Marco Damilao e Denise Pardo, l’Espresso 1/2/2013, 1 febbraio 2013
L’UOMO CHE VOLLE FARSI RE
Con la sua sublime perfidia, Giuliano Amato lo fotografò, nel dicembre 2011, quando era al massimo del suo potere e si era appena spenta l’eco degli applausi a scena aperta dei 2.500 piccoli banchieri del Credito Cooperativo: «Avevo lasciato un Mussari giovane studente e lo ritrovo oggi tribuno delle banche». Era la parabola di Giuseppe Mussari, dalla kefiah dei giovani comunisti al vertice della piramide bancaria, «esperto di idraulica», aveva continuato a stuzzicarlo Amato alludendo al suo discorso sui flussi del credito e rimproverandolo per aver aperto l’iPad: «Se il presidente Mussari mi ascolta quando parlo...». Si sentiva onnipotente il capo dell’Abi, ancora presidente del Monte dei Paschi di Siena, la cassaforte rossa, l’uomo che volle farsi Master della finanza trainante una politica debole e affamata, la pettinatura alla Fabrizio Corona non alla Vittorio Grilli, non la cartella al braccio ma lo zainetto, altro che auto blu, un cavallo, Già del Menhir, il suo purosangue arabo che ha vinto tutto a Siena, veloce, nervoso come lui. Uno che dopo aver dominato Rocca Salimbeni, comprato Antoveneta e conquistato la guida dei banchieri sognava di diventare ministro. Il pivot di un sistema di potere universale, dalla Chiesa alla massoneria, dalla sinistra alla destra, la piazza del Campo del villaggio Italia. E chissà dove sarebbe arrivato dodici mesi fa con Geronzi al tramonto, Passera appena entrato in politica e Profumo fuori dai piedi. Era lui il nuovo banchiere di sistema, piazza del Campo al posto di piazzetta Cuccia, al posto di Milano l’arcaica Siena con i suoi 55 mila abitanti, falce e martelli insieme ai compassi e alle croci, fantini nepotisti (il figlio di Aceto, la gloria della città, piazzato ai vertici di società del gruppo) e monsignori piromani (di documenti compromettenti), riti secolari e titoli giapponesi da terzo millennio. E capipartito che si atteggiano a burattinai e invece sono sempre più burattini.
E invece ora lo scandalo dell’uomo del Monte, due inchieste, una sulla privatizzazione dell’Aeroporto di Siena, l’altra, più delicata, sull’operazione Antoveneta, deflagra e contamina, in piena campagna elettorale, seminando veleni e paure sui legami che muovono nell’ombra i fili della politica italiana. Il Babbo Monte, come lo chiamano i senesi, è la rappresentazione plastica del collante che unisce i poteri al di là delle loro divisioni apparenti: una Bicamerale permanente, quella che il capo massonico di Siena Stefano Bisi, amico di Mussari, accarezza come un «groviglio armonioso». Banche, partiti e i loro derivati. Che hanno corso per anni un Palio senza regole, con la partecipazione delle contrade di ogni colore: il Pd, il padrone di casa con le sue varie cordate, D’Alema, Bersani, Bassanini, i Ds e la Margherita, accanto al Pdl, i centristi accanto alle Coop e alla Cgil. Una conventio ad includendum. Ora che il caso è esploso, nel momento peggiore, a tre settimane dal voto, Pier Luigi Bersani si fa minaccioso: «Sbrano chi accosta il Pd allo scandalo Mps», Casini lo difende, Berlusconi tace, incredibilmente, eppure avrebbe un’occasione d’oro per attaccare la casamatta del Pci-Pds-Ds. Tutti hanno paura di maneggiare la mina Monte dei Paschi. E c’è il sospetto, immancabile, dello scandalo a orologeria, del Grande Vecchio. «Io ci vedo la mano degli americani», insinua un influente notabile Pd, «guarda caso la notizia è uscita dopo che Monti aveva incontrato i consulenti di Obama: le campagne elettorali le fanno così». Gli illuminati e la Cia, già. Qualunque cosa pur di allontanare una vicenda molto più domestica, troppo scomoda. Perché il buco non è solo figlio di una finanza spregiudicata, ma rappresenta un atto d’accusa politico.
