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 2013  gennaio 31 Giovedì calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - CALANO GLI STUDENTI UNIVERSITARI


ROMA - Allarme per l’università italiana. In dieci anni gli immatricolati sono scesi da 338.482 (anno accademico 2003-2004) a 280.144 (2011-2012), con un calo di 58.000 studenti (-17%). E’ come se in un decennio fosse scomparso un intero ateneo di grandi dimensioni, ad esempio la Statale di Milano. Si riduce anche il numero dei professori: in sei anni (2006-2012) il calo è del 22%.
E’ quanto emerge da un documento del Cun (Consiglio Universitario Nazionale), che segnala inoltre come dal 2001 al 2009 il Fondo di finanziamento ordinario (Ffo), calcolato in termini reali aggiustati sull’inflazione, sia rimasto quasi stabile per poi scendere del 5% ogni anno, con un calo complessivo che per il 2013 si annuncia prossimo al 20%. "Su queste basi e in assenza di un qualsiasi piano pluriennale di finanziamento moltissime università, a rischio di dissesto - denuncia il Cun - non possono programmare la didattica né le capacità di ricerca".
Sotto media Ocse per numero di laureati. Quanto a laureati, l’Italia è largamente al di sotto della media Ocse: 34mo posto su 36 Paesi. Solo il 19% dei 30-34enni ha una laurea, contro una media europea del 30%. Il 33,6 % degli iscritti, infine, è fuori corso mentre il 17,3% non fa esami.
Meno borse di studio. Il numero dei laureati nel nostro Paese è destinato a calare ancora anche perché, negli ultimi 3 anni, il fondo nazionale per finanziare le borse di studio è stato ridotto. Nel 2009 i fondi nazionali coprivano l’84% degli studenti aventi diritto, nel 2011 il 75%.
Eliminati più di mille corsi di laurea. In sei anni sono stati eliminati 1.195 corsi di laurea. Quest’anno sono scomparsi 84 corsi triennali e 28 corsi specialistici/magistrali. Se questa riduzione è stata inizialmente dovuta ad azioni di razionalizzazione, ora dipende invece in larghissima misura - si fa notare - alla pesante riduzione del personale docente.
Dottorati sotto media Ue. Rispetto alla media Ue, in Italia abbiamo 6.000 dottorandi in meno che si iscrivono ai corsi di dottorato. L’attuazione della riforma del dottorato di ricerca prevista dalla riforma Gelmini è ancora al palo e il 50% dei laureati segue i corsi di dottorato senza borsa di studio.
Rapporto docenti/studenti. Detto che del calo dei prof del 22% in sei anni, nei prossimi 3 anni si prevede un ulteriore calo. Contro una media Ocse di 15,5 studenti per docente, in Italia la media è di 18,7. Pur considerando il calo di immatricolazioni, il rapporto docenti/studenti è destinato a divaricarsi ancora per una continua emorragia di professori che non vengono più assunti. Il calo è anche dovuto alla forte limitazione imposta ai contratti di insegnamento che ciascun ateneo può stipulare.
Attrezzature obsolete. A forte rischio obsolescenza le attrezzature dei laboratori per la decurtazione dei fondi: anche i finanziamenti Prin, cioè i fondi destinati alla ricerca libera di base per le università e il Cnr, subiscono tagli costanti: si è passati da una media di 50 milioni all’anno ai 13 milioni per il 2012. Infatti dai 100 milioni assegnati nel 2008-2009 a progetti biennali si è passati a 170 milioni per il biennio 2010-2011 ma per progetti triennali, per giungere a meno di 40 milioni nel 2012, sempre per progetti triennali.
Andrea Lenzi, presidente del Cun, parla di "costante, progressiva e irrazionale" riduzione delle risorse finanziarie e umane destinate al sistema universitario che "ne lede irrimediabilmente la capacità di svolgere le sue funzioni di base, di formazione e ricerca". "In questo momento - prosegue Lenzi - qualcuno potrebbe chiedersi perché, in questa fase storica, un Paese in profonda crisi finanziaria e sociale debba preoccuparsi a investire nell’alta formazione delle future generazioni quando altri tipi di investimenti potrebbero dare risultati nel breve termine. Come cittadino e ricercatore rispondo che l’Università crea conoscenza diffusa e capacità di sapere critico per i giovani, è l’unica istituzione pubblica che crea le competenze per la classe dirigente di un Paese democratico, moderno ed evoluto ed è l’unica palestra che mette in evidenza le vocazioni e le eccellenze indispensabili alla competizione scientifica globale. L’Università è l’unica istituzione in cui si sviluppa un’osmosi per un’imprenditoria di alto profilo e produce anche competenze indispensabili per una pubblica amministrazione adeguata al terzo millennio".
Per Lenzi, la ricerca scientifica "è l’unico motore universalmente riconosciuto per l’innovazione e lo sviluppo, tanto che il resto del mondo sta investendo in ricerca nonostante il periodo di profonda crisi". "Sono necessarie sia la ricerca applicata, in grado di attivare una fattiva sinergia con l’imprenditoria con cui far nascere e crescere le migliori esperienze, sia - conclude - la ricerca di base sorgente che, da oltre un millennio, ha permesso quegli scatti innovativi che hanno fatto dell’Italia una delle nazioni di punta nelle scoperte in ogni campo".
(31 gennaio 2013)

INDAGINE SUI GIOVANI - REPUBBLICA.IT
ROMA - Studiare non basta più per assicurarsi un futuro. È questa la convinzione di sei ragazzi su dieci tra gli 11.011(laureati o studenti universitari) che hanno risposto al sondaggio online condotto dal Gruppo Sanpellegrino e volto a individuare le principali cause delle difficoltà dei giovani a trovare lavoro. Stando ai risultati della ricerca, gli ostacoli più grandi a trovare un lavoro, una volta terminato il percorso di formazione, sono per il 26% degli intervistati la scarsa propensione delle aziende ad assumere, e per il 25% il turnover bloccato. Per il 16% dei ragazzi, poi, non viene riconosciuta l’esperienza maturata. Eppure, nonostante le difficoltà, solo poco più del 20% di loro cercherebbe fortuna fuori dall’Italia.
Un percorso a ostacoli. Il 25% dei giovani imputa la mancanza di lavoro ai turnover bloccati, percezione che sale ancora di più tra gli universitari (31%). Il 36% dei laureati, invece, indica le difficoltà maggiori nei costi del lavoro troppo elevati (12%), poca attitudine al rischio e all’innovazione (12%) e al mancato incontro tra domanda e offerta di lavoro (12%). E ben un giovane su 4 (26%) afferma che la difficoltà maggiore ad entrare nel mercato del lavoro è dovuta alla scarsa propensione delle aziende ad assumere, percezione che sale tra gli universitari (34%).
Mai lontani da casa. Ma l’orizzonte tutt’altro che roseo non spinge ad uscire dai confini italiani: solo il 24% dei giovani andrebbe all’estero. Il 16% dei laureati vorrebbe restare in Italia per affermarsi e trovare un futuro in quello che sentono come il loro Paese, mentre due studenti su 10 (20%) sono scettici e ritengono che all’estero la situazione non sia molto diversa da quella italiana. Grande la sfiducia nel fatto che l’Italia possa crescere (21% degli universitari), mentre si rafforza la percezione che al di fuori dei confini italiani ci siano criteri meritocratici più certi e trasparenza negli avanzamenti di carriera (19% dei laureati).
E le istituzioni...stanno a guardare. A far incontrare aziende e giovani dovrebbero essere, secondo gli intervistati, principalmente le Istituzioni (31%), ovvero Stato ed enti locali, ma anche le Università dovrebbero fare la loro parte (19%), mentre uno studente su 3 (29%) si aspetta di più dalle strutture di coordinamento tra domanda e offerta di lavoro.
Avanti i più bravi. Per il 45% dei giovani la cosa migliore per sfruttare al meglio la nova forza lavoro sarebbe che le aziende premiassero di più il merito, bisogno più forte negli studenti (39%), e facilitassero l’integrazione attiva delle risorse nei progetti aziendali, condizione invece molto sentita dai neo laureati (19%). Il 15% chiede alle aziende invece di attivare e investire in percorsi di formazione più incisivi, mentre il 14% crede che le imprese debbano dare una mano ai giovani soprattutto a livello di welfare aziendale, proprio per rispondere ad alcuni bisogni pratici che altrimenti impedirebbero alle risorse di lavorare attivamente.
Futuro molto lontano. Niente progetti a lunga scadenza:1 laureato su 3 (33%) e il 37% degli studenti non riescono a vedersi da qui a 10 anni, soprattutto perché il contesto attuale impedisce di fare programmi a lungo termine. Solo il 9% dei laureati e il 6% degli universitari si vedono pienamente realizzati, anche se prevale un senso di sfiducia: il15% pensa che fra dieci anni non sarà in Italia; il 9% immagina che si troverà a fare un lavoro diverso per il quale ha studiato e investito tempo e denaro; un altro 9% dichiara che il futuro ridimensionerà sogni e ambizioni di oggi; infine il 7% pensa che non riuscirà a costruire una famiglia per via della precarietà lavorativa.
(31 gennaio 2013)

CLASSI POLLAIO - REPUBBLICA.IT
ROMA - Trentamila alunni in più, ma il numero degli insegnanti rimarrà invariato: con l’inevitabile risultato di "classi pollaio". E’ questa la situazione che si preannuncia per il prossimo anno scolastico, secondo le previsioni di iscrizioni comunicate dal ministero ai sindacati. E l’Anief lancia l’allarme: "Sono dati davvero sconfortanti quelli che il Ministero ha fornito ai sindacati in vista del prossimo anno scolastico: gli alunni della scuola italiana previsti sono oltre 6 milioni e 858mila. Rispetto all’anno in corso aumenteranno di quasi 30mila unità, soprattutto alla primaria (con leggero calo alle medie), ma per effetto del blocco normativo approvato con la legge 111/2011 la quantità di docenti rimarrà bloccata. L’organico sarà lo stesso di quest’anno: 600.839 posti di docente comuni e 63.348 di sostegno. Ciò comporterà - osserva l’Anief - un ulteriore innalzamento del numero di alunni per classe. E diventerà soprattutto sempre maggiore la distanza tra il numero di alunni disabili e i docenti di sostegno di ruolo".
"In molti casi la didattica non potrà essere garantita - sostiene Marcello Pacifico, presidente Anief - in particolare laddove le ore di sostegno che lo Stato concederà agli alunni portatori di handicap o con problemi di apprendimento saranno molte di meno rispetto a quelle che la legge prevede. Questo avviene anche e soprattutto perché a oggi è stato stabilizzato solo il 65% dell’organico di docenti di sostegno. Almeno 35mila insegnanti specializzati attendono di essere assunti, malgrado i posti di lavoro siano vacanti e disponibili. E con un docente precario ogni tre, quello che si produce è un risultato di forti disagi per i ragazzi e per le loro famiglie".
"Non occorre essere esperti di formazione scolastica per capire che in questa situazione non si riesce a sviluppare un valido progetto didattico" osserva Pacifico aggiungendo che così "a fare da garante per famiglie e studenti continuano ad essere i giudici". Il sindacato reputa grave che ciò avvenga anche dopo il pronunciamento della Corte Costituzionale a proposito della illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 413, della legge n. 244, nella parte in cui fissa un limite massimo al numero dei posti degli insegnanti di sostegno.
"L’abolizione dei limiti imposti dal legislatore nell’attribuzione dei posti in deroga - prosegue il presidente dell’Anief - rappresenta una bocciatura a tutti i tentativi, come questo, di negare per meri motivi di finanza pubblica il diritto allo studio a tutti gli alunni portatori di disabilità, grave o lieve che sia".
(31 gennaio 2013)

RETTORE DI BOLOGNA - REPUBBLICA.IT
Il calo degli immatricolati e dei professori preoccupa anche il rettore di Bologna Ivano Dionigi. L’allarme per l’università italiana rilanciato da un documento del Consiglio universitario nazionale non coinvolge l’Alma Mater. Ma questo, spiega Dionigi, “non attenua la preoccupazione e l’allarme per lo scenario nazionale dove il rilevante calo complessivo degli studenti ha una causa e un effetto”. Per il rettore la causa è “la mancata politica del diritto allo studio", mentre l’effetto è "il progressivo deperimento culturale e civile del Paese”. Una presa di posizione più volte ribadita da Ivano Dionigi. Anche all’inaugurazione dell’anno accademico il rettore aveva puntato il dito contro la classe politica incolta che "disattende uno dei suoi due doveri costituzionali fondamentali: l’istruzione e la ricerca, la tutela della salute".
Rispetto al calo altrettanto rilevante del numero dei docenti, Ivano Dionigi non ha dubbi: “O si toglie il vincolo del 20% del turnover imposto dalla spending review o sarà la Caporetto dell’università pubblica”.
Relativamente all’Alma Mater, dichiara il rettore, “registro con soddisfazione un incremento delle immatricolazioni dell’1% nell’arco dell’ultimo triennio e del 6% nell’arco degli ultimi cinque anni e addirittura l’aumento, a carico dell’Ateneo, del 10% dei fondi destinati al diritto allo studio”. A Bologna è stato contenuto, rispetto al dato nazionale, anche il calo
del corpo docente: cento unità in meno in tre anni pari ad una flessione del 3,4% (da 2942 docenti nel 2010 a 2842 nel 2012).
(31 gennaio 2013)

CORRIERE.IT
Iscritti, laureati, dottorati, docenti, fondi, tutte «voci» con il segno meno: l’università italiana è in grande affanno. Lo denuncia il Cun (Consiglio universitario nazionale) in un documento rivolto all’attuale Governo e Parlamento, alle forze politiche impegnate nella competizione elettorale, «ma soprattutto a tutto il Paese». Il documento (Dichiarazione per l’università e la ricerca, le emergenze del sistema) sottolinea che dal 2009 il Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) è sceso del 5% ogni anno.
ISCRITTI, COME FOSSE SCOMPARSO UN ATENEO - In dieci anni gli immatricolati sono scesi da 338.482 (2003-2004) a 280.144 (2011-2012), con un calo di 58.000 studenti (-17%). Come se in un decennio - quantifica il Cun - fosse scomparso un ateneo come la Statale di Milano. Il calo delle immatricolazioni riguarda tutto il territorio e la gran parte degli atenei. Ai 19enni, il cui numero è rimasto stabile negli ultimi 5 anni, la laurea interessa sempre meno: le iscrizioni sono calate del 4% in tre anni: dal 51% nel 2007-2008 al 47% nel 2010-2011.
ABBANDONI SCOLASTICI - L’ufficio studi di Almalaurea accende i riflettori su un fenomeno, quello degli abbandoni scolastici, che potrebbe in parte spiegare i nuovi dati: «La selezione pre-università è talmente forte che oggi si iscrivono a una facoltà 29 diciannovenni su cento. Se consideriamo la popolazione che termina le scuole superiori, il calo è stato del 10%: dal 74% dei primi anni del 2000 si è passati al 64%.
PER NUMERO LAUREATI LONTANI DA EUROPA - Quanto a laureati, l’Italia è largamente al di sotto della media Ocse: 34esimo posto su 36 Paesi. Solo il 19% dei 30-34enni ha una laurea, contro una media europea del 30%. Il 33,6% degli iscritti, infine, è fuori corso mentre il 17,3% non fa esami.
BORSE STUDIO, UNA NOTA DOLENTE - Il numero dei laureati nel nostro Paese è destinato a calare ancora anche perchè, negli ultimi 3 anni, il fondo nazionale per finanziare le borse di studio è stato ridotto. Nel 2009 i fondi nazionali coprivano l’84% degli studenti aventi diritto, nel 2011 il 75%.
CURA DIMAGRANTE PER OFFERTA FORMATIVA - In sei anni sono stati eliminati 1.195 corsi di laurea. Quest’anno sono scomparsi 84 corsi triennali e 28 corsi specialistici/magistrali. Se questa riduzione è stata inizialmente dovuta ad azioni di razionalizzazione, ora dipende invece in larghissima misura - si fa notare - alla pesante riduzione del personale docente.
DOTTORATI AL LUMICINO - Rispetto alla media Ue, in Italia abbiamo 6.000 dottorandi in meno che si iscrivono ai corsi di dottorato. L’attuazione della riforma del dottorato di ricerca prevista dalla riforma Gelmini è ancora al palo e il 50% dei laureati segue i corsi di dottorato senza borsa di studio.
EMORRAGIA DI PROFESSORI - In soli sei anni (2006-2012) il numero dei docenti si è ridotto del 22%. Nei prossimi 3 anni si prevede un ulteriore calo. Contro una media Ocse di 15,5 studenti per docente, in Italia la media è di 18,7. Pur considerando il calo di immatricolazioni, il rapporto docenti/studenti è destinato a divaricarsi ancora per una continua emorragia di professori che non vengono più assunti. Il calo è anche dovuto alla forte limitazione imposta ai contratti di insegnamento che ciascun ateneo può stipulare.
SPESE SUPERANO I FONDI - Dal 2001 al 2009 il Fondo di finanziamento ordinario (Ffo), calcolato in termini reali aggiustati sull’inflazione, è rimasto quasi stabile, per poi scendere del 5% ogni anno, con un calo complessivo che per il 2013 si annuncia prossimo al 20%. Su queste basi e in assenza di un qualsiasi piano pluriennale di finanziamento moltissime università, a rischio di dissesto - osserva il Cun- non possono programmare nè didattica nè ricerca.
A RISCHIO ANCHE I LABORATORI - A forte rischio obsolescenza poi le attrezzature dei laboratori per la decurtazione dei fondi: anche i finanziamenti Prin, cioè i fondi destinati alla ricerca libera di base per le università e il Cnr, subiscono tagli costanti: si è passati da una media di 50 milioni all’anno ai 13 milioni per il 2012. Infatti dai 100 milioni assegnati nel 2008-2009 a progetti biennali si è passati a 170 milioni per il biennio 2010-2011 ma per progetti triennali, per giungere a meno di 40 milioni nel 2012, sempre per progetti triennali.
Redazione Online

SERENA NATALE CORRIERE.IT
È uno dei nervi scoperti del sistema Paese, l’università che da decenni sforna laureati impregnati di saperi più o meno teorici e irrealistiche aspirazioni e un mercato del lavoro che non riesce ad assorbire tutte queste energie.
I dati appena pubblicati dal Consiglio universitario nazionale sul crollo delle immatricolazioni negli ultimi dieci anni suggeriranno ai critici dell’università di massa un parallelo con “la mano invisibile” di Adam Smith, l’astuzia del libero mercato che si autoregola, come dire: prima o poi i flussi si stabilizzano da soli e il calo di laureati riequilibrerà il sistema…
Il passaggio dai 338.482 immatricolati dell’anno accademico 2003-2004 ai 280.144 del 2011-2012 (-17%, come se si fosse sbriciolata la Statale di Milano) è una sconfitta per tutti. Non c’è la libera scelta dietro la rinuncia di 58 mila studenti a una formazione di livello universitario. Non c’è la separazione tra cultura e accademia o la convinzione che altri percorsi di crescita e di vita, magari meno stereotipati, possano comunque garantire l’autorealizzazione. C’è la nuda necessità, la stessa che alza il tasso di abbandono scolastico alle superiori. C’è la sfiducia di migliaia di ragazzi che si sentono sconfitti in partenza. Una sconfitta che inevitabilmente si tradurrà in ritardo accumulato – di competenze, di orizzonti mentali, di competitività – per l’intero sistema.
L’università di massa avrà pure innescato spirali da correggere ma si basava su una conquista di civiltà della modernità democratica, sul principio inviolabile che la cultura, come l’aria e la libertà, è per tutti. Il prossimo governo ne tenga conto.
