Giampaolo Visetti, la Repubblica 31/1/2013, 31 gennaio 2013
CINA, OPERAIO CERCASI
Il signor Zhou Yiu commercia migranti da quando aveva sedici anni. Ha cominciato acquistando treni di contadini ed ex rivoluzionari maoisti nello Hunan, da smistare nei cantieri edili di Pechino e nel suo nascente porto nella baia sul Mar Giallo. «Quarant’anni fa — dice nel suo sproporzionato ufficio imbottito di sedie basse e larghe, accostate a tavoli in sandalo rosso — bastava dire a un funzionario locale del partito che ti servivano trentamila uomini, e una settimana dopo li avevi davanti, pronti a costruire la patria». Una ciotola di riso, i soldi per tornare al villaggio prima del capodanno lunare, e la Cina organizzò il più grande esercito di operai della storia. «Voi li chiamate schiavi — dice il cinquantenne milionario che controlla oggi legalmente un quarto della forza-lavoro per le industrie di Stato della seconda economia del pianeta — ma per noi restano patrioti. Anche l’Europa si è ricostruita grazie al sacrificio degli emigranti, è successo in America, avviene in Africa. Uscire dall’essenzialità è un’ambizione che costa la vita di qualche generazione».
Il signor Zhou indica uno sconfinato parcheggio semivuoto, cinquanta piani più in basso, come contemplando il corso ormai deciso delle cose. Stormi di uomini già fatti, scendono da furgoni avvolti nello smog e vengono fatti risalire sulle navette di aziende rimaste con la catena di montaggio scoperta. È sempre tardi, nemmeno il tempo di spegnere la sigaretta: non ci sono più salariati per tutti. Il distretto industriale tra Pechino e Tinjin somiglia oggi ad uno di quegli anfratti invisibili alla deriva nell’oceano, non rilevati dai radar, ma al centro dei quali si esercitano i piccoli vortici destinati a trasformarsi nei più devastanti cicloni.
«La Cina — dice Zhou — sta esaurendo le braccia robuste. È come una foresta dove si è tagliato troppo in fretta, senza piantare. E il mercato continua a spostarsi dove c’è paglia che subito brucia». Gru, ciminiere e stabilimenti sempre più fitti, sembrano smentire il vaticinio di una fabbrica-Paese costretta a chiudere reparti che valgono più di una nazione europea. La tromba d’aria del lavoro cinese però è partita e i mercati dell’Asia, sensibili come bracconieri, stanno già dando l’allarme: l’operaio cinese è in via di estinzione, incompiuto come un pinguino, candidato a diventare vecchio prima di essere riuscito a diventare ricco.
Nel 2012, per la prima volta, in Cina la popolazione in età lavorativa è diminuita. Gli individui tra 15 e 59 anni sono 937,27 milioni, 3,45 milioni in meno rispetto al 2011. Un granello di polvere che si stacca dalla Grande Muraglia. Nel punto più fragile, però, e anche le autorità, se si parla di tute blu, hanno la visione posteriore di un trilobita del paleozoico. «Il calo purtroppo — dice Ma Jiantang, direttore dell’Ufficio nazionale di statistica — indica una tendenza. Tra oggi e il 2025 la Cina perderà 10 milioni di lavoratori all’anno ed entro il 2030 mancheranno quasi 200 milioni di teste. Non è solo un’emergenza produttiva». Le industrie costiere, dal Guangdong allo Zhejiang investono già su rosse armate di robot che dovranno sostituire ingrigiti drappelli di meccanici. Ma il primo avviso della scomparsa dell’operaio cinese, proprio nell’anno in cui Pechino è chiamata a riaccendere la ripresa globale, fa suonare campanelli negli uffici seminati su tutto il pianeta consegnato alla “GrandeFabbrica”. «La gente sparisce dalle piante degli organici — dice Gu Baochang, docente all’università Renmin — perché diventa vecchia. Oggi i cinesi anziani sono circa 200 milioni, meno di un sesto della popolazione.
Nel 2030 saranno 360 milioni, quasi un quarto, per arrivare a 400 milioni entro vent’anni. Non avremo più contadini, né operai, ma neppure qualcuno che paghi servizi, medicine e pensioni». Può ricordare le chiacchiare annoiate dei gerontocrizzati parlamenti europei. Ma qui il metro è quello smisurato della Cina e se si perdono 200 milioni di operai, per guadagnare 400 milioni di anziani, l’impatto di questo nuovo continente sociale del secolo, ha la forza di sconvolgere il mondo.
La trasformazione non svuota del resto solo i parcheggi delle società interinali delle megalopoli. Dentro le fabbriche, le facce di chi protesta per disporre di oltre due minuti per andare in bagno, non sono più quelle dell’epoca d’oro. «Nel 1990 — dice l’economista della Tsinghua, Zhiu Shijian — l’età media dell’operaio cinese era di 24 anni. Nel 2000 è salita a 37, ora si aggira sui 49. È raddoppiata, mentre la produttività dei lavoratori si è ridotta a un terzo. Macchinari a parte, servono tre persone per svolgere le mansioni prima affidate ad una. Una nazione, come un organismo, non si sveglia vecchia di colpo, una certa mattina».
Sotto accusa, questa volta, non c’è solo la legge del figlio unico. La spietata selezione di Stato, in oltre trent’anni, ha risparmiato all’universo oltre 400 milioni di umani consumanti. È un sacrificio di massa che ha costruito 55 milioni di «nidi vuoti», come i cinesi chiamano le case abitate da un genitore abbandonato, ma che incide sempre meno sulla demografia. «Se anche il partito concedesse a chiunque di mettere al mondo i neonati che desidera — dice Hu Yanqin, operaia di un villaggio del Gansu che lotta contro il deserto del Gobi — non assisteremmo ad una festa di bambini. I figli ormai costano troppo anche in Cina, succhiano ogni risorsa e non restituiscono nulla». La prova è Shanghai. Il 37% degli sposi, a cui è riconosciuto il permesso di allargare la famiglia, rinunciano anche al primogenito. Da 18 nascite ogni mille abitanti, nel 2000, si è crollati a 8. Si realizza lo schemaincubo della nuova leadership comunista, il “4-2-1”: famiglie con quattro nonni, due genitori e un solo figlio che per confuciano rispetto dovrebbe poi provvedere a tutti. Un’utopia, nella terra promessa dei centri commercia-li, governata da dirigenti ineffabilmente transitati dall’«arricchirsi è glorioso» al «non consumare è abominevole».
Ma come gli eroi dell’urbanizzazione cinese hanno imparato a sopportare, l’estinzione dell’operaio da 100 dollari al mese è un cataclisma assai più profondo di contingenze rimediabili, quali fertilità e longevità della specie. I nuovi figli unici, a morire avvelenati nel capannone di un terzista che esporta t-shirt in Occidente, non ci pensano nemmeno. Il traguardo è l’università, una scrivania, il mutuo per la seconda casa, le vacanze ad Hainan. In dieci anni gli atenei cinesi sono così raddoppiati, toccano quota 2.420 e ogni anno dalle aule tracimano 8,3 milioni di neolaureati. Ancora non bastano e il governo ha investito altri 250 miliardi di dollari per trasformare la più gigantesca massa di lavoratori a basso costo nella più numerosa categoria di colletti bianchi da ceto medio. Per l’ultimo balzo, il sorpasso sugli Usa, servono manager. «Il potere si rende conto — dice Guan Anxin, sociologo dell’Accademia delle scienze di Pechino — che la stagione
operaia volge al termine anche in Cina. Non accadrà domani, ma il destino è chiaro. Cinquecento milioni di operai sono invecchiati, duecento milioni di ragazzi imboccanoaltrestrade,ilaureati migliori vanno all’estero. La carenza di braccia e di cervelli, pone per la prima volta il problema drammatico dei diritti e del costo del lavoro. Pagare il giusto è necessario per accelerare l’urbanizzazione epromuoverelaristrutturazione economica, aumentando i consumi interni. Ma in Cina, chi
ci prova, per ora chiude».
