Imma Vitelli, Vanity Fair 30/1/2013, 30 gennaio 2013
MALI, GROUND ZERO CHI MI HA FATTO QUESTO SECONDO VOI MERITA LA PACE?
Dritto davanti a un cratere, il colonnello francese Frédéric osservava per la prima volta gli effetti delle sue bombe. Aveva diretto la battaglia da un avamposto a un centinaio di chilometri dal fronte; le notizie dal terreno erano state incerte, avvolte in una tempesta di sabbia.
A vedere, per lui, erano i piloti dei caccia Rafale e i rambo delle forze speciali, che aveva mandato in territorio nemico, in caffettani e turbanti. Ora, finalmente, c’era anche lui, a Diabaly, nella provincia di Ségou, nel Mali centrale, a respirare l’odore nauseabondo della morte.
C’era un corpo, sotto la voragine, era evidente.
Nella calura del meriggio africano, tra due acacie spennate dalle schegge, un piccolo dosso di terra delineava i contorni del cadavere di un ribelle. Dovevano averlo sepolto in fretta, sotto i bombardamenti. Una penna di chissà quale volatile, piantata in verticale, indicava la testa.
Ero lì, a osservare la scena, quando arrivò il colonnello Frédéric.
Era un uomo minuto, dal volto tondo, sulla quarantina, col sorriso bianco: il comandante delle operazioni francesi in zona. Lo avevo rincorso per giorni cercando di strappargli informazioni, e per giorni mi aveva sorriso e risposto: «Je ne sais pas», non lo so.
All’improvviso, capivo. Era vero. Non sapeva. Era stato catapultato all’improvviso dal presidente François Hollande in guerra in un Paese che non conosceva, su un fronte che gli sfuggiva, a combattere nemici che lo eludevano, con alleati – i militari locali – che confidavano negli stregoni per vincere Al Qaeda.
Salutai il colonnello: «Se l’aspettava così Diabaly?».
«Non mi aspettavo niente».
Indicai il cratere: «C’è un corpo, lì sotto».
Lui si voltò verso il dosso e fece sì col capo: «È la vita».
Ci pensò un attimo e si corresse: «È la morte».
Era lunedì 21 gennaio, ed erano passati dieci giorni dal drammatico intervento francese in Mali. Un’alleanza islamista aveva preso il potere nel Nord del Paese nei primi mesi del 2012, e aveva festeggiato l’anniversario muovendosi a sorpresa verso Sud lo scorso 10 gennaio. Le forze armate maliane, mal addestrate, mal equipaggiate e indebolite da un recente golpe, si erano arrese nel villaggio di Konna, sul grande fiume Niger. Diabaly era caduta quando già, dal cielo, i francesi facevano sentire il loro tuono. E anche Mopti, la seconda città del Paese, la Venezia de l’Afrique, sembrava in bilico.
Sarebbe stato un incubo solo africano, non fosse stato per un particolare: i fondamentalisti che avevano distrutto i monumenti sacri di Timbuctù e imposto la sharia avevano spartito il pane, in Afghanistan, con gente come Osama bin Laden e Ayman al-Zawahiri. Qui si facevano chiamare Aqim (Al Qaeda nel Maghreb islamico). I capi erano algerini, dediti ai rapimenti degli occidentali e altri lucrativi contrabbandi: cocaina colombiana, sigarette, e anche traffico di esseri umani.
Il loro cavallo di Troia, in Mali, era stato un ex tombeur de femmes fulminato, nel mezzo di sua vita, dal sacro messaggio del Corano. Iyad Ag Ghali aveva complottato per più di venti anni uno Stato per la sua gente, i Tuareg, i nomadi del Sahara, i curdi dell’Africa. Aveva infine stabilito che i suoi vecchi compagni, di sinistra, erano dei debosciati e aveva formato una nuova milizia islamica: Ansar Eddin. Il sogno di uno Stato Tuareg era durato meno di una primavera; erano stati gli estremisti a imporsi su un territorio immenso, tre volte l’Italia. Sembrava, quasi, la vendetta postuma di Muammar Gheddafi, il suo ultimo regalo avvelenato. Non aveva forse predicato che la sua caduta avrebbe aperto le porte dell’inferno in Africa?
Aveva reclutato, e addestrato, migliaia di afro mercenari nella sua legione straniera, i quali alla sua morte erano rientrati in patria, orfani del leader ma ricchi del suo arsenale, arsenale finito nelle mani degli islamisti, probabilmente usato per attaccare prima Konna e poi Diabaly.
