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 2013  gennaio 31 Giovedì calendario

QUAND’ERO SENATORE INUTILE TRA D’ALEMA E VIOLANTE

Ci sono i libri, soprattutto e dappertutto. Nessuna meraviglia però: “Volevo scrivere, fin da ragazzo. Non sapevo cosa fosse il giornalismo. Mio padre diceva che i giornalisti sono dei servi: li aveva conosciuti in guerra ”. È l’inizio di un colloquio difficile perché l’intervistato vuol fare le domande all’intervistatore e non solo per l’abitudine del mestiere: “Basta parlare di me”. Invece parliamone di Corrado Stajano, penna irriverente e inquietissima, un Novecento diviso tra giornali (ne ha cambiati un sacco), la Rai e gli amatissimi libri (ne ha scritti tanti, Il sovversivo, La città degli untori, Patrie smarrite). Uno che, non senza una certa spudoratezza, ha sbattuto molte porte in nome della libertà.
Che rispondeva a suo papà a proposito del giornalismo dei servi?
Che non sempre era vero, per fortuna. Ma lui era un testardo generale dell’esercito, aveva fatto la Grande Guerra, poi la Campagna di Russia: fu catturato dopo l’8 settembre e internato a Mauthausen.
Tornò?
Arrivò a casa facendo lo stesso itinerario di Primo Levi. Primo era un mio amico, lo conoscevo bene perché ero, come lui, consulente dell’Einaudi. Era l’antieroe, aveva sofferto l’indicibile. Quando mi telefonarono per dirmi che si era ammazzato, mi misi a piangere davanti ai giudici del Csm, dove quel giorno mi trovavo.
Perché Levi si uccise tanto tempo dopo il ritorno dal lager?
Aveva una fortissima depressione. Era una sofferenza non placata, in lui, l’eterno non essere creduto: ricordo com’era felice quando Se questo è un uomo fu tradotto in Germania e lo lessero i giovani.
Primo giornale?
Il mondo, fu un gran colpo. Sulla prima pagina del settimanale c’era una manchette che diceva: “Si collabora su invito della direzione”. Allora scrissi una lettera a Pannunzio: “Caro direttore, ammiro moltissimo il suo giornale. Ma se aspetto che
lei m’inviti...”. Gli mandai un raccontino e lui lo pubblicò. Guadagnai 15 mila lire, tantissimo. Era il 1959. Per qualche tempo sono stato un precario d’epoca, poi ho scoperto che dovevo diventare professionista. Studiai tutti i settimanali, scelsiTempo illustrato diretto da Arturo Tofanelli: ci scrivevano Quasimodo, De Robertis e Guido Vergani. Poi mi son stufato e sono andato via.
Lei è uno specialista delle dimissioni.
A dimettersi ci si mette cinque minuti. Lasciai Panorama perché era un giornale senz’anima. Dopo un po’ approdai al Giorno di Italo Pietra, un periodo di grande libertà. Intanto collaboravo con la Rai, facevo documentari con Olmi e altri registi. Me ne andai dal Giorno perché Afeltra, il direttore che venne dopo Pietra, voleva censurare 16 cose da un mio articolo sulla Cia. Io gli dissi: “Non sono un po’ troppe, 16?”. E mi dimisi. L’articolo apparve due giorni dopo sul Messaggero di Mario Fossati, senza “aggiustatine”. Sono stato al Messaggero di Emiliani per dieci anni. E arrivò la stagione del Corriere.
Ci sono stato fino al 2003, mi sono dimesso per protesta quando fu cacciato De Bortoli. Ho trovato asilo all’Unità di Colombo e Padellaro: sembrava il giornale di Giustizia e Libertà. Tornai al Corriere quando De Bortoli fu richiamato. Ma il giornalismo è stato contagiato dal delirio dell’io del berlusconismo: i cronisti oggi parlano in prima persona e neanche vanno più sul posto a vedere. I politici scelgono da chi farsi intervistare e i direttori acconsentono. Il mestiere è finito: telefoni, computer, agenzie e carriera. Mah.
Nel 1994 lei è già Corrado Stajano. Come le salta in mente di candidarsi al Senato?
