Nicola Abé, Panorama 31/1/2013, 31 gennaio 2013
FACCIAMO LA GUERRA STANDO SEDUTI A CASA
Per più di 5 anni Brandon Bryant ha lavorato in un container privo di finestre, l’aria condizionata a 17 gradi, davanti a 14 monitor e quattro tastiere. E quando Bryant premeva un pulsante nel Nuovo Messico, dall’altra parte del mondo qualcuno moriva. Il container con i suoi computer, infatti, è il cervello di un drone, una cabina di pilotaggio nel gergo delle forze aeree. Ma i piloti nel container non sono in volo tra i cieli, se ne stanno semplicemente seduti ai comandi. Bryant era uno di loro e ha ben impresso nella mente un incidente accaduto mentre un drone Predator stava volteggiando nel cielo sopra l’Afghanistan a più di 10 mila chilometri di distanza da lui.
Nel mirino c’era una casa dal tetto piatto fatta di fango, con un recinto per le capre, ricorda. Quando ricevette l’ordine di aprire il fuoco, schiacciò un pulsante con la mano sinistra e marcò il tetto con un laser. Il pilota seduto di fianco a lui premette il grilletto di un joystick, causando il lancio di un missile Hellfire da un drone. Mancavano 16 secondi all’impatto. Le immagini riprese da una telecamera a infrarossi installata sul drone apparivano sul suo monitor, trasmesse dal satellite, con un ritardo che andava da 2 a 5 secondi. Quando mancavano ancora 7 secondi all’impatto a terra, non si vedeva nessuno. In quel momento, Bryant avrebbe potuto ancora dirottare il missile. Quando mancavano 3 secondi, improvvisamente comparve un bambino. Quando i secondi erano terminati, il mondo digitale di Bryant si scontrò con quello reale in un villaggio tra Baghlan e Mazar-e-Sharif. Bryant vide un bagliore sullo schermo: l’esplosione. Parti dell’edificio crollarono. Il bambino era scomparso. Bryant sentì una morsa allo stomaco. «Abbiamo appena ucciso un bambino?» chiese all’uomo seduto vicino a lui. «Sì, credo che fosse un bambino» rispose il pilota.
Lasciato il container, Bryant «rientrò» in America: davanti a lui l’arida prateria, sterminata fino all’orizzonte, i campi, l’odore di concime... Là non c’era guerra. Perché la guerra moderna è spesso gestita da piccoli centri di alta tecnologia sparsi per il mondo. La nuova guerra sembra essere più precisa che in passato, per questo qualcuno la definisce «più umana».
In un corridoio del Pentagono dove si elaborano i piani per questa guerra, il colonnello William Tart definisce un drone un’«estensione naturale della distanza». Fino ad alcuni mesi fa Tart era comandante presso la Creech Air force base in Nevada, vicino a Las Vegas, dove presiedeva le operazioni con i droni. Ogni volta che li pilotava personalmente, teneva una foto della moglie e delle tre figlie incollata alla lista di controllo vicino ai monitor.
Sottolinea che in gran parte i voli sono destinati alla raccolta di informazioni. Parla dell’uso dei droni in missioni militari dopo il terremoto di Haiti, di come la sua squadra aprì il fuoco su un camion che stava portando missili a Misurata, in Libia, e di come ha dato la caccia al convoglio in cui l’ex dittatore Muammar Gheddafi e il suo entourage stavano scappando. Descrive il modo in cui i soldati di fanteria in Afghanistan esprimono la loro gratitudine per l’assistenza che ricevono dalle forze aeree. «Salviamo vite» afferma Tart. Non dice granché sulle esecuzioni mirate. Sostiene che durante i 2 anni trascorsi come comandante delle operazioni alla base Creech non ha mai visto morire dei civili «Osserviamo persone per mesi. Le vediamo giocare con i loro cani o lavare i propri vestiti. Arriviamo a conoscerli assai bene, andiamo perfino ai funerali con loro. Non è sempre facile...».
Alla periferia della cittadina di Missoula, in Montana, su uno sfondo di monti, foreste e banchi di nebbia, spicca una casa gialla. Bryant, che ora ha 27 anni, è seduto sul divano del soggiorno di sua madre. Dopo l’incidente del bambino ha lasciato l’esercito ed è tornato a vivere con i genitori. Nei 6 anni trascorsi in aviazione Bryant ha completato 6 mila ore di volo. «Ho visto morire uomini, donne e bambini durante quel periodo» riferisce Bryant «Non ho mai immaginato che avrei ucciso così tanta gente».
