Giornali vari, 12 novembre 2012
Anno IX – Quattrocentocinquantesima settimana Dal 5 al 12 novembre 2012Obama Obama ha vinto le elezioni americane battendo Romney per 332 a 206
Anno IX – Quattrocentocinquantesima settimana Dal 5 al 12 novembre 2012
Obama Obama ha vinto le elezioni americane battendo Romney per 332 a 206. Resta dunque alla Casa Bianca per altri quattro anni, come ha annunciato con un twitter («four more years») a cui ha allegato la foto del suo abbraccio con Michelle, subito diventata la più cliccata della storia. Le feste, le lacrime e il resto hanno nascosto l’effetto più importante dell’elezione: la caduta pressoché immediata di tutte le Borse, Wall Street compresa. I mercati, nonostante la continuità garantita dagli elettori americani, sono fortemente preoccupati.
Fiscal cliff Si votata anche per il rinnovo integrale della Camera, che è rimasta in mano ai repubblicani. Si annunciano dunque problemi nei rapporti tra il presidente e il suo parlamento: il 1° gennaio 2013, in assenza di un accordo tra democratici e repubblicani, scatterà il “fiscal cliff” o “baratro fiscale” una serie di tagli alla spesa sociale e di aumenti automatici delle tasse. I calcoli sulle conseguenze di questo “fiscal cliff” sono stati già fatti: si tratta di una finanziaria (per dir così) da 600 miliardi di dollari, che significa una flessione del 2,9% dell’attività economica nel primo semestre del 2013, entrate fiscali maggiorate del 19,6%, un aggravio di costi per la famiglia americana di 3.500 dollari di imposte, reddito disponibile ridotto del 6,2%, con effetti devastanti sui consumi. Gli americani comprano, e se comprano di meno ci andiamo di mezzo anche noi. D’altra parte il debito americano ammonta a 11.360 miliardi di dollari, non lontano dal 90% del Pil e Obama vuole farlo scendere a 4.000 miliardi in dieci anni. Una manovra possibile senza precipitare il Paese in una recessione? E che conseguenze avrebbe, sul pianeta in crisi e sull’Europa ancora più in crisi, un’America in recessione?
Programma Altri punti del programma di Obama: riduzione del 50% delle importazioni di petrolio entro il 2020, taglio delle emissioni di carbone e mercurio, regolarizzare le situazioni dei figli degli immigrati e dei gay, affermare con più forza la libertà della donna in tema di aborto e contraccezioni (una posizione che aveva schierato la Chiesa col mormone Romney), dieci miliardi di investimenti sull’istruzione nei prossimi dieci anni, no a qualunque iniziativa di Israele contro l’Iran (anche Tel Aviv tifava per Romney), taglio alla Difesa di 500 miliardi entro il 2020-2022. Obama spera in una politica espansiva dell’Eurozona ed è quindi in rotta di collisione con la Merkel. L’interscambio Europa-Usa è di molto superiore a quello tra Stati Uniti e Cina/Giappone combinati: 636 miliardi di dollari nel 2011 (+14%), un giro d’affari da cinquemila miliardi di dollari che dà lavoro a 15 milioni di persone. Un patrimonio che la crisi di qua e di là rischia drammaticamente di intaccare.
Referendum Merita dare un qualche conto dei 174 referendum, votati in 137 stati contemporaneamente al voto per il presidente. Ne esce, in generale, un’idea di America più liberal. Il Maine e il Maryland hanno dato il via libera ai matrimoni gay – a questo punto ammessi in otto stati – Washington e Colorado hanno detto sì alla marijuana per uso ricreativo, la Florida ha respinto il taglio dei fondi destinati all’aborto, ha fatto notizia anche l’elezione in Senato della prima lesbica dichiarata, Tammy Baldwin, eletta in Wisconsin. Non è passato invece il referendum in California sull’abrogazione della pena di morte.
