Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  gennaio 31 Giovedì calendario

LA GUERRA DEL SILENZIO IL GIORNALISTA È MALI INFORMATO

[Il difficile e frustrante ruolo dei giornalisti internazionali nel seguire i combattimenti tra francesi e guerriglieri islamici] –
Segou (Mali)
Il colore delle acacie è rosso terra e il sole unito all’aria polverosa non dà pace alle popolazioni dei villaggi che vivono lungo lo stradone che da Bamako porta verso la guerra del Nord. Anziani e giovani seduti all’ombra di un telo strappato indossano una mascherina per guardare i grossi mostri meccanici dei giornalisti sfrecciare verso la notizia. Cinque ore di macchina, poche parole per non sprecare le energie e si arriva a Segou, la vecchia capitale Bambara che ha costruito la sua fama sulle rive del Niger; prima conosciuta come punto di passaggio per le merci e dei turisti diretti verso Timbuktu, ora diventata il cuore pulsante dei media Internazionali. Gli hotel continuano a tenere alti i prezzi come nel periodo del benessere. Bisogna affrettarsi per trovare una camera in un tugurio da 80 euro per non rimanere fuori dai giochi dell’informazione. Diversamente dal Medio Oriente, qui in Africa il giornalismo costa caro: bisogna affittare la macchina, prendere un fixer e pagare la benzina e il cibo, per te e per loro a prezzi occidentali. Questo fa sì che diversamente dalla Siria, il numero degli inviati mandati dai giornali sia maggiore degli squattrinati freelance.
SEGOU QUINDI, il ponte verso la guerra: sterzando a sinistra si passa da Markala a Niono e si arriva al front Ovest, quello di Diabaly e della frontiera mauritana. Dall’altra parte, in direzione nord, si attraversa l’aeroporto militare di Sevare, Mopti Konna e poi o Gao o Timbuktu. Durante questi giorni le truppe francesi a bordo dei loro imponenti cavalli da guerra si spostano verso ovest. Decido di seguirle, o meglio anticiparle per potere immortalare la felicità della popolazione al loro arrivo. Gente entusiasta nel rivedere i vecchi coloni. I drapeau de la France sventolano spinti dai cori di giubilo mentre un’altra strana guerra ha inizio: si dice che i francesi vogliano liberare il nord del Mali dai jidaisti e dalle cellule di al Qaeda alleatesi ai Tuareg, gli anziani padroni del deserto. Intanto il vecchio odio dei neri del sud, degli storici allevatori di bestiame, torna a scorrere. Una volta schiavi dei pelle chiara con il turbante, ora marciano fieri con i loro “amici” occidentali per riconquistarsi le città cadute in mano alla sharia. È strano pensare che i Tuareg si siano alleati con i fondamenta-listi islamici e la Francia non sia intervenuta per l’ennesima volta dopo l’officiale fine del colonialismo per non perdere l’influenza sui suoi vecchi interessi economici nascosti nel sottosuolo, i grandi giacimenti d’oro, petrolio e uranio.
È MATTINA PRESTO e i soldati si sono appena svegliati. Oggi è il giorno della grande marcia su Diabaly; “Inshallah” (a dio piacendo, come dicono i fedeli musulmani). Approfitto della calda luce del mattino per scattare foto, nell’attesa del permesso di andare verso la città liberata. “La città è stata conquistata, ma potrebbe esserci qualche jidaista nelle campagne a fianco. Per la vostra incolumità, non potete passare. Magari domani”, sentenzia il comando francese prima in conferenza stampa, e poi attraverso i militari maliani a qualsiasi giornalista che cerca di avvicinarsi agli scontri. Diabaly è inaccessibile, tantomeno accedere alla frontline fino a quando la città non verrà dichiarata pulita. Mi chiedo perchè la stampa non possa avvicinarsi agli scontri e cosa può voler dire pulire dopo un intervento armato. La frustrazione scandisce i due interminabili giorni di attesa al check-point di Niono. Solo il terzo giorno, scortata dai maliani, la carovana di Land Cruiser può cavalcare i 60 chilometri di steppa ardente che li separa da Diabaly: all’arrivo una città incuriosita e adornata dalle bandiere francesi e ma-liane e dai militari scherzosi seduti a cavalcioni dei propri blindati, mentre i bambini giocano a pallone fra i tank. Qualche metro più in là, nascosto dalla piazzetta in festa, qualche souvenir della battaglia: 4 auto bruciate, due blindati distrutti dai precisissimi razzi francesi e qualche fucile abbrustolito vicino a un razzo inesploso. Questa è la guerra che viene fatta vedere in Mali. Questo è quel che i giornalisti possono raccontare: un conflitto senza spari feriti morti lacrime dolori sentimenti. L’anomalia di un così grande blocco mediatico fa pensare: che cosa avrà da nascondere l’esercito francese? Come vengono trattati i Tuareg, accusati di cospirare con i jidaisti? Dove sono finiti i terroristi, i vecchi conquistatori delle città del nord? E i loro morti?
Non soddisfatto, limitato dal silenzio imposto dalla grande armata, il giorno dopo mi dirigo verso il fronte nord, Mopti. Al check-point di Sevare, una trentina di chilometri prima della base militare, un controllo dei governativi aspetta i giornalisti diretti verso le zone contese. “Mi spiace, abbiamo l’ordine di non farvi passare, dovete tornare indietro”, mi dice un militare armato di giubbotto antiproiettile casco e fucile, mentre fa cenno di passare ad un’auto strabordante di maliani diretti a casa. L’atmosfera e la tensione sembrano quelle di una guerra vera, peccato che non si riesca a raccontare. Negli ultimi tre giorni le città una volta roccaforti dei padroni di al Qaeda, Gao e Timbuctu, sono state liberate dall’avvento dei corazzati francesi, ma dei ribelli nessuna traccia. Anche degli scontri non si sa nulla, nessuna immagine è ancora riuscita a trapelare, stretta dalla morsa della censura. Fino a oggi, della guerra in Mali si conosce solo l’euforia che accompagna la liberazione francese, una propaganda offuscata solo dall’ombra di qualche racconto della popolazione locale.