Dopo il diploma di scuola superiore Bryant voleva diventare giornalista investigativo. È entrato nelle forze armate per caso: un giorno, mentre accompagnava un amico ad arruolarsi nell’esercito, sentì dire che l’aeronautica militare degli Stati Uniti aveva la propria università e che era possibile frequentare il college senza pagare nulla. Bryant ottenne risultati così alti nei test che lo assegnarono al dipartimento raccolta di intelligence. Imparò a pilotare le telecamere e i laser presenti sui droni e ad analizzare le immagini a terra, le mappe e i dati meteorologici. Divenne così responsabile della gestione dei vari sensori, più o meno l’equivalente di un copilota.
Aveva 20 anni quando gli venne affidata la sua prima missione in Iraq. Un gruppo di soldati americani stava ritornando al campo base e il compito di Bryant era controllare la strada. Vide un «occhio» sull’asfalto. «Grazie all’addestramento sapevo riconoscerli» racconta. Per sotterrare un ordigno esplosivo nella strada i nemici dovevano ammorbidire l’asfalto e lo facevano bruciando uno pneumatico che lasciava un segno sulla strada. Il segno, visto dall’alto, sembrava un occhio. Il convoglio dei soldati era ancora lontano parecchi chilometri. Bryant informò il suo supervisore, il quale avvertì il centro di comando. I soldati a terra non potevano essere informati perché stavano usando una radio «jammer» (con il segnale volutamente disturbato). Bryant osservò il primo mezzo passare sulla sagoma a forma di occhio e non successe nulla; ma quando passò il secondo Bryant vide un bagliore, seguito da un’esplosione. Cinque soldati americani rimasero uccisi.
Da quel momento Bryant non riuscì a smettere di pensare ai cinque commilitoni. Cominciò a imparare tutto a memoria, come i manuali del Predator e dei missili, preparandosi a ogni evenienza. Era determinato a fare del suo meglio per impedire altri incidenti simili. I suoi turni duravano fino a 12 ore.
La prima volta che Bryant sparò un missile, uccise due uomini sul colpo. Guardando con attenzione, vide un terzo uomo in fin di vita, senza una gamba, che si reggeva il moncone con le mani mentre il sangue sgorgava sul terreno, per due lunghi minuti. Tornando a casa Bryant non riuscì a trattenere le lacrime. «Per quasi una settimana mi sentii disconnesso dal genere umano» ricorda, seduto nel suo bar preferito di Missoula. Ci passa gran parte del suo tempo, osservando gli altri, leggendo libri e spostandosi spesso. Non riesce più a stare seduto troppo a lungo nello stesso posto. La sua ragazza lo ha lasciato poco tempo fa. Gli aveva chiesto di parlarle degli orrori che gli pesavano dentro e lui le ha raccontato tutto. Ma s’è rivelata una prova che lei non avrebbe mai potuto condividere.
Quando nel 2007 fu mandato in Iraq, Bryant venne assegnato a una base militare americana a circa 100 chilometri da Baghdad, dove il suo compito era quello di far decollare e atterrare i droni. Non appena i droni raggiungevano l’altitudine stabilita, i piloti rimasti negli Stati Uniti ne assumevano il controllo. Due anni dopo l’aeronautica militare lo assegnò a un’unità speciale in Nuovo Messico, alla Camion Air force base a Clovis, paesone polveroso pieno di roulotte, distributori di benzina e chiese evangeliche a diverse ore di guida dalla macchina più vicina. Bryant grazie alle telecamere dei droni vedeva la gente in Afghanistan coltivare i campi, i ragazzi giocare a pallone e gli uomini abbracciare le mogli e i figli. Quando scendeva il buio, Bryant accendeva la telecamera a infrarossi. A causa del caldo, in estate molti afghani dormivano sui tetti. «E li vedevo fare l’amore con le mogli. Sono due puntini infrarossi che diventano uno» ricorda. Osservava le persone per intere settimane, inclusi i talebani che nascondevano le armi e altre persone che erano sulla lista perché le forze armate, le agenzie di intelligence o gli informatori locali sapevano qualcosa sul loro conto. «Imparavo a conoscerli fino a quando qualche mio superiore mi dava l’ordine di sparare». Provava rimorso per i bambini, perché stava togliendo loro il padre. «Erano bravi papà» sospira.