Cina Obama era appena stato rieletto che a Pechino, nella Grande Sala del Popolo della piazza Tienanmen, si apriva il 18° congresso del Partito comunista cinese. Congresso fondamentale – e ancora in corso mentre scriviamo – dal quale usciranno il nuovo presidente e il nuovo segretario del partito a cui, da marzo, saranno affidati anche i vertici dello Stato. I due uomini nuovi si chiamano Xi Jinping (presidente) e Le Keqiang (segretario, a marzo primo ministro), due nomi che al pubblico occidentale dicono poco o niente, e che, secondo gli analisti, rappresentano il punto di equilibrio tra le varie fazioni che in Cina si dividono il potere. Misteri sul destino dei due capi uscenti Hu Jintao e Wen Jaobao. Hu Jintao ha aperto i lavori del congresso gridando che «la corruzione può provocare l’affondamento del partito e dello Stato». Un allarme sorprendente se si pensa che lo scorso giugno il Wall Street Journal ha rivelato le ricchezze milionarie del futuro presidente Xi Jiping e a ottobre il New York Times ha fatto conoscere al mondo quelle dell’attuale premier Wen Jaobao. Il congresso cinese ci interessa per le evidenti implicazioni con la nostra crisi. Pechino detiene 1.350 miliardi di titoli americani, e basta questo per capire quanto i destini delle due prime economie del mondo siano intrecciati: finora gli americani emettevano i loro treasuries (i nostri bond), i cinesi li compravano e con i soldi ricevuti in prestito gli americani poi compravano soprattutto merci cinesi. Questo giro folle tiene in piedi entrambe le economie, ma che succederebbe se, come sembra, la nuova dirigenza di Pechino decidesse di concentrarsi sulla domanda interna e di lasciar perdere il debito americano? A che livello schizzerebbero a quel punto i tassi sul debito Usa, il cui spread con i titoli tedeschi è oggi pari a zero? D’altra parte, la Cina non può permettere un indebolimento eccessivo del dollaro, che avrebbe come conseguenza una svalutazione anche delle sue riserve. Tutto questo mentre il Paese non cresce più come un tempo e si scorgono all’orizzonte formidabili problemi sociali. Le quattro grandi banche pubbliche tengono in scacco il mercato, le amministrazioni locali hanno debiti per 1,28 miliardi di euro, quasi sempre inesigibili, la classe media è in crescita ed entro il 2020 sarà passata da 109 a 202 milioni di famiglie. Ovunque e da sempre la classe media, appena si forma, vuole benessere, libertà, emozioni, potere. I potenti che si alternano alla tribuna del congresso sembrano al contrario vecchi, grigi, immobili. Si propongono, senza badare a quello che gli capita intorno, di fissare adesso le linee guida di sviluppo del Paese per i prossimi dieci anni.
Petraeus David Petraeus, 60 anni, mitico generale delle guerra in Iraq e Afghanistan e promosso da Obama a capo della Cia, sposato e con due figli, appena conosciuto il risultato elettorale è andato alla Casa Bianca e si è dimesso: «Ho tradito mia moglie, ho mostrato scarso giudizio, ho tenuto un comportamento inaccettabile sia come marito che come uomo». Scandalo enorme, e in qualche modo misterioso: anche in una società puritana come quella Usa, può cadere per un adulterio il capo della Cia? La donna in questione si chiama Paula Broadwell, plurilaureata, 40 anni, sposata a un radiologo e con due figli. A un certo punto chiede a Petraeus di starsene per un anno in Afghanistan con lui, embedded con i militari Usa, per vedere la guerra con gli occhi del generale tanto famoso. Permesso concesso. Abbiamo molte foto della Broadwell in missione: la Broadwell con l’elmetto e la mimetica, la Broadwell con i poveri ragazzi afghani, eccetera. I due finiscono a letto, come era forse anche troppo prevedibile. Il libro esce ed ha successo. Lei poi lo lascia. Lui allora la tempesta di mail anche sconce (sogno di far sesso sotto la scrivania ecc.), finché una di queste mail finisce in mano all’Fbi, che comincia a indagare e a un certo punto chiede al generale che intenzioni abbia. Paula ha già tentato, attraverso di lui, di andare a scoprire i segreti del Pentagono, la sicurezza del Paese è in pericolo. Petraeus si dimette prima che lo costringano ad andarsene. C’entrano di sicuro, nella vicenda, la figura mediocre fatta dalla Cia nel massacro di Bengasi dello scorso 11 settembre. E, forse, anche il ruolo di una terza donna, Jill Kelley, di 37 anni, sposata e con tre figli, che forse sarebbe a sua volta andata a letto con Petraeus, di cui forse la Broadwell era gelosa, eccetera eccetera. Trama tutta ancora da capire.