Camilla Conti e Luca Piana, l’Espresso 1/2/2013; Luigi Zingales, l’Espresso 1/2/2013; Paola Pilati, l’Espresso 1/2/2013; l’Espresso 1/2/2013;, 1 febbraio 2013
PEZZI SU MPS DELL’ESPRESSO
LA BANCA DEL BUCO–
La vittima è ancora lì, s otto choc: il Monte dei Paschi di Siena, la più antica banca del mondo. È stata ritrovata l’arma del delitto: una serie di contratti segreti, che hanno avuto due effetti. Il primo, avvelenare i bilanci dell’istituto; il secondo, ingannare le autorità di controllo. Sono noti i nomi dei sospetti esecutori: i manager che hanno gestito la banca fino a un anno fa, in primo luogo l’ex presidente Giuseppe Mussari .
Se il caso Monte Paschi fosse un thriller di John Grisham, i primi capitoli sarebbero già scritti. Per arrivare all’epilogo, però, la trama dovrebbe rispondere ai due interrogativi che si stanno ponendo anche gli investigatori in carne e ossa, i magistrati della Procura di Siena e gli uomini della Guardia di Finanza. Qual è il movente? I primi indizi suggeriscono che alcuni manager fossero soliti intascare la cresta su transazioni finanziarie dannose per la banca. Hanno già un nomignolo, la "banda del 5 per cento". E se davvero rubavano, bisogna vedere se godevano pure di coperture interne. Sul piano dei moventi della crisi generale della banca, è però scontato che ci sia un altro fattore fortissimo: la fame di potere. Governare il Monte significava avere in pugno la città di Siena e intrattenere relazioni con i grandi d’Italia. E magari, come si racconta di Mussari, puntare a una poltrona da ministro.
Dalla risposta alla prima domanda, cruciale in ogni romanzo poliziesco, dipenderà anche la seconda questione. Se esiste o meno un mandante. Se i bilanci sono stati abbelliti soltanto per permettere ai manager di restare in sella, a dispetto di capacità gestionali che non sono mai sembrate all’altezza della situazione. Oppure se, in realtà, qualche tangente è finita nelle tasche di uno o più dei politici che bussavano al portone di Rocca Salimbeni, la storica sede nel cuore medievale di Siena, dalla facciata falso-gotica costruita in realtà a fine Ottocento. Un’ipotesi che, a meno di una svolta improvvisa nelle indagini, oggi sembra ancora lontana da poter essere verificata.
LA RIUNIONE DEI MISTERI. Non si può comprendere lo sviluppo dei fatti se non si torna al momento in cui tutto ha origine. Secondo quanto ha appreso "l’Espresso", gli investigatori stanno concentrando la loro attenzione su una riunione - presenti Mussari e altri dirigenti - avvenuta nei giorni precedenti l’8 novembre 2007, quando il Monte annuncia l’acquisto della storica banca padovana Antonveneta.
Il prezzo è da capogiro: 9 miliardi cash. Una cifra già di per sé superiore rispetto ai 6,6 miliardi che il venditore - lo spagnolo Banco Santander - ha sborsato solo pochi mesi prima per conquistarla. E ancora più elevata se si considera che, al momento di passare effettivamente in mano ai senesi, ad Antonveneta verrà sottratta Interbanca, una merchant bank che gli spagnoli vendono separatamente. Nella loro ricostruzione i pm ritengono che, alla fine della riunione decisiva, i vertici del Monte abbiano messo nero su bianco un prezzo molto più alto di quanto previsto inizialmente. E vogliono capirne i motivi. Anche perché, alla fine, le risorse che Mussari sarà costretto a impegnare saranno ancora più ingenti.
QUEI BONIFICI DA 17 MILIARDI. Come ha rivelato "l’Espresso" lo scorso 7 dicembre, quando il contratto con il venditore diventa definitivo da Siena partono bonifici per 17 miliardi in direzione di varie entità del gruppo Santander. Il motivo è legato in piccola parte al fatto che il Monte accetta subito di pagare agli spagnoli gli interessi sui 9 miliardi pattuiti, fino a quando non arriverà l’autorizzazione della Banca d’Italia all’acquisto di Antonveneta. Alla fine, solo il conto ufficiale di questa voce sarà di 230 milioni.
In misura più consistente, l’aumento dell’impegno finanziario è legato al fatto che il Monte accoglie in seguito anche la richiesta di restituire agli spagnoli finanziamenti concessi ad Antonveneta per ulteriori 7,5 miliardi. In questo enorme fiume di denaro, alcuni dettagli meriterebbero spiegazioni che finora non sono state fornite. Il primo bonifico del Monte, ad esempio, è superiore di 37 milioni rispetto ai 9,23 miliardi che si ottengono sommando prezzo base e interessi. E ancora: 2,62 miliardi finiscono a una filiale londinese del Santander mai emersa in precedenza, la Abbey National Treasury Service. Da lì, gli investigatori ritengono che una parte sia transitata in paradisi offshore. E sono questi i movimenti che cercheranno di tracciare, per capire a chi sono effettivamente andati. Al momento, però, la pista seguita dagli uomini guidati dal pm Antonino Nastasi riguarda altri aspetti. E si concentra su un documento, considerato la chiave dell’accusa di avere ingannato gli organi di vigilanza e il mercato. Una contestazione che, se provata, può costare fino a 12 anni di carcere.
L’ARMA DEL DELITTO. Si tratta di una "lettera di indennizzo", firmata il 15 aprile 2008 in favore della banca americana Jp Morgan Securities e legata a un prestito da un miliardo lanciato dal Monte per finanziare il blitz su Antonveneta. Con una sintesi brutale, il senso è il seguente: quel prestito, convertibile in azioni a determinate condizioni e battezzato Fresh, con la lettera d’indennizzo firmata dal Monte cambiava le sue caratteristiche. Il Monte si impegnava infatti a rimborsare a JP Morgan eventuali perdite, mantenendo a proprio carico i rischi.
La questione, per la Banca d’Italia, è di grande rilievo. Ogni istituto di credito, per poter operare, deve avere un pre-determinato patrimonio, necessario per onorare gli impegni con i clienti. Senza lettera, il miliardo del Fresh passava per patrimonio nella disponibilità del Monte. Con la lettera, no. Quando la procura gliela ha girata, gli ispettori del governatore Ignazio Visco hanno chiesto al nuovo management se qualcuno aveva usufruito delle garanzie concordate con JP Morgan. La risposta è stata sì: il contrario delle rassicurazioni fornite in precedenza dai vecchi dirigenti, in particolare con una missiva inviata il 16 ottobre 2008. Così, un mese fa, la Banca d’Italia ha recapitato agli amministratori dell’epoca una serie di contestazioni. Il tono è tecnico, tagliente come una lama. «Egregi Signori, durante le recenti perquisizioni la Procura ha rinvenuto un documento che il Monte Paschi non aveva mai portato a conoscenza o trasmesso a questo istituto», recitano le prime righe.
A CACCIA DI COPERTURE. A Siena chi lo conosce racconta che Mussari, 50 anni, da studente abitava in un appartamento interno alla sezione Aldo Borri del Pci cittadino. Il partito domina la politica locale e lui cavalca l’onda diventando, in epoca Ds, presidente della Fondazione Mps, che controlla la banca e ne distribuisce sul territorio i ricchi dividendi. Un mare di finanziamenti che ha certamente contribuito a lustrare Siena a lucido. Ma che ha sclerotizzato il sistema di potere che gravita attorno al Pd, al suo esponenente di spicco in città, l’ex sindaco (ricandidato alle prossime elezioni) Franco Ceccuzzi. Mussari, però, non è tipo da rimanere fermo e cerca di coprirsi su ogni fronte. Stringe un’alleanza di ferro con il suocero di Pier Ferdinando Casini, Francesco Gaetano Caltagirone, che porta nel consiglio della banca, dove lui stesso nel 2006 si auto-promuove da azionista a presidente.
Caltagirone è anche uno degli imprenditori che ha scambi importanti con il Monte di Mussari, anche se non è il solo. Perché la banca sostiene - tra gli altri - giornali locali vicini alla massoneria, il gruppo Marcegaglia, il costruttore Riccardo Fusi, super-indebitato e legatissimo al coordinatore del Pdl, Denis Verdini. Nel 2011, quando Giuseppe Rotelli - re degli ospedali privati lombardi e grande azionista del "Corriere della Sera" - fa la sua prima offerta di 250 milioni per rilevare il San Raffaele di Milano, il Monte è in prima fila per assisterlo. Il consiglio di amministrazione approva infatti una delibera per garantire l’intera cifra con una fideiussione. Un impegno non da poco ma che i dirigenti approvano per paura che Rotelli - recita il documento - «possa trasferire presso la concorrenza le disponibilità attualmente in essere presso di noi». Tanti soldi: il «saldo creditore» è pari a 135 milioni.
Lo scambio politico più fitto è però quello con l’ex ministro Giulio Tremonti. Mussari - che diventa anche presidente della lobby delle banche, l’Abi - supporta tutte le iniziative della Cassa Depositi e Prestiti, che Tremonti trasforma nel suo braccio armato. Nel novembre 2008, il colpo grosso: nel decreto anti-crisi seguito al crack della Lehman Brothers l’alleato ministro, in cambio di un’aliquota fiscale leggermente inasprita, rende più rapidamente deducibili una serie di ammortamenti, permettendo alle banche di rimpinguare i profitti.
L’ATTACCO DEI CRITICI. Le coperture non risparmiano però Mussari dal malcontento interno. Chi sa leggere i bilanci, si preoccupa. Lo mostrano i verbali dei consigli di amministrazione. Ecco qualche esempio. Nell’aprile 2011 Caltagirone usa parole dure nei confronti del nuovo piano industriale: «Per non avere delusioni, ne è preferibile uno meno ambizioso ma realizzabile, specie sotto il profilo della redditività», dice. Nell’autunno successivo, poi, per diverse sedute gli attacchi si concentrano sulla gestione finanziaria del portafoglio di 39 miliardi di titoli, 32 dei quali in Btp. Alberto Monaci, all’epoca nell’area cattolica del Pd, ora candidato con la Lista Monti, in precedenza già critico su alcune operazioni nel comparto immobiliare, bolla le iniziative prospettate per far fronte alle perdite definendole «di peso marginale». E Frédéric De Courtois, che rappresenta l’alleato francese Axa, affonda il coltello: boccia la presentazione predisposta dai dirigenti, chiede «un’esposizione titolo per titolo» e di conoscere «per tutti gli investimenti finanziari, incluse posizioni in azioni o hedge fund, gli aspetti economici e i potenziali effetti in termini di liquidità». Quando nella riunione successiva questo viene fatto, De Courtois è lapidario: «Ci sono pochi titoli liquidabili».
L’UOMO DELLO SCUDO. A difendere l’operato della banca c’era, in quelle occasioni, l’allora responsabile dell’area finanza, Gianluca Baldassarri, che dopo aver lavorato sotto tre direttori generali è stato allontanato dal nuovo capo azienda, Fabrizio Viola. A chi lo conosce Baldassarri ha sempre spiegato che gli acquisti di Btp erano stati esaminati dal consiglio in ben quattro riunioni. E che al momento della sua uscita Mussari gli ha scritto una lettera di ringraziamento. Gli inquirenti, però, ritengono che a Baldassarri sarebbe riconducibile un tesoretto di fondi esteri di vari milioni, rimpatriato con lo scudo fiscale. E vogliono capire se è questa la strada per scoprire perché il Monte è stato avvelenato. E chi sono i responsabili.
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Un mariuolo, tanti complici morali
"UNA STORIA ITALIANA dal 1472". Così recita il motto del Monte dei Paschi di Siena (Mps). Ed è vero. La storia torbida di Mps e il suo drammatico declino rappresentano la storia italiana, lo specchio di quello che sta succedendo al nostro Paese.
Come all’epoca di Mani pulite, l’intero sistema cerca di scaricare la responsabilità su di un singolo "mariuolo" , in questo caso Giuseppe Mussari. Ma a differenza di Mario Chiesa, questo mariuolo non era un signore qualsiasi, era il presidente della Associazione bancaria italiana. «Qui assiste au crime assiste le crime» (chi assiste passivamente a un crimine, ne diventa complice), diceva Victor Hugo. In questo senso morale, anche se non necessariamente in quello giuridico, l’intera classe dirigente italiana è complice di questo disastro.
È moralmente complice innanzitutto il Pd di Bersani, che tramite il controllo di Regione, Provincia e Comune nomina 14 dei 16 consiglieri della Fondazione Mps. «Noi Mussari l’abbiamo cambiato un anno fa», si vanta Massimo D’Alema, non capendo che così si assume la responsabilità di aver nominato il mariuolo presidente della banca e di averlo tenuto lì per sei anni, durante i quali il valore della banca si è ridotto di 15 miliardi.
È moralmente complice la Banca d’Italia, che quell’istituto doveva vigilare. Se basta, come ha sostenuto il governatore Visco, un mariuolo per ingannare la Vigilanza, a cosa serve la Vigilanza?
È moralmente complice anche Mario Draghi, che in veste di governatore ha autorizzato il folle acquisto di Antonveneta da parte di Mps nel 2007, un acquisto fatto in fretta, violando i più basilari principi di buona corporate governance, senza una "due diligence", a un valore di 4 miliardi superiore al prezzo pagato dal Santander solo tre mesi prima. È moralmente complice anche di non aver agito - a quanto risulta dai bollettini di vigilanza - dopo che i suoi ispettori nel 2010 avevano trovato «profili di rischio non adeguatamente controllati» in Mps, come evidenzia il rapporto interno Bankitalia rivelato da Linkiesta.
È moralmente complice Giulio Tremonti che come ministro del Tesoro avrebbe dovuto vigilare sulla solidità delle fondazioni e invece ha permesso alla Fondazione Montepaschi di indebitarsi per mantenere il controllo della banca.
È moralmente complice anche Berlusconi che da premier ha avallato le scelte di Tremonti, rifiutandosi di criticare «un’istituzione a cui vuole bene» perché grazie a essa potè costruire Milano 2 e Milano 3.
È moralmente complice Mario Monti che ha concesso 3,9 miliardi di aiuti senza chiedere prima una pulizia radicale della banca. Come è responsabile di aver accettato in lista Alfredo Monaci, consigliere di amministrazione di Mps durante la gestione Mussari e oppositore dell’operazione di pulizia promossa (molto tardivamente) dal sindaco di Siena. È questa la società civile che Monti porta in politica?
È moralmente complice l’intero sistema bancario italiano. Mussari non solo è stato eletto presidente dell’Abi, ma è stato rieletto all’unanimità dopo che erano già trapelate le notizie di indagini sul suo conto. E Mussari non è stato un presidente qualsiasi: è stato la punta di sfondamento della lobby bancaria che ha chiesto a gran voce una causa legale contro il povero direttore della European banking association Andrea Enria, "colpevole" di voler imporre in maniera rigorosa gli standard europei di capitalizzazioni delle banche. E che ha tuonato lungamente per imporre una patrimoniale a difesa dei titoli di Stato, su cui il suo Montepaschi stava speculando per ripianare i buchi di bilancio.
Se tutti sono complici, come possiamo evitare di diventare complici anche noi? Richiedendo come condizione del nostro voto che il partito di nostra fiducia si impegni a sostenere una commissione parlamentare di inchiesta, presieduta da una persona al di sopra di ogni sospetto, che indaghi a 360 gradi sull’affare Monte Paschi e le colpe in vigilando di tutti gli organi istituzionali. E se il nostro partito non lo fa, votiamone un altro. Il potere di cambiare è nostro, riprendiamocelo!
