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 2013  gennaio 30 Mercoledì calendario

ARNOLD SCHWARZENEGGER E QUI’ COMANDO IO

Luigi e Aurelio De Laurentiis stanno salutando Arnold Schwarzenegger mentre metto piede nella suite. È ora di pranzo, ma dice che per lui va bene chiacchierare mentre sta mangiando: «Sono in grado di masticare e parlare allo stesso tempo». Siamo a Roma. La vista dall’alto di Trinità dei Monti è magnifica, e lui è di buonumore: «Che cosa può andare male in un posto così?», dice. La conferenza stampa del suo nuovo film, The Last Stand - L’ultima sfida, è finita da pochi minuti. Nel film, tutto sparatorie e inseguimenti, Schwarzenegger interpreta Ray Owens, lo sceriffo in età da pensione di un piccolo centro al confine del Messico. Un narcotrafficante sfuggito all’Fbi si sta dirigendo lì a bordo di un’auto col motore più truccato di una batmobile, preceduto da un piccolo esercito a liberargli la strada da ogni intoppo. Non credo di rovinare il finale se dico che lo sceriffo riuscirà a fermarlo a un passo dalla libertà. Schwarzenegger è di nuovo al cinema. «È tornato», come prometteva il suo personaggio più famoso, Terminator, con quella battuta, «I’ll be back», che da allora gli è rimasta addosso, e che lui ha trasformato in un marchio di fabbrica pretendendo, così si dice, di avere almeno un paio di battute memorabili in ogni film.

Dica la verità, ogni volta che dice «tornerò» non può più fare a meno di pensarci.
«All’epoca non avevamo idea che quella frase sarebbe diventata così popolare. Impossibile prevederlo. E non sappiamo se in The Last Stand c’è una battuta che la gente ricorderà. Forse: “Sono lo sceriffo”. Come dire sono io quello che comanda».
Dalla fiction alla realtà. Schwarzenegger sta aspettando da un paio di minuti che qualcuno lo serva e prende in mano la situazione: «Dov’è la mia insalata? Vedo gente in giro che taglia e prepara, ma niente sul tavolo. Andiamo, su». Dal polsino della giacca gli spunta l’orologio da polso più gigantesco che abbia mai visto. Intonato, nelle dimensioni, ai due enormi anelli che porta, uno su ogni mano. Quello a forma di teschio è un regalo dei suoi figli, «mentre l’altro è l’anello da governatore». Poi alza l’altro braccio: «Questo bracciale è un pezzo di catena della moto».
Dieci anni lontano dal set, che cosa le è mancato?
«Niente. Ero troppo occupato. Quando sei il governatore di uno Stato come la California non hai il tempo di rimpiangere nulla. Inoltre, io sono fatto così: quando sono a Roma, non mi manca Parigi, quando sono a Parigi, non mi manca l’Austria, e così via. Mi concentro, e mi godo il momento».
Una volta ha detto: «Io non guardo mai indietro».
«Mai non vuol dire proprio mai. Però non mi va di pensare al passato, sottrae tempo per guardare al futuro. Ci penso solo quando persone come lei mi fanno domande su fatti accaduti tanti anni fa. Ho usato tutte quelle domande quando si è trattato di scrivere la mia autobiografia. Mi sono chiesto: da dove arrivava la grinta, l’ambizione che ho avuto fin dall’inizio? Com’è possibile che a 15 anni avessi la certezza che sarei diventato un campione di culturismo? Alla mia età è ovvio che guardi a quella determinazione con un occhio diverso: all’origine dev’esserci stato qualcosa. Che cos’era?».
Appunto, che cos’era?
«Non ho la minima idea. Può essere stato lo spirito di competizione nei confronti di mio fratello, un padre severo (Gustav non lesinava punizioni corporali a entrambi i figli. Il fratello di Arnold, Meinhard, è morto nel 1971 in un incidente d’auto, i rapporti fra i due si erano da tempo sfilacciati, ndr), il fatto di essere nato in una piccola città dalla quale era normale aver voglia di fuggire, il bisogno di più attenzioni in famiglia. Puoi solo tentare di trovare una risposta, ma chissà se è quella giusta».
Un giorno potrebbe tornare alla politica?
«No, non mi interessa fare il politico di professione».
Fare due volte il governatore non vuol dire essere un politico di professione?
«Quella è stata una missione: volevo sistemare alcuni problemi della California. Un politico di professione è quello che si
 propone una volta come sindaco, un’altra si candida al Congresso, a seconda del posto disponibile».
E se la legge che non ammette che chi è nato fuori dal Paese possa essere eletto presidente degli Stati Uniti venisse abrogata?
«Mi candiderei. Quella è una sfida enorme, ed è una carica esecutiva, il che vuol dire che tu, come presidente, sei il responsabile. Essere responsabile è proprio quello che mi interessa e credo che sarebbe l’ora di modificare quella legge, ma non mi lamento. Sono molto grato all’America».
Lei ha depenalizzato l’uso della marijuana, mentre sui matrimoni gay ha avuto una posizione che mi è sembrata meno chiara.
«In realtà è molto semplice. Ai tempi mi sono appellato alla legge di allora che, in California, vietava i matrimoni gay, dicendo che solo la Corte suprema avrebbe potuto revocare il bando, cosa che alla fine accadde. Personalmente sono molto felice che la Corte suprema abbia dichiarato incostituzionale quel divieto. Come governatore ho celebrato io stesso alcune nozze gay».
È vero che suo padre voleva che facesse il poliziotto?
«I miei genitori avrebbero voluto che facessi quello che ogni austriaco avrebbe fatto: lavorare in polizia, sposare una donna di nome Heidi, e non lasciare mai il Pae­se. Ho fatto tutto il contrario. Mio padre non era contento neppure che facessi bodybuilding. Almeno all’inizio, non ne capiva il senso: “Perché sollevi pesi invece di prendere un’ascia e tagliar legna? È molto più produttivo”. Erano preoccupati dal mio fanatismo, dal fatto che mi allenassi tre ore al giorno o che, prima di sedermi a tavola per pranzo, facessi 250 addominali».
Al posto di un’Heidi qualunque, ha sposato Maria Shriver, dalla quale si è separato circa due anni fa e con la quale ha detto di voler tornare insieme.
«Abbiamo un ottimo rapporto, e continuia­mo a crescere i nostri figli insieme. Non so che cosa succederà in futuro ma, ripeto, abbiamo un ottimo rapporto».
Tra i suoi progetti c’è Terminator 5 e un altro sequel di Conan, il suo film di debutto. Dino De Laurentiis, che ne era il produttore, all’inizio non la voleva.
«Negli anni eravamo diventati molto amici, mi considerava quasi come un figlio. Ma il nostro rapporto era cominciato in modo burrascoso. Era il mio primo appuntamento con lui, entrai nel suo ufficio e vidi una scrivania gigantesca. Gli chiesi: “Perché un uomo piccolino come te ha bisogno di un tavolo così grande?”. Andò su tutte le furie. “Hai un accento straniero”, mi disse, “Non ti posso prendere per fare Flash Gordon” (imita la cadenza italo-americana, ndr). “Senti chi parla di accento”, ribattei. Mi cacciò fuori. Anni dopo, lo vidi arrivare sul set di Conan, con un enorme cappotto, circondato da attrici mezze nude: sembrava il personaggio di un film. Mi venne incontro: “Ehi , Schwarzenegger”, ruggì, “tu sei Conan, arrrr”. E se ne andò».