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 2013  gennaio 31 Giovedì calendario

LA GUERRA UCCIDE ANCHE I GIORNALISTI: 88 NEL 2012

Sono 88 i giornalisti ammazzati lo scorso anno. Mai, da quando «Reporter sans frontières» pubblica il suo rapporto annuale, era il 1995, mai da quell’anno sono stati così tanti i morti sul campo. La retorica prende facilmente la mano, se il racconto sfiora le facce, i nomi, i sudori marci, anche la paura, di chi è stato ammazzato accanto a te, da una cannonata cieca, o da un kalashnikov puntato addosso, oppure da un coltellaccio che taglia la gola urlando d’angoscia. (Ma la morte campa anche con la retorica, anzi se ne nutre senza pudore; e alla fine la perdona pure.)

La guerra, in Siria, in Somalia, nel Pakistan, in Afghanistan, la guerra anche in Messico o in Colombia, la guerra certo che ammazza, e non sceglie chi ammazzare; quasi mai. La guerra divora le vite e il loro ultimo respiro cieca, indifferente. Di quegli 88 morti, tuttavia, una larga parte racconta storie con un destino invece segnato, bersagli voluti e fatti fuori perché molesti, perché stupidamente impegnati a guardare la realtà con gli occhi e non soltanto con lo scudo rassicurante d’un computer onnisciente. Sembra paradossale che nel tempo in cui la Rete, l’informazione virtuale, i byte, e una tastiera sempre docile, squarciano da uno spazio ormai remoto la conoscenza del mondo e la staccano dalla sua greve corposità, è paradossale che in quello stesso tempo si muoia come non mai prima, agnelli sacrificali d’un rito che oggi appare anacronistico. Forse perfino inutile.

Possono essere anche soltanto occasionali, questi numeri così pesanti, e la retorica l’anno prossimo dovrà magari rintanarsi nell’ombra frustrata d’un ciclo meno tragico. Ma Kapuscinski diceva che «noi, un tempo, sceglievamo di fare i giornalisti perché volevamo misurarci con la realtà, raccontarla nella sua tragica materialità; oggi, da molti si fa giornalismo come impiegati dell’informazione». C’è forse troppo orgoglio in quella frase, e però dietro la nostalgia malinconica d’un passato finito, a volerla leggere per quello che le sue parole gridano c’è anche il richiamo a non sottrarsi alla sfida della conoscenza diretta, alla testimonianza che dà peso e corpo al racconto della vita.

E questo, anche perché i numeri del rapporto di Rsf (rsf-italia@rsf.org) inchiodano il lavoro del giornalismo a una dimensione inquieta, che non è soltanto quella – alla fine quasi scontata, nello show dell’informazione – di quanti sono stati ammazzati: accanto agli 88 perduti in guerra, ci sono poi però gli 879 giornalisti arrestati in ogni parte del mondo, i 1983 aggrediti o minacciati, i 38 rapiti, i 73 costretti a scappare oltrefrontiera, i 144 blogger imprigionati, anche i 47 netcitizens assassinati perché il loro aiuto ai media tradizionali rompeva le scatole a qualcuno, gli disturbava i traffici, indicava colpe e responsabilità.

Dal rapporto viene drammaticamente il disegno d’un atlante dove la relativa normalità di alcune aree (Finlandia, Olanda e Norvegia continuano a essere ai primi tre posti della classifica, e da tempo) si accompagna alle pratiche - talvolta sofisticate, ma più spesso rozze e criminali - d’una repressione della libertà di espressione che tradisce speranze fiorite troppo presto (la Primavera araba, con Egitto, Tunisia, Libia risbattuti nel basso cupo della classifica) o che sfrutta coperture mimetiche di regimi che nascondono dentro il formalismo della democrazia elettorale un esercizio narcisisticamente autoritario del potere (la Russia di Putin è piantata al 148° posto su 176, anche se gli affari lucrosi del suo gas gli fanno tendere una mano dai leader che a casa propria difendono la libertà di pensiero).

E l’Italia. Quest’ultimo anno ha rimontato 4 posti, dal 61° al 57°, merito d’un governo meno tentato da avventure rapaci nel controllo dei media ma sempre schiacciata dentro un corpo legislativo che ha fatto di Sallusti un eroico martire della libertà di stampa. Siamo gli ultimi dei primi, in questa classifica amara; Rodotà denuncia i limiti del nostro sistema a fronte della evoluzione (liberatoria?) delle tecnologie dell’informazione, l’osservatorio «Ossigeno» denuncia un costume che ancora non muta, con 10 giornalisti italiani costretti a vivere sotto scorta, e 1.200 che nello scorso anno sono stati vittime di intimidazioni e di minacce, anche di morte. Il giornalismo, quando è giornalismo, e cane da guardia non cane da salotto, paga un prezzo alto, che non è soltanto la retorica di chi viene ammazzato in guerra.