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Gli intoccabili –
Il sistema bancario deve diventare sostenibile e non fare affidamento sull’intervento straordinario del contribuente». Parole di Obama dopo aver sborsato miliardi di dollari per il "bail out" delle banche Usa? O del governatore britannico dopo aver sventato il collasso di Royal Bank of Scotland? O di tutti quei governi - belga, irlandese, spagnolo - che hanno messo toppe costose sulla sventatezza delle proprie banche salvandole dal crack, tutto a valere sulle casse pubbliche? Nient’affatto: è il mantra che viene ripetuto nelle 150 pagine del Rapporto dei superesperti per la riforma del sistema bancario europeo, guidati dal governatore della Banca centrale finlandese Erkki Liikanen. Data: ottobre scorso. Solo pochi mesi fa, insomma, il tasso di fiducia che ai massimi livelli di competenza si nutriva sulla stabilità, trasparenza, affidabilità del sistema continentale del credito era assai basso, tanto da proporre la separazione tra attività bancaria tradizionale e quella di pura finanza. E alla reputazione delle banche non ha fatto certo bene la scoperta che in Gran Bretagna banche di prima grandezza manipolavano il Libor, il tasso che detta le condizioni del costo dei mutui per le famiglie in tutta Europa.
Come dare torto, allora, a quanti oggi di fronte al caso Montepaschi si chiedono: sicuri che ci fermiamo lì? Che le magagne senesi, dalle anomalie della governance del Monte, ai premi a manager che bruciavano la cassa, allo strapotere della Fondazione e della politica, ai derivati per fare il maquillage del bilancio, siano davvero solo magagne circoscritte al caso Siena? «Facciamo fallire le banche come tutti gli altri», ha detto giorni fa da Davos il premier islandese Grimsson, dando voce alla rabbia per quel massiccio piano di sostegno finanziario che i Parlamenti europei hanno messo in campo dal 2008 a ottobre 2011, ben 4.500 miliardi di euro, pari al 37 per cento del Pil continentale. Le banche, bontà loro, ne hanno consumati solo 1.600, a cui si sono aggiunti i 500 di liquidità a basso costo messa a disposizione dalla Bce guidata da Mario Draghi. Ma anche quando le banche non hanno ricevuto sussidi diretti, godono di un sussidio indiretto di fatto, che è quello insito nello slogan "too big to fail", troppo grande per fallire, vale a dire che la rete di sicurezza dello Stato non si vede, ma c’è.
D’altra parte come possono i governi dire no a una lobby bancaria che controlla, in Europa, attivi pari a tre volte e mezzo il Pil dell’area (negli Usa arrivano all’80 per cento)? Gli attivi di Mps, per esempio, rappresentano il 15 per cento del prodotto interno lordo del nostro paese. Impossibile mandarla in malora, e dunque ben vengano i Monti bond (dopo quelli di Tremonti), 3,9 miliardi di prestito, anche se già si sa che saranno assai difficili da ripagare e che rischiano di essere convertiti in azioni, portando lo Stato a possedere l’82 per cento del Monte (calcolo ai valori di oggi).
Almeno fossero riconoscenti, almeno abbassassero le penne, ammettendo di averla fatta grossa. No. Di fronte ai moniti delle authority, si comportano come di fronte a una museruola: protestano, e lavorano per neutralizzarla. Come è appena successo per la proposta Liikanen sulla separazione tra banca commerciale e finanza, bloccata dal Commissario europeo Michel Barnier. E quando l’Eba, l’authority bancaria europea guidata da Andrea Enria, aveva preteso la ricapitalizzazione dei cinque maggiori istituti italiani, Mps incluso (il 62 per cento del sistema), tenendo conto della loro esposizione ai titoli di Stato e al rischio spread, ma anche ai derivati, è successo il finimondo con minacce di azioni legali da parte dell’Abi. Eppure oggi i fatti dimostrano che nei bilanci il peso di entrambi i fattori richiedeva di correre ai ripari. «L’Abi è stata particolarmente attiva a criticarci», ricorda Enria, «ma abbiamo tenuto duro, e oggi nessuno può vedere le banche italiane come elemento di fragilità». Mettere più capitale però non è tutto: «L’azione di riparazione del sistema prevede anche una pulizia dei bilanci che ridia fiducia al sistema», sottolinea Enria. Ma questo, di fatto, «procede a macchia di leopardo». Cioè non tutti hannno voglia di realizzarlo.
