Mara Accettura, D, la Repubblica 26/1/2013, 26 gennaio 2013
IL CIBO CHE VERR
Tacos con cavallette. Pasta di alghe. Papaya ogm. Pomodori incrociati col basilico. Latte "umano" ma munto dalle mucche. Pesci Cobia e Barramundi allevati in vasche cittadine alla velocità della luce. Vino che, grazie alle nanotecnologie, diventa Chianti o Merlot al tocco di un bottone. Lattuga fresca anche dopo mesi. Hamburger in vitro. Non storcete il naso. È il menu sulla tavola di domani. E se l’hamburger artificiale è ancora un po’ lontano (ci vorranno risorse e tecnologia da Nasa, quello che si è riuscito ad ottenere finora è – bleah – simile a un budino), tutto il resto è dietro l’angolo.
Non si tratta solo di capricci da designer. In gioco c’è una scommessa seria. Nutrire in modo efficiente e sostenibile una popolazione che nel 2050 raggiungerà i 9 miliardi di persone. Senza distruggere il pianeta. «In tutto il mondo c’è un esercito di imprenditori, scienziati, agricoltori e chef che stanno cercando di cambiare quello che mangiamo, il modo in cui lo produciamo e i nostri atteggiamenti rispetto al cibo», dice Josh Schonwaid, autore di The Taste of Tomorrow: Dispatches from the Future of Food. «Il punto non è quello che riusciremo a realizzare. Ma quello che riusciremo ad accettare a tavola». Koert van Meensvoort, è assistente all’University of Technology di Eindhoven, Olanda, una specie di Mit europeo dove un team di ricercatori sta ridisegnando il futuro (vi consigliamo il sito nextnature.net per avere un’idea degli scenari da film di Cronenberg che ci aspettano). «Abbiamo un concetto molto antiquato e nostalgico di quelle che è naturale», dice. «Ma in futuro la tecnologia sarà sempre più indistinguibile dalla natura, lo sono per la naturalizzazione dell’artificiale. La produzione di carne odierna non è più sostenibile anche se non mi aspetto che la bistecca in vitro verrà prodotta dall’industria della carne. Oggi chi dice che non mangerà mai carne da laboratorio non si accorge che il nostro cibo è già surreale e staccato dalla natura, vedi le crocchette di pollo o lo stesso vino, un prodotto già largamente artificiale».
La naturalità del cibo è una favola il più delle volte inventata dagli esperti di marketing per venderci un’illusione di autenticità. Potrebbero raccontarci qualsiasi cosa perché se ci pensiamo bene nessuno sa da dove viene, che ricadute ha sull’ambiente e come è fatto davvero quello che mangiamo. Per contro per qualsiasi manipolazione in laboratorio si parte da una presunzione di colpevolezza (già contenuta nella definizione Frankenfood) anche quando una superproduzione su larga scala potrebbe salvare delle vite. Ma oggi, alla luce dell’emergenza alimentare persino gli ambientalisti tecnoscettici stanno rivedendo le loro posizioni talebane. Come l’attivista Mark Lynas che ha aperto il suo intervento alla Oxford Farming Conference di inizio mese con questa pubblica confessione: «Mi scuso per avere speso diversi anni a devastare coltivazioni modificate geneticamente. Mi scuso per aver dato vita al movimento anti OGM negli anni 90, demonizzando una tecnologia che potrebbe fare bene all’ambiente».