Il giorno del mio arrivo, in Mali, è il 16 gennaio, lo stesso dell’attacco alla raffineria di Aménas, in Algeria. A Bamako, la capitale, sventolano le bandiere della Francia, e i giornali parlano di scacco alle forze del male. A Ségou, 400 chilometri su a Nord, nell’unico ospedale della regione, arrivano dal fronte i soldati feriti, con le loro storie, i loro traumi. Curiosamente, riposano nel reparto di ginecologia. Sono in 13; i primi che vedo siedono in cortile a guardare l’African Cup. Il televisore è dentro una gabbia, chiusa a chiave.
I militari hanno tutti piombo in corpo, tranne il caporale Paul Dembelé. Riposa su un materasso di plastica, lo sguardo fisso di un uomo che è andato oltre e poi è tornato.
Il caporale faceva parte della guarnigione di 300 uomini di stanza nella base militare di Diabaly. Pur essendo un misero paese di 15 mila abitanti, Diabaly era strategico per la sua posizione, sulla strada che dal Nord porta al ponte di Markala, l’unico sul grande fiume Niger, al di fuori di Bamako.
L’alba in cui i guerriglieri arrivarono, per terra e per fiume, dalla provincia di Mopti, e dunque dall’Est, il caporale Dembelé si trovava sulla via principale, una strada in terra battuta, costeggiata da un canale.
«Sono salito su un tetto e ho aperto il fuoco; sotto mi coprivano quattro compagni, o così pensavo. Ho sparato fino alla fine delle munizioni. A quel punto ho gridato: munizioni! Ma non c’erano più: erano scappati».
Il caporale racconta con voce monotona di essere rimasto solo, mentre i miliziani circondavano la casa. Erano una dozzina, avevano il volto coperto, parlavano Tamashek, la lingua dei Tuareg. Si tocca la nuca; ritorna a quel tetto, alla lotta, corpo a corpo.
«Avevo un coltello. L’ho tirato fuori. Ne ho uccisi quattro».
Gli chiedo, incredula, perché gli islamisti non gli abbiano sparato.
«Mi hanno sparato un sacco. Ma i proiettili non mi prendevano».
Dembelé legge sul mio volto lo stupore e fa un gesto che è un presagio di tutte le sfide di questa guerra: per gli addestratori italiani in arrivo; per le truppe francesi; per chiunque cerchi soluzioni razionali. Tira fuori un garbuglio di cinturini di pelle e se lo lega in vita: «Avevo il mio gri gri a proteggermi».
«Il gri gri?»
«Fatto dal mio somà».
Il somà, spiega l’interprete, è lo stregone, e il gri gri è il frutto del suo lavoro. L’interprete è un ragazzo colto, figlio del preside di un liceo di Bamako. Eppure crede a tutto ciò che sta dicendo il soldato. Traduce, serio: «Il gri gri ha respinto tutti i proiettili. Il caporale è riuscito a fuggire saltando dal tetto della casa. Si è rifugiato in un’abitazione e di notte un paesano lo ha portato a Niono in moto sui sentieri di campagna».
Il caporale, un piccolo rambo di 35 anni, è stanco. Un’infermiera dice di lasciarlo in pace. Gli stringo la mano; gli domando se ci sia qualcosa che avrei dovuto chiedergli e non gli ho chiesto. Dice: «Gli islamisti vanno uccisi tutti, uno a uno, ovunque si trovino».
Non è solo la diserzione dei commilitoni, il problema di Dembelé e del suo gri gri; questo è il classico rompicapo di uno scontro tra truppe interessate alla vita (l’Armée malienne) e truppe speranzose nel paradiso (les islamistes).
Il problema del caporale Dembelé è anche la decrepita ferraglia in dotazione all’esercito.
A Niono, ho visto carri armati russi Brdm del 1956 coi freni rotti; un capitano mi ha detto che per fermarsi spegne il motore.
A Markala, i soldati fanno tutto tranne che il loro mestiere. Fabbricano sedie. Sedie? «Sedie, anche tavoli», mi ha spiegato Sékore Cissé, di Radio Jamakan, la Voce del Popolo di Markala. E perché? «Le vendono. E rimediano qualche soldo».
Rido. «Potrebbero tirare quelle agli islamisti», dico. Il collega mi guarda perplesso. Per lui è normale, che i militari producano mobili.