La Bicamerale di Siena la costruisce Mussari, il forestiero, padre calabrese e madre senese, «nato sulle lastre», come dicono da queste parti, che nel 2001, neppure quarantenne, arriva alla presidenza della fondazione Mps. Mussari è un avvocato in carriera (eserciterà una sola volta da patron dell’Mps, per difendere monsignor Giuseppe Acampa, segretario dell’arcivescovo Buoncristiani, accusato di incendio doloso, calunnia e truffa, poi assolto). Non disdegna il Grande Oriente, ha nella tasca la tessera giusta, quella dei Ds. È amico del cuore di Gianni Cuperlo, l’ex leader dei figiciotti che in quel periodo fa da ghost writer a D’Alema, e anche pupillo del sindaco Pierluigi Piccini, iracondo e ambizioso, pronto a trasferirsi dal Comune a guidare la neonata Fondazione. Sembra fatta quando dal Botteghino arriva il niet: Piccini (cui nel 2003, raccontano, Bersani e Visco spiegheranno che la bruciatura fu provocata dalla sua opposizione alla fusione con Bnl) viene bloccato con una circolare ad personam (sarà valida solo pochi mesi) del ministro Vincenzo Visco e scritta dal direttore generale del Tesoro Mario Draghi. Proprio l’uomo che da governatore di Bankitalia darà un via libera molto perplesso all’acquisto da oltre 10 miliardi di euro nel novembre 2007 della banca Antonveneta, un prezzo spropositato pagato alla Banca Santander dell’Opus Dei. Così con l’escamotage in cui si vieta il passaggio diretto da cariche politiche a ruoli di guida nelle fondazioni nel 2001 al posto dell’ex sindaco arriva il giovane Mussari, uno di cui Piccini diceva: «Gli facevo fare un po’ di manovalanza, tipo tagliare la mortadella».
Invece Mussari gli taglia la strada. A Siena si diceva: «A Piccini ha portato via la Fondazione, all’altro amico Franco Masoni ha portato via la moglie». Il terzo uomo è Franco Ceccuzzi, futuro sindaco, ieri concelebrante del matrimonio Mps-Antonveneta («Sono anime gemelle», fu il suo commento) e testimone di nozze di Mussari, oggi suo nemico giurato nei panni del moralizzatore. In dieci anni «il Serpente», come lo definisce Piccini, è la personificazione del Mps: controlla ogni carta e tutto il territorio, dalle sezioni alle parrocchie, dal basket al calcio, da Cl alle coop all’informazione, il socio numero uno di tutto ciò che è pubblico in Toscana. E se qualcuno si permette una critica arriva puntuale la chiamata di Mussari: «Tra noi i rapporti erano buoni, è cambiato qualcosa?». L’istituto diventa la cerniera tra la Fondazione nominata dagli enti locali (Comune, Regione e Provincia), da sempre riserve del partitone rosso (con la Margherita alleata), e il cda della banca in cui siedono i poteri che il gran croupier sa bene come rastrellare. Con l’idea fissa che chi comanda a Siena determina il gioco economico e politico in Italia.
