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 2013  gennaio 26 Sabato calendario

IL VENTO DELL’EST SOPRA ISRAELE

L’ultima settimana del 2012 è stata tumultuosa, a Haifa: i rabbini hanno fatto sapere ai proprietari di alberghi e ristoranti che, se avessero festeggiato il nuovo anno del calendario gregoriano, si sarebbero visti revocare la certificazione kasherut. I titolari delle attività e vane organizzazioni hanno protestato contro la minaccia considerata troppo dura, specie per una città variegata come Haifa.
E’ evidente che il problema non si sarebbe mai posto senza il grande flusso migratorio degli anni 90 che un saggio di Lily Galili e Roman Bronfman appena pubblicato in Israele definisce nel titolo Il milione che ha cambiato il Medio Oriente. Spiegano gli autori; «Nell’Unione Sovietica, l’abete simboleggiava l’inizio del novi god, il nuovo anno. Era una festività privata, famigliare, non imposta dallo Stato ne dettata dal partito, un tocco di colore in Lina vita grigia. Gran parte degli immigrati russi giunti da poco in Israele non aveva alcun legame con le festività ebraiche, e desiderava invece ricostruire parte delle tradizioni che aveva portato con sé. Finché erano vissuti nello stato comunista non avevano mai conosciuto il Natale e San Silvestro, il papa da cui la festa di Capodanno prende il nome, era per loro uno sconosciuto». Di fronte alla rabbia e alla paura dei vicini, la stessa rivolta ai tanti «gentili» che stavano riempiendo il paese di simboli cristiani, i nuovi immigrati all’inizio avevano nascosto l’albero in un angolino dell’appartamento, senza capire davvero il complesso confronto di culture che era in atto. «Poi però, lentamente ma inesorabilmente, gli abeti uscirono dalla sfera privata per entrare in quella pubblica, e cominciarono a essere apprezzati perfino da qualche israeliano storico. Oggi sono parte integrante del paesaggio tardo-dicembrino, e alcune discoteche e pub organizzano addirittura serate di Capodanno, con tanto di finta neve fatta di polistirolo».
Pur riguardando una minoranza, l’esempio illustra un mutamento autentico, che Lily Galili e Roman Bronfman fanno iniziare alla fine degli anni 80, quando il primo ministro Yitzhak Shamir si rese conto che Gorbaciov si preparava a lasciar liberi gli ebrei che volevano andarsene dall’Urss perché voleva che gli americani garantissero i prestiti necessari alle ambiziose riforme che aveva in mente.
Bronfman e Galili descrivono i canali clandestini e ufficiali attraverso cui lo Stato di Israele portò avanti quest’immigrazione, nonché gli interessi in gioco. Shimon Peres, per esempio, era convinto che rafforzare la componente ebraica nella popolazione israeliana avrebbe reso il paese abbastanza sicuro di sé da lanciare i negoziati di pace con i palestinesi. I palestinesi, dal canto loro, apparvero terrorizzati dall’immigrazione di massa: «II presidente dell’OLP Yasser Arafat e i leader degli stati arabi Mubarak, Assad e rè Hussein tennero un summit per discutere come convincere l’Urss a prevenire la partenza degli ebrei per Israele». Secondo gli autori, fu proprio il timore di questo afflusso di nuovi immigrati a spingere la leadership palestinese a cercare con più determinazione accordi di pace. Galili e Bronfman descrivono inoltre le speranze e le paure diffuse nella società israeliana: «La classe media ashkenazita e la sua élite attendevano con ansia "rinforzi umani", sotto forma di immigrati bianchi e istruiti che salvassero il paese dal processo di «levantinizzazione» apparentemente in atto. Gli arabi di Israele dal canto loro vivevano nel terrore di vedersi espropriare le terre per destinarle come insediamenti agli immigrati ebrei, e di venire licenziati da datori di lavoro che preferissero assumere i russi». Nel 1989, il quotidiano Maariv pubblicava un articolo dal titolo «Fate presto, fratelli», in cui il giornalista Amnon Dankner esprimeva la speranza nell’arrivo di «mezzo milione o più di ebrei che amino studiare e leggere, andare a teatro e ai concerti». Dal punto di vista politico, la sinistra era convinta che il profilo culturale laico dei nuovi immigrati li avrebbe spinti a gravitare verso i pacifisti, e la destra era certa considerate le tendenze politiche degli immigrati sovietici degli anni Settanta di trame all’opposto un vantaggio».