Schiacciati dalla determinazione del nemico, e soprattutto dalla propria inettitudine, i maliani fanno ciò che fanno le truppe quando hanno paura: colpiscono nel mucchio. Il mio interprete, Doucouré, ha un cugino nell’esercito. Gli ha rivelato la consegna: non si fanno prigionieri. Un buon islamista è un islamista morto. Si rincorrono voci di esecuzioni, di sospetti fermati e giustiziati. E cosa rende una persona sospetta? La barba. E così, racconta Harouna Bagayoko, un mercante di Niono, «da quando è arrivato l’esercito è tutto un radersi collettivo, i barbieri fanno affari d’oro». Monsieur Harouna non sembra avere particolari problemi con i metodi spicci dell’Armée:
«Nel bazar abbiamo tirato un sospiro di sollievo quando sono arrivati i francesi».
In effetti, non va male. I caccia che volano bassi sulla savana tra le acacie e i baobab sono incredibilmente precisi. Quando finalmente entriamo a Diabaly, nei labirintici vicoli di fango, la gente sorride, e ci viene incontro, e ci dice merci, merci, tra gli scheletri di veicoli carbonizzati dalle bombe di 250 chili del colonnello Frédéric.
«Qui sono morti un sacco di islamisti», mi dice un ragazzino scalzo e smilzo, di 14 anni, Barou Daou.
Il corpo di uno di loro è ancora lì, sotto un cespuglio, sul ciglio del canale. Il tizio ha la barba lunga, ed è nero nero. Indossa una maglia verde, la fine lo ha sorpreso in fuga, una gamba dietro il sedere, mentre nascondeva la testa sotto un copertone.
Non dovevano venire qui. Il piano era scendere da Timbuctù, prendere Konna, e proseguire verso Mopti. L’intervento dei francesi aveva convinto un comandante ribelle, tale Othman Ag, un rinnegato, un disertore, un Tuareg ex ufficiale dell’esercito, a improvvisare la rotta, a tentare la presa di Diabaly. Ora i suoi uomini imputridivano sotto il sole, e nell’aria l’odore della decomposizione strideva con la gioia sui volti.
«Gli islamisti? Dei selvaggi», dice una ragazza a spasso per le rovine della base militare. Penso al regno del terrore che hanno imposto al Nord, agli stupri, alle amputazioni. Mi tornano in mente i ragazzi le cui mani sono state tagliate con coltellacci da cucina da analfabeti convinti di applicare il verbo di Allah. Mi aggiro nella piccola chiesa devastata dai radicali, che hanno sparato ai pinnacoli, decapitato le croci, piantato una pallottola nell’urna delle ostie. Raccolgo una delle tante pagine di un Vangelo strappato; è in francese; reca il messaggio di saluto d’Isaia: «Coraggio, cessate di aver paura!».
Mi rendo conto che l’unica speranza, di questo conflitto, è che la popolazione continui a odiare i barbuti.
Se in cinque giorni di bombardamenti non è morto nessun innocente a Diabaly è perché la gente si è schierata contro l’occupazione. È il termometro con cui si misura ogni guerra asimmetrica: da che parte stanno i civili? Sono loro a fare la differenza. E qui, i civili sono stati con il sindaco, che stava con il governo, che stava con i francesi.
«Sono stato io a segnalare le posizioni dei ribelli ai francesi», dice il sindaco, Omar Diakité, un ingegnere agricolo, una quercia d’uomo.
«Ho i telefoni di tutti gli abitanti del paese, e loro hanno il mio. Ricevevo segnalazioni ogni minuto. Sono nel campo di calcio, sono nella scuola, sono davanti alla base, sono davanti alla porta di tale casa. Controllavo su Google Map le coordinate con il Gps e le passavo a chi di dovere».
L’ultima telefonata, il sindaco la riceve alle 21 di giovedì 24 gennaio.
«Mi dicono che sono nascosti in un bosco di manghi, nella frazione di Alatona, e che hanno coperto i loro veicoli con le foglie degli alberi».
È stato dopo quel colpo, che i superstiti si sono dati alla fuga, ma prima hanno sepolto i corpi dei compagni – due pick up colmi – dove hanno potuto, come hanno potuto.
Era questo che intendeva, il colonnello Frédéric, il capo delle operazioni francesi, davanti a quel cratere, al cospetto di quel cadavere, ucciso dai suoi uomini. «È la morte, è la vita». La loro morte è la nostra vita. C’è sempre chi piange e chi ride.