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 2013  gennaio 30 Mercoledì calendario

Storia e filosofia dei Beni comuni


[note alla fine]

4. Diritto "continentale" e «common law».
Fra i temi ricorrenti nella discussione sulla proprietà collettiva ha speciale risalto il contrasto fra diritto romano, che alla proprietà individuale dette precipua importanza, e diritti germanici, dove le forme di appropriazione collettiva della terra furono radicate e diffuse. La comparazione fra tradizione romanistica (vista attraverso il filtro del Codice napoleonico) e altri diritti ebbe talora l’intento di affermare la superiorità del diritto romano, talora invece quello di relativizzarne la centralità. Nell’un caso e nell’altro, alla proprietà individuale, assunta a categoria dominante del diritto romano, venivano contrapposti di volