguendo tra investimenti e spesa pubblica corrente. Infine, penso che in un mercato comune occorrano norme fiscali e standard di diritti sociali uguali per tutti».
Lei parla di una strategia europea e non più nazionale. Però, oggi le forze anti-europeiste a destra come a sinistra sono in ascesa...
«Sono preoccupato per come l’Europa sia percepita, e non a torto, dai cittadini, che la associano soltanto a obblighi e sacrifici. Per sconfiggere questo tipo di paure occorre dimostrare che sia possibile un’altra Europa. Dove ci saranno regole, certamente, ma dove sarà presente una dimensione sociale basata su crescita e lavoro. Altrimenti sarà difficile arginare l’ascesa di tanti populismi, di destra e di sinistra. Inoltre, bisogna dire che il populismo non è solo antieuropeista, è anche una reazione sbagliata alla mondializzazione, una tendenza a rinchiudersi, a esaltare le piccole identità culturali e religiose».
Il Pci parlava del compromesso storico. Cosa pensa del ruolo pubblico della Chiesa?
«È un duplice ruolo. Da un lato, la Chiesa - e non ci possono essere dubbi al riguardo - ha rappresentato un elemento di critica agli eccessi della globalizzazione capitalista. Penso a Giovanni Paolo II. Vorrei raccontarle un episodio al riguardo. All’epoca ero primo ministro e lo incontrai assieme alla mia famiglia. Mi disse: "Lei sa bene che ero un avversario del comunismo, e continuo a pensare che la caduta di quel sistema è stato un evento importante per l’umanità intera, ma oggi sono preoccupato, perché vedo che sta aumentando il numero dei poveri e non c’è nessuno che li difende. Penso che bisogna agire per fare qualcosa, perché finché è esistito il comunismo, in Occidente si aveva la coscienza del fatto che i poveri non potessero essere lasciati a se stessi". La sua idea era che la caduta del comunismo fosse un evento molto positivo, ma che la dominazione della finanza impostasi in seguito fosse troppo marcata. E che tutto questo dovesse rappresentare una preoccupazione anche della Chiesa. Trovo che siano state parole profonde e vere».
Dall’altro lato?
«Il rischio dell’integralismo, le resistenze alla modernità nell’ambito della scienza e dei diritti civili, delle problematiche della vita e della morte, della ricerca sulle staminali».
Nel cattolicesimo italiano ci sono tendenze xenofobe, scioviniste? In Polonia questo è un grande problema.
«Direi che sono del tutto minoritarie. In ogni caso, la Chiesa vi si oppone senza tentennamenti».
Il suo Pantheon della sinistra italiana?
«È un Pantheon pluralista. Il Pd è un punto d’incontro di diverse tradizioni...».
E il suo, personale?
«Gramsci, Berlinguer e anche Togliatti».
Togliatti? Ma se lei ha appena parlato della democrazia e dei dritti umani, come caratteristiche della sinistra...
«Non si può ridurre la figura di Togliatti a una specie di "stalinista italiano". Togliatti ha vissuto in un’epoca contraddittoria ed era una personalità contraddittoria, ma il suo merito è stato quello di aver tradotto il pensiero di Gramsci in azione politica e di aver radicato il Partito comunista come forza nazionale e democratica nel Paese. Io non mi pento di essere stato comunista, perché, pur con i nostri ritardi ed errori, abbiamo contribuito a costruire la democrazia in Italia. Ma del Pantheon del Pd fanno parte anche personalità del riformismo cristiano e della sinistra anticomunista».
Ignazio Silone? Nicola Chiaromonte?
«Certo, ma io penso anche a Vittorio Foa o ad Antonio Giolitti e a tutti coloro che nel 1956 lasciarono il Pci. Penso al Partito socialista, la cui storia nobile e gloriosa non può essere ridotta solo ai fatti di Tangentopoli».
Parliamo della corruzione. È un problema italiano, ma anche europeo.
«La corruzione si batte con democrazia, trasparenza, apertura, ricambio della classe dirigente, attraverso libere elezioni».
Nel libro appena uscito "Controcorrente" (edito da Laterza a cura di Peppino Caldarola) fa l’autocritica. Dice che la sua colpa è l’eccesso di orgoglio e vanità. Ma si può essere politici senza essere orgogliosi e vanitosi?
«Senza orgoglio mai. Però io mi riferivo a un episodio particolare: l’essere diventato presidente del Consiglio dopo la caduta del governo Prodi, come primo ex comunista nella storia del Paese, senza essere passato per le elezioni. Pur essendo un governo assolutamente legittimo, il fatto di non essere stato espresso da un voto popolare creò un effetto negativo. La destra ebbe gioco facile nel fare una campagna contro di me, sostenendo che salii al potere in virtù di presunti accordi sottobanco, che ovviamente non ci furono. Avrei dovuto prevederlo. E poi c’è un’altra, importante considerazione: ero leader di un partito che si stava appena strutturando e lasciai il lavoro a metà».
Un consiglio alla sinistra polacca?
«Capire che quando al potere ci sono dei moderati bravi, intelligenti, civili, come nel caso del suo Paese, occorre dialogare e collaborare».
Venga in Polonia e provi a spiegarlo ai miei amici di sinistra.