E voi cosa ne pensate? Chi ha fallito? Davvero non vale più la pena iscriversi all’università?

ANTONELLA DE GREGORIO CORRIERE.IT
Dati «allarmistici», quelli del Consiglio universitario Nazionale, secondo il Miur. «Andrebbero letti con attenzione, per capire dove sono finiti quei 50mila studenti mancanti all’appello: quanti sono confluiti nel Sistema d’Istruzione superiore (il livello post liceo, più professionalizzante, ndr); e quanti sono imputabili a facoltà sovraffollate che si ridimensionano». L’unica certezza - puntualizzano al ministero - è che «un calo assoluto non rappresenta un calo nella qualità del sistema universitario». Tema, quello della qualità, molto caro al ministro uscente. Che ne fa l’obiettivo di uno dei suoi ultimi provvedimenti: il decreto ministeriale (n.47/13) che definisce «il nuovo sistema di autovalutazione, valutazione, accreditamento iniziale e periodico delle sedi e dei corsi di studio universitari». Un dispositivo che completa il percorso di attuazione della legge 240 e sintetizza in un unico documento i criteri e le linee guida per la valutazione degli atenei. Pubblici e privati, compresi quelli telematici.
LA VALUTAZIONE - L’obiettivo, spiega il ministero, è quello di migliorare e valorizzare la qualità del sistema universitario. Tutto ruota intorno alla valutazione, che sarà svolta dall’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca: per poter attivare l’offerta formativa gli atenei dovranno ottenere un patentino iniziale, basato sull’analisi delle strutture, delle aule, dei laboratori o delle biblioteche, ma anche il numero di docenti, l’offerta formativa e gli sbocchi occupazionali. Spetterà all’Anvur verificare e accertare la qualità della didattica e della ricerca, dei corsi di laurea, dell’organizzazione delle sedi e dei corsi di studio. Non ultima, la sostenibilità economico finanziaria dell’ateneo.
BOLLINO DI QUALITÀ - Ma anche la permanenza dei requisiti che hanno condotto all’accreditamento iniziale sarà verificata, ai fini dell’accreditamento periodico, insieme al raggiungimento di ulteriori standard di qualità ed efficienza.
Viene introdotto, dunque, una sorta di «controllo di qualità» da rinnovare ogni cinque anni per le sedi universitarie e almeno ogni tre anni per i corsi di studio. In particolare, nella valutazione periodica saranno presi in considerazione i risultati conseguiti dalle singole università nell’ambito della didattica e della ricerca.
«FONDAMENTALE» - Un decreto «fondamentale» che porta l’università italiana a livello europeo recuperando terreno perduto negli anni passati, ha detto Muzio Gola, docente al Politecnico di Torino. «Una garanzia per gli studenti, le famiglie, il mondo del lavoro e la comunità intera sul valore dei corsi universitari», secondo il rettore dell’Università politecnica delle Marche, Marco Pacetti. un provvedimento «doveroso», almeno fino a che vige in Italia il valore legale del titolo studio, che vale su tutto il territorio nazionale e che deve pertanto avere criteri e risultati omogenei dal nord a sud del Paese.
«RISORSE SCARSE» - Lo definisce un documento «di grandi prospettive» Andrea Cammelli, direttore di Almalaurea, «che tende a valorizzare il sistema universitario italiano a livello europeo. Certo, bisognerebbe che le università fossero in grado di rispondere all’articolata serie di domande». Una fatica immane, in una situazione di scarsità di risorse, lascia intendere lo studioso.
ALL’ESTERO - Spiega il ministero che, con questo nuovo sistema di valutazione, l’Italia si allinea alla gran parte dei Paesi europei, che a partire dall’Olanda nei primi anni ’80 hanno sviluppato sistemi simili, ispirandosi al sistema di valutazione europeo Enqa (le linee guida fissate nel 2005 per definire le caratteristiche di sistemi universitari «di qualità»).