Me l’avevano già chiesto, avevo sempre detto no. Nutrivo una grande stima per Enrico Berlinguer, ma non ho mai preso la tessera di nessun partito. Nel ‘94 accettai di candidarmi come indipendente con il Pds: sentivo il pericolo di uno come Berlusconi. Monti ha detto di averlo votato nel ‘94, in nome della rivoluzione liberale. Ma aveva letto Gobetti? Non conosceva le oscure origini di Berlusconi? Noi che non abbiamo la sua sapienza avevamo capito...
Che esperienza è stata in Parlamento?
Dopo un mese mi sono reso conto che il Senato era un castello senza ponti levatoi, senza rapporti con la società. Eravamo in mano a un’oligarchia che decideva tutto. Si facevano delle riunioni per le designazioni dei membri laici della Corte costituzionale, per esempio, tu entravi nella stanza e ti trovavi i bigliettini con i nomi già scritti. Prendevo la parola spesso in dissenso dal mio gruppo, in aula, così mi dovevano far intervenire per forza. Non volevano mai che parlassi, anche delle cose conoscevo bene.
Il partito vi usava come bandierine?
Certo, gli facevamo comodo in campagna elettorale. Io, Claudio Magris, Gianfranco Pasquino. Poi però non gli andava bene che pensassimo con la nostra testa. C’era D’Alema, un togliattino con un disegno da perseguire a tutti i costi e una passione repressa. Violante, più che un parlamentare di opposizione sembrava un saggio consigliere degli avversari. Erano terrorizzati dalla demonizzazione di Berlusconi. Lo slogan preferito era: bisogna stare attenti. Così ci siamo tenuti il per Cavaliere per vent’anni.
Ha scritto un libro, Promemoria, sul suo soggiorno a Palazzo Madama: pagine amare.
Amare per i berlusconiani ma anche per la sinistra. Il libro ha vinto il premio Viareggio nel 1997: uomini del Pds si mossero per impedire che mi dessero il premio. Me l’hanno raccontato, dopo, i giudici. Si sono offesi tutti, qualcuno mi minacciò di querela. Mi proposero di ricandidarmi, ma non era il mio mestiere.
I berluscones della prima ora, com’erano?
Per me era l’occasione di vederli da vicino, al ristorante. Erano degli impiegati ubbidienti. Con i leghisti - selvaggi in quel palazzo elegantissimo - invece parlavo. La Pivetti sembrava una caramella. Speroni mi raccontava che nei consigli dei ministri Berlusconi era ossessionato dai sondaggi, ne faceva uno per tutto. Poi c’era Maroni...ecco: di Maroni candidato al Pirellone che dice?
Ma cosa vuole che dica di uno che sostiene di voler continuare il lavoro di Formigoni?
Ha dedicato Un eroe borghese a Giorgio Ambrosoli . Voterà per suo figlio Umberto?
Lo conosco da quando era ragazzino. Non ha avuto una vita facile. Cosa deve voler dire per un bambino di sei anni sentire, da dietro una porta, il proprio padre che dice alla mamma “mi vogliono ammazzare”? Lo voto non perché è il figlio dell’Eroe borghese, ma perché è intelligente, limpido. E saprà fare.
Alle politiche?
Bersani, uomo con i piedi per terra. Di Pietro, ai tempi di Mani pulite, ci siamo svenati per difenderlo. Certo non è uno che sa scegliere le persone: ricorda Scilipoti? Monti è un doroteo di consumata perizia. Quest’estate ho difeso Ingroia, nello scontro con il Colle. Adesso mi sembra che abbia sbagliato a candidarsi, doveva finire il processo sulla trattativa. L’ho conosciuto quando era un giovane magistrato: è una persona amabile e gentile, mi pare che la politica l’abbia già guastato.
Si sono candidati tanti giornalisti...
Ho visto che Mentana li ha criticati. Ma che dire di uno che è stato per anni direttore del Tg5 di Berlusconi? Stia zitto. Quando Berlusconi s’impadronì dell’Einaudi me ne andai subito con Carlo Ginzburg. Dissi: “Preferisco scrivere sui muri”. La molla verso la politica è la curiosità. Io avevo una gran curiosità di vedere le carte, i documenti: facevo così fatica da giornalista ad aver-li. Oggi non so, la crisi della classe dirigente è profonda. Siamo in un perenne 25 luglio: tutti si “riposizionano”, un detestabile verbo. Si preoccupano per il dopo, di ciò che diventeranno. Vogliono tutti “diventare”, che brutta vita la loro.