Pamela Ronald è una scienziata particolare. Genetista dell’UC Davis (in California) e autrice di Tbmorrow’s Table, la cui ricerca si concentra sullo sviluppo di un tipo di riso a prova di inondazione che potrebbe nutrire popolazioni colpite da emergenze come il Bangladesh, è una agguerrita sostenitrice degli Ogm. «Non c’è alcuna ragione scientifica per cui il cibo geneticamente modificato sia più dannoso di quello tradizionale. Non è possibile dire che è tutto buono o cattivo perché ogni raccolto viene modificato per scopi diversi. Per esempio il cotone geneticamente modificato esprime il BT, una proteina usata dagli agricoltori biologici per controllare gli insetti. Coltivare questo tipo di cotone ha significato ridurre drasticamente l’uso di insetticidi tossici nell’ambiente. Un altro esempio è la papaya: nelle isole Hawaii l’USDA (il dipartimento dell’Agricoltura statunitense) ha supportato un programma per modificare la resistenza della pianta a un virus devastante. Non c’era altro metodo per salvarla dall’estinzione». Non è che Pamela Ronald non creda nel biologico: è sposata con Raoul Adamchack, ex socio dell’azienda organic Full Belly Farm e oggi professore di Agricoltura biologica, il loro è un perfetto matrimonio tra natura e scienza. Semplicemente vede il bio come un fenomeno di nicchia (e non a prova di crisi, visto che in Occidente aumenta il consumo di junk food) e non crede che servirà a sconfiggere la fame. «Non sono contro le biotecnologie, ma mi preoccupa che a proporle siano gli stessi che per anni hanno drogato l’agricoltura coi pesticidi. Per me vale un principio di precauzione, perché non esistono ancora studi a lungo termine convincenti sugli Ogm», obietta Carlo Petrini di Slow Food. «Detto questo, la scienza vada avanti, ma che sia super partes, non quella finanziata dalle multinazionali». «Occorre tornare al pulito e al rispetto della natura», dice Oscar Farinetti, l’imprenditore che ha fondato Eataly, catena alimentare legata ai piccoli produttori che esporta cibo in tutto il mondo (l’opposto del km zero). «La scienza ci deve ancora aiutare nella conservazione e nei trasporti. Ma ciò che più serve è la coscienza, cioè rispetto e impegno». Il nostro rapporto con il cibo è contraddittorio e edulcorato da una falsa economia dell’abbondanza. Vogliamo qualità gourmet a prezzo da discount. Osanniamo il locale e il tradizionale ma guai toglierci le fragole a gennaio o la carne argentina. Demonizziamo l’Ogm e poi riempiamo il carrello di junk food. Vogliamo addominali tartarugati ma anche abbuffarci di pastasciutta. Appoggiamo l’ambientalismo ma mangiamo indiscriminatamente carne. Quello che sta succedendo a livello globale, però, ci dice che siamo davvero all’ultimo giro di giostra. Presto non avremo scelta: la terra è totalmente stressata e la scienza ripara le emergenze create da un modello produttivo suicida. La gente muore di fame eppure un terzo dell’intera produzione alimentare globale serve a nutrire circa tré miliardi di animali da allevamento. «La pianura padana è tutta coltivata a mais per dar da mangiare alle bestie. Mangiamo troppa carne. 100 chili a testa all’anno in Italia e 125 negli Stati Uniti sono un’enormità. Se in Africa, dove sono fermi a 5, consumassero lo stesso quantitativo non basterebbero cinque pianeti! I gourmet dovrebbero essere responsabili», continua Petrini. Su questo principio, la consapevolezza del consumatore, è d’accordo anche Louise Fresco, professore di Sviluppo sostenibile all’Università di Amsterdam e ex advisor alla Fao: «Non sono contro fast food e carne, ma per la moderazione e la parziale sostituzione delle proteine animali con quelle vegetali». E poi c’è un problema di spreco. «Sprechiamo il 50 per cento della produzione globale di cibo. Se non cambia il paradigma saremo sempre più intasati di spazzatura», dice Petrini.
Fino ad ora il dibattito è stato polarizzato da due estremi: i tecnocrati che insistono sulla crescita e ritengono impossibile produrre cibo sostenibile su larga scala e i fautori del biologico che si battono per il sostegno del locale e il rispetto dei cicli naturali. «Ma questo è controproducente», dice Schonwald. «Assaporare lo slow food e cercare asparagi selvatici non dovrebbe essere in contraddizione con la creazione di riso arricchito in laboratorio con vitamina A che potrebbe salvare i bambini dalla cecità». La soluzione verrà solo quando visionari alla van Mensvoort, genetisti come Roland, intellettuali come Fresco e "slowfoodiani" come Petrini apriranno la conversazione alla stessa tavola. E decideranno insieme cosa mettere sul menù.