Fanalino di coda, insieme alla Grecia, il nostro Paese ha afferrato al volo l’ultimo vagone utile metterci in corsa per gli obiettivi di Europa 2020, che individuano nelle attività accademiche un potenziale rilevante in termini di contributo allo sviluppo economico e sociale del Paese. Obiettivi che spingono, da un lato, per l’incremento del numero di laureati; dall’altro, per la differenziazione delle attività universitarie, per rispondere a esigenze diverse quali la competizione internazionale, le esigenze occupazionali e i bisogni delle comunità locali.
PREMI E BOCCIATURE - La misurazione del servizio è una sorta di requisito minimo per distribuire parte delle risorse pubbliche, che verranno assegnate in base alle valutazioni annuali di ogni ateneo. Corsi e sedi che otterranno giudizi insoddisfacenti non otterranno l’accreditamento e potranno essere soppressi.
Antonella De Gregorio

RAPPORTO OCSE SULLE SPESE PER LA SCUOLA
Le spese dell’Italia per l’università sono carenti, lo rivela l’ultimo rapporto OCSE sull’Istruzione
rapporto ocse istruzione spese universita italia
Non molto tempo fa il ministro Profumo ha parlato di atenei a rischio fallimento per il taglio dei fondi e anche nell’ultimo rapporto sull’Istruzione dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) si punta il dito contro le spese per l’università, giudicate carenti. La cifra che l’Italia stanzia ogni anno per studente è nella media dei principali Paesi avanzati, ma si spende molto poco per l’istruzione terziaria. Gli atenei italiani, infatti, hanno perso dal 2007 ben un miliardo di euro di investimenti da parte del Fondo di finanziamento ordinario. E così, se per le “baby pensioni” spendiamo annualmente 9,4 miliardi di euro, le nostre università devono accontentarsi di 6,6 miliardi (a fronte di un investimento di 7,6 nel 2007).
Secondo i dati raccolti nel rapporto OCSE sull’Istruzione, in Italia la spesa pubblica per l’istruzione universitaria è solo l’1 per cento del PIL, contro una media dell’UE a 21 che si attesta all’1,3 per cento e una media dei Paesi OCSE dell’1,5 per cento. In media spendiamo per ciascuno studente 9.553 dollari, il 30 per cento in meno rispetto ai membri dell’OCSE e dell’UE a 21 (rispettivamente 12.958 e 13.717 dollari). E gli studenti universitari italiani pagano le tasse più alte dopo quelli inglesi e olandesi.
La necessità di maggiori investimenti è evidente anche raffrontando la spesa annua italiana con quella di Francia (14.079 dollari) e Germania (15.390 dollari). A migliorare la situazione non è bastato l’attuale sistema di finanziamenti a pioggia per le università, che non ha aiutato a puntare sulle nostre istituzioni più competitive, che fanno crescere la ricerca e attraggono studenti dall’estero.
A fronte di ciò, il rapporto OCSE sull’Istruzione rivela che la spesa è in linea con gli altri Paesi per quanto riguarda la scuola, anche se qui il problema è rappresentato da come vengono spese le risorse investite. Rispetto alla media, infatti, il nostro Paese ha una spesa per studente più alta nonostante la popolazione scolastica si sia ridotta di circa 2 milioni di unità.
Dove invece siamo molto carenti in quanto a investimenti è il settore “Ricerca & Sviluppo”. Nel 2010 abbiamo speso solo l’1,26 per cento del PIL, molto al di sotto della media dei Paesi dell’Unione Europea (l’1,91 per cento) e meno di Francia (2,26 per cento), Germania (2,82 per cento) e Regno Unito (1,77 per cento). Solo Polonia, Turchia, Ungheria e Repubblica Ceca investono meno del nostro Paese in questo settore.
Altro tasto dolente indicato dal rapporto OCSE sull’Istruzione è il tasso di abbandono scolastico (18,8 per cento, l’obiettivo per il Paesi UE è di ridurlo al 10 per cento entro il 2020) e i circa due milioni di giovani tra i 15 e 24 anni che non studiano e non lavorano. Anche il livello di partecipazione al mercato del lavoro di chi ha un livello di istruzione più elevato è in controtendenza rispetto alla media dei Paesi OCSE, dove i laureati hanno migliori prospettive a livello lavorativo. In Italia, infatti, se è leggermente aumentato il tasso occupazionale dei diplomati (dal 72,3 al 72,6 per cento) è invece calato sensibilmente quello dei laureati (dall’82,2 al 78,3 per cento).