Tanto che nel 2005 Mussari può permettersi di dire no all’operazione Unipol-Bnl benedetta da D’Alema, Fassino e Bersani: è il partito che non può fare a meno di lui, non il contrario. Il Gran rifiuto gli costa una rottura con il Botteghino. Eppure la sua fede è indiscussa. In nove anni elargisce a titolo personale ai Ds e al Pd 683 mila euro, tutti registrati. È lui a chiudere i congressi della Quercia senese, non si perde una festa dell’Unità alla Fortezza. Ma è un cda-Bicamerale quello che autorizza nel novembre 2007 l’operazione Antoveneta. Vicino al banchiere rosso siede da vicepresidente l’amico Francesco Gaetano Caltagirone, suocero di Casini, sposato con sua figlia Azzurra proprio a Siena, raggiante Mussari e il compagno sindaco Maurizio Cenni a celebrare il rito. Un buon affare per l’uomo più liquido d’Italia, a proposito di idraulica. Quando se ne va, fiutata l’aria, lascia il figlio Francesco jr per qualche anno nel cda di Antonveneta dove siede vicino ad Aldo Berlinguer, figlio di Luigi, ex rettore dell’università in cui si è laureato Mussari. Famiglie, relazioni, il groviglio, la macchina del consenso. Nel cda ci sono Andrea Pisaneschi, coinvolto nell’inchiesta G8, l’amico del cuore di Denis Verdini (il coordinatore Pdl così vicino a Mussari da chiedergli prestiti «me lo devi come favore»), e Carlo Querci, babbo di Niccolò, l’ex assistente di Berlusconi e di Marcello Dell’Utri. E poi Lorenzo Gorgoni, cugino del ras della Puglia, l’ex ministro Raffaele Fitto, «un uomo che stimo e della cui amicizia mi onoro», D’Alema dixit, ex vicepresidente della Banca del Salento, la 121 cara al leader Ds che nel 2000 fu annessa a Mps insieme al suo direttore Vincenzo De Bustis che conservò il ruolo a Siena. Ma ad avere l’egemonia, di certo non quella culturale, sono i rappresentanti dei poteri forti dell’allora Ds. Il capo delle Cooperative toscane Turiddo Campaini e il presidente delle Coop emiliane Pierluigi Stefanini, amico di Pier Luigi Bersani fin dagli anni Ottanta quando era capogruppo del Pci in Emilia e Bersani giovane assessore.
Il Sistema Mussari porta a casa l’acquisizione dell’Antonveneta e poi viene esportato a Roma. Nel giugno 2010 l’avvocato viene eletto per acclamazione presidente dell’Abi, con la benedizione di un nuovo amico, il numero uno del governo Berlusconi, Giulio Tremonti, di cui è commensale delle colazioni del lunedì organizzate a Milano. Tremonti, anche lui ora come Ceccuzzi angelo sterminatore delle malefatte senesi, stravede per lui. Al punto che Mussari racconta in giro che in caso di un governo di grande coalizione con Giulio premier lui potrebbe diventare superministro. Nell’attesa trasforma l’Abi da organismo tecnico a macchina da guerra politica: taglia i dipendenti con il plauso della Fisac-Cgil di Agostino Megale, organizza la Rete Italia con la Confindustria di Emma Marcegaglia e le cooperative bianche di Luigi Marino, orchestra la concertazione a Palazzo Chigi, sempre più ambizioso.
Ma a Siena il sistema vacilla. Nel 2012 c’è la prima inchiesta giudiziaria contro i vertici della banca e gli organi di controllo, la richiesta di un prestito dello Stato da 3,9 miliardi per fronteggiare le perdite dell’istituto e il cambio alla presidenza. Al posto di Mussari arriva Profumo. Cade anche la giunta comunale dopo una faida tra Ceccuzzi e la corrente ex Margherita dei fratelli Monaci: Alberto, presidente del consiglio regionale toscano, e Alfredo, ex cda Mps, è oggi candidato nella lista del premier Monti che tuona contro la gestione della banca. Il doppio crollo di un’epoca: banca e Comune, Monte e partito, i siamesi di piazza del Campo e non solo, l’oro di Siena. Come per una premonizione Matteo Renzi aveva chiuso la campagna per le primarie nella città dei Paschi. Infuriava lo scontro con Bersani sul finanziere Davide Serra sostenitore del sindaco e habitué di paradisi fiscali. «Chi di finanza colpisce di finanza perisce», commentò con i suoi il Rottamatore. Mai frase fu più profetica.