Contemporaneamente, a rendere imponente ondata migratoria fu la pressione israeliana per un cambiamento nelle politiche americane: dopo anni in cui gli Stati Uniti avevano aperto le porte agli ebrei dell’Unione Sovietica, fu Yitzhak Shamir a insistere col Dipartimento di Stato americano perché si sbarazzasse della «clausola di asilo politico» che garantiva lo status di rifugiati agli ebrei emigrati negli Stati Uniti dall’Unione Sovietica», arrivando addirittura a definirla «un insulto a Israele»; «Finché dall’ottobre del 1989 ricorda Il milione che ha cambiato il Medio Oriente, «i visti d’uscita rilasciati dall’Unione Sovietica agli ebrei che volevano emigrare furono validi solo per raggiungere Israele». Chiusa la porta degli Usa, in Israele la burocrazia dell’integrazione si rivelò tuttavia disseminata di punti deboli: chi in Russia aveva conosciuto il successo professionale, pur essendo ebreo, nella terra promessa non riusciva a trovare lavori commisurati alle sue competenze e al suo livello di istruzione. Li attiravano con promesse ingannevoli (la città di Anel nella West Bank, per esempio, veniva spacciata per una centralissima cittadina universitaria), e presto cominciò una vera carenza di alloggi. I rami dello Stato operavano in maniera scoordinata. La musica, nell’establishment, cambiò velocemente, e alle lodi per il «genio ebraico» dell’Est Europa si aggiunsero progressivamente gli stereotipi sui russi: prostitute, mafia e titoli di studio falsi. La difficile assimilazione della comunità russa, il suo separatismo e l’influenza che ha esercitato hanno cambiato anche la storia di Israele. Galili e Bronfman sostengono che proprio a quel segmento di popolazione si debba il rovesciamento politico che nel 1992 portò Yitzhak Rabin al potere (quattro seggi nella Knesset che il Partito Laburista ottenne grazie al desiderio di vendetta degli immigrati contro il Likud, che aveva fallito nell’assorbire l’immigrazione di massa). E importante è stato in questi anni il ruolo dei media israeliani in lingua russa (Channel 9, Radio Reka, decine di quotidiani di ogni tipo): «Grazie all’assoluto disinteresse degli israeliani storici, che li percepivano come stranieri e non ne comprendevano la lingua, i media russi di Israele potevano fare ciò che volevano, muovendosi in un mondo governato da norme e valori alieni alla vita del paese che li ospitava». Nel farlo, attiravano inoltre scrittori colti, dotati di grande talento e con una sorprendente padronanza dei segreti della lingua russa, formati all’interno di un regime totalitario. Il milione che ha cambiato il Medio Oriente, attraverso statistiche, informazioni concrete, analisi in profondità, illumina anche equivoci come la convinzione che l’orientamento politico della comunità russa tenda decisamente a destra: «A metà degli anni 90 l’Adam Institute for Democracy and Peace condusse un esperimento interessante: a vari gruppi di nuovi immigrati furono presentate le piattaforme politiche di tutti i partiti israeliani tradotte in russo, omettendo però il nome del partito a cui si riferivano. La maggior parte scelse il Meretz-Yachad, cioè la sinistra laica, sionista e socialdemocratica. Scoprendo che partito avevano scelto, gli stessi immigrati si mostrarono molto sorpresi, e in seguito, alla prova dei seggi, soltanto il 4 percento di loro si espresse in favore del partito al quale nel "test cieco" si era mostrato più vicino. Un’immagine più potente della realtà dei fatti, e che sottolinea ulteriormente il fallimento e l’occasione persa dalla sinistra.
«Israele se la cava molto meglio con il contingente», scrivono gli autori in uno dei primi capitoli, «che nella gestione sul lungo periodo di una politica di integrazione»,. E la stessa affermazione, all’inizio del 2013, sembra si possa estendere anche alla condotta di Israele sul piano diplomatico, politico e sociale, e in tutti i segmenti della sua popolazione.