Ancora troppo bassi anche i livelli di istruzione della popolazione italiana. Secondo l’annuario 2012 dell’ISTAT, in Italia ad aver raggiunto il diploma di istruzione secondaria è il 34,5 per cento della popolazione, mentre solo l’11,2 per cento ha terminato l’università.

ALTRO RAPPORTO OCSE DELL’11/9/2012
Milano, 11 set - Aumentano i laureati in Italia, e sono soprattutto donne, ma i numeri restano sotto le medie Ocse e la transizione verso il mercato del lavoro si e’ fatta piu’ difficile anche per i giovani con il massimo grado di istruzione. E’ lo scenario tracciato dall’Ocse nel rapporto ’Education at a Glance’ ("Uno sguardo sull’istruzione"), pubblicato come ogni anno alla ripresa dell’anno scolastico e accademico nei Paesi che aderiscono all’Organizzazione. I laureati in Italia sono il 15% della popolazione, percentuale che tuttavia e’ la meta’ della media Ocse (31%) e pone l’Italia al 35esimo posto su 41 Paesi. Nella fascia d’eta’ 55-64 anni solo l’11% della popolazione ha una laurea in Italia, ma la percentuale sale al 21% tra i 25-34enni, grazie all’introduzione della laurea breve e l’Ocse prevede che il ’gap’ rispetto alla media Ocse (38%) si ridurra’ nel prossimo decennio. Nel 2010, del resto, quasi un giovane su due (49% contro 62% Ocse) poteva aspettarsi di iscriversi all’universita’ nel corso della vita contro il 39% del 2000. Anche per i diplomati l’Italia e’ nella parte bassa della classifica: sono il 55% della popolazione (30esimo posto su 40 Paesi contro 74% Ocse), pur salendo al 71% tra i 25-34 anni (82% Ocse). Tra gli spunti italiani, l’avanzata delle donne: nel 2010 una su quattro aveva un’istruzione universitaria contro uno su sei tra gli uomini e il 59% delle lauree in Italia e’ appannaggio femminile, in linea con la media Ocse. Non solo, il 33% dei laureati in ingegneria in Italia sono donne, una delle percentuali piu’ alte dell’Ocse e la Penisola e’ al secondo posto per le donne laureate in campo scientifico (52%). La cattiva notizia e’ che la laurea in Italia rende sempre meno in termini di accesso al mondo del lavoro e reddito. Il tasso di disoccupazione tra i laureati nella Penisola e’ aumentato dal 5,3% al 5,6% tra il 2002 e il 2010, mentre e’ calato tra i diplomati (6,1% dal 6,4%), l’opposto di quanto e’ avvenuto nell’Ocse. Anche i dati sui redditi suggeriscono che i giovani laureati fanno fatica a trovare un lavoro adeguato in Italia. I lavoratori tra i 25 e i 34 anni provvisti di una laurea guadagnano solo il 9% in piu’ dei giovani che si sono fermati al diploma di scuola superiore contro il 37% della media Ocse. E soprattutto contro il 96% in piu’ che guadagnano i loro padri laureati (55-64 anni) rispetto ai coetanei diplomati. La differenza tra i redditi dei giovani e’ la minore dopo quella la Norvegia nell’Ocse, mentre quella tra i lavoratori piu’ anziani e’ tra le maggiori, evidenziando quindi un altro importante divario generazionale italiano. Ma le difficolta’ dei giovani laureati fanno parte di un problema piu’ ampio della transizione tra scuola e lavoro, sottolinea l’Ocse, additando l’elevata percentuale di inattivi (ne’ a scuola, ne’ al lavoro). Nella Penisola erano il 23% nel 2010 tra i 15-29anni. Dopo essere scesi al 19% nel 2003, sono aumentati con la crisi. Gli- 11-09-12 11:01:40 (0131) 3