Pulizia difficile, soprattutto sul fronte dei derivati, quel tipo di contratti finanziari su cui il Monte ora rischia 700 milioni di perdite. Cifra che equivale probabilmente al guadagno della banca d’affari con cui ha stipulato il derivato. «Non demonizziamoli», dice Mario Comana, docente di banche e intermediari finanziari della Luiss, «anche un mutuo con un tetto al tasso da pagare è un derivato». Rispetto a banche come Barclays, Deutsche bank, Bnp Paribas, dove il valore dei derivati è anche il duemila per cento dell’attivo della banca, le banche italiane si tengono ampiamente sotto il mille per cento, roba da principianti. Tuttavia il problema derivati non fa dormire sonni tranquilli a nessuno. Perché a disinnescare il loro potenziale distruttivo nei bilanci e il loro effetto di moltiplicazione del contagio ci stanno provando da anni tutti gli organismi di regolazione. Senza risultato. «Il fatto che siano costruiti su misura per esigenze della controparte», dice un’analisi della Bce, «fa sì che siano contrattati over the counter (otc)», cioè negoziati tra le parti, fuori dai mercati regolamentati. Per loro natura restano insomma nell’oscurità.
Un rimedio, dicono all’Eba, è aumentare i requisiti patrimoniali per il rischio di credito che i derivati hanno in sé; altra contromisura, imporre che vengano trattati su una piattaforma centrale comune, per dare loro trasparenza. Di entrambi i rimedi si sta valutando l’impatto per il sistema banche, per dosare le nuove misure senza sbagliare. Di certo, sarà il prossimo campo di battaglia tra la grande lobby dei banchieri e le authority, come una eterna corsa tra guardie e ladri.
Per le banche italiane un peso particolare lo stanno assumendo le sofferenze. A fine novembre le sofferenze lorde erano 122 miliardi, due in più rispetto a ottobre. Le sofferenze nette rispetto agli impieghi hanno raggiunto la percentuale del 3,23, record degli ultimi due anni. «Ma gli accantonamenti per fare fronte alle sofferenze sono scarsi», sostiene Carlo Milani ricercatore del Centro Europa Ricerche: «erano del 50 per cento prima della crisi, ora sono scesi al 40, e questo per non deprimere gli utili; senza contare che anche l’emersione delle sofferenze in portafoglio non è del tutto veritiera. Credo che sia sottostimata di 10-15 miliardi».
Ma c’è una fragilità dell’intero sistema banche che mette in luce Marcello Messori, economista a Tor Vergata: la macchina degli utili s’è rotta. «Il modello che ha permesso alle banche di essere generose con i finanziamenti alle imprese, addossandone i costi alle famiglie, a cui vendevano obbligazioni che rendevano meno dei titoli di Stato, è finito», dice. «Ora le famiglie, dopo i casi di risparmio tradito, sono più avvertite; e prestare alle imprese è diventato rischioso». Dunque? Dunque le banche prevedono anni magri, con una bassa crescita dei prestiti e una ripresa anemica degli utili. Nel 2014 al monte ricavi del settore mancheranno ancora 10 miliardi dell’epoca precrisi. Dileguàti, e chissà se mai torneranno. Perché il nuovo "new normal" delle aziende bancarie, lo ammettono loro stesse nell’ultimo rapporto di previsione Abi, avrà «un livello di redditività non soddisfacente né per gli azionisti né per garantire un’efficiente e sicura operatività delle banche». Quindi: le banche non falliranno, ma occhio al proprio conto corrente, dove sono gli unici soldi in circolazione.