È la ragione per cui nelle storiche regioni industriali, nella tenaglia tra carenza di manodopera, scioperi, aumenti della paga e crollo dell’export, si assiste per la prima volta anche alla fuga delle imprese. Il salario operaio medio, in una metropoli in espansione come Chongqing, è schizzato all’equivalente di 300 euro al mese. In Vietnam si resta sui 100 dollari, in Thailandia e nel Sudest asiatico si scende a 80, in Bangladesh e Birmania si lavora per un dollaro al giorno. Quantità e costo degli operai sono solo una delle valutazioni,
non quella decisiva, che inducono gli investitori a scegliere il luogo dove produrre. La pressione politica induce più di un ritorno eccellente in Occidente e il ministero del Commercio cinese ha rivelato che per la prima volta nel 2012 gli investimenti diretti esteri sono scesi del 3,7%. Si sono arenati a 111 miliardi di dollari, mentre sempre più aziende cinesi e multinazionali, «per coprirsi le spalle in Oriente», cominciano a delocalizzare in Paesi emergenti più competitivi. «La scintilla di questa rivoluzione produttiva — dice Andrew Heath, direttore marketing del più grande gruppo cinese di macchine utensili — è il declino dell’operaio cinese giovane e a costi stracciati. Nella fascia bassa, la Cina ha perso il vantaggio accumulato e la transizione porta ineluttabilmente verso l’orbita indiana, prossimo monopolista dei beni globali di consumo. Nella produzione media e alta però, fino ad oggi riservata a Giappone e Corea del Sud, Pechino sta riprendendo il suo slancio, offrendo il più ricco mercato di ogni tempo».
Da ex contadini e operai in via d’estinzione, i cinesi provano a reinventarsi tecnici e manager, per fingersi finalmente sazi e insoddisfatti giocatori di Borsa, come europei e americani. I salariati rossi diventano azionisti in nero e i fondi del partito possono acquistare in saldo i reperti archeologici della post-industrializzazione occidentale. Mancano operai? «Problema più superato di loro — dice l’economista Ha Jiming — i confini anche in Asia resistono solo per i politici mediocri e l’elettronica ha bisogno di scienziati e di ingegneri, non di schiavi che girano bulloni». È chiaro che una vecchia Cina capitalista delocalizzata, faro della ricerca e circondata da nuove Cine più giovani che non contano le ore, muta le prospettive virtuali che i guru di Davos preconizzano affondando lo stiletto nella fondue.
I mercati finanziari soffrono e l’euro avvista nuove tempeste, ma è solo l’ignorata estinzione dell’operaio cinese, il cuore malato del low cost, che può contribuire a spiegare perché.
A Tianjin mancano pochi giorni al capodanno lunare e per la prima volta Zhou Yiu non riesce a sostituire i migranti in viaggio verso villaggi lontani. Le fabbriche- clienti lo tempestano di telefonate, offrono premi da tedeschi, ma niente, si devono fermare. Il fornitore di uomini, sprovvisto di merce, non risponde nemmeno più al cellulare. «Guardo certi lavoratori sopravvissuti che da anni piazzo in regioni agli antipodi, tra miniere, fornaci e concerie — dice — e penso che cambia tutto. Resistono perché hanno stuoli di parenti da sfamare e non sono ammalati abbastanza. Qualcuno lo sento amico, come il commilitone di una battaglia sospesa ». Dice «cambia» e «sospesa ». Pechino perde gli operai, ma scrive già un’altra storia e i suoi occhi vagano su orizzonti nuovi che noi ancora non vediamo.