Il maggiore Vanessa Meyer, il cui vero nome sulla divisa è coperto da un nastro nero, sta facendo una presentazione sull’addestramento dei piloti di droni nella Holloman Air force base, in Nuovo Messico. Meyer, 34 anni, lucidalabbra e diamante al dito, pilotava aerei da carico prima di diventare pilota di droni. Indossa una tuta verde dell’aeronautica militare e all’interno di una cabina di pilotaggio da addestramento usa un simulatore per mostrare come un drone viene teleguidato sull’Afghanistan. Il mirino sul monitor segue un’auto bianca fino a quando raggiunge un gruppo di baracche di fango. Con una mano usa il joystick per indirizzare il drone, con la sinistra aziona la leva per rallentare o accelerare l’Rpa (remotely piloted aircraft, aeromobile a pilotaggio remoto). «Il Predator, sottile e lucente, e il suo fratello maggiore, il Reaper, che trasporta quattro missili e una bomba, sono aerei fantastici» si entusiasma «Però non funzionano in caso di brutto tempo».
Il maggiore Meyer pilota droni a Creech, base aerea vicino a Las Vegas. Ha avuto il suo primo figlio mentre lavorava nella base. Stava ancora seduta nella cabina, con la pancia premuta sulla tastiera, al nono mese di gravidanza. «Non c’era tempo per i sentimenti» quando si preparava per un attacco, afferma oggi il maggiore. Ovviamente i battiti del cuore acceleravano e sentiva una scarica di adrenalina, continua, «ma una volta presa la decisione, e appurato che il bersaglio era un nemico, una persona ostile, un obiettivo consentito che doveva essere distrutto, non avevo problemi a sparare». Dopo il lavoro tornava a casa a Las Vegas percorrendo la Route 85, ascoltando musica country. Raramente pensava a quello che succedeva nella cabina di pilotaggio, se non per ripassare le procedure, con la speranza di migliorare i propri risultati. Poi andava a fare acquisti; quando era nervosa andava a correre. Ciò che la spingeva ad alzarsi ogni mattina era il pensiero di aiutare i commilitoni a terra.
A casa di Meyer non c’era posto per i mali del mondo. Lei e il marito, pilota di droni, non parlavano di lavoro. Oggi il maggiore ha due figli piccoli, vuole mostrare loro che «la mamma va al lavoro e può riuscire in quello che fa». Non vuole essere come le donne afghane che osservava: remissive e coperte dalla testa ai piedi. «Quelle donne non sono guerriere» afferma. Il suo attuale lavoro di addestratrice la soddisfa, però un giorno le piacerebbe tornare al combattimento.
Non come Bryant che, dopo l’incidente con il bambino, voleva andarsene e fare qualcos’altro. Trascorse qualche altro mese in Afghanistan. Una volta tornato in Nuovo Messico scoprì improvvisamente di odiare la cabina di pilotaggio. Nei giorni tranquilli Bryant scriveva nel suo diario frasi come questa: «Sul campo di battaglia non vi è più distinzione tra buoni o cattivi, amici o nemici, solo sangue dappertutto. Guerra totale. Ho assistito a ogni tipo di orrore. Vorrei che i miei occhi marcissero». Ma Bryant era molto bravo nel suo lavoro e non venne mai trasferito ad altro incarico.
A un certo punto non si divertiva più con i suoi amici. Incontrò una ragazza, ma lei si lamentava del suo cattivo umore. «Non posso semplicemente cancellare tutto e ritornare alla vita normale» le disse. Quando tornava a casa, non riusciva a dormire. Iniziò anche a rispondere male ai superiori. Un giorno mentre era al lavoro collassò, si piegò in due e iniziò a sputare sangue. Il dottore gli ordinò di stare a casa e di non tornare al lavoro fino a quando non fosse riuscito a dormire più di 4 ore a notte per 2 settimane di seguito. I medici dell’amministrazione veterani gli hanno diagnosticato un disturbo post traumatico da stress. La speranza di una guerra che potesse essere portata a termine senza ferite emotive è stata disattesa. Anzi, il mondo di Bryant si è fuso con quello del bambino in Afghanistan. Come un cortocircuito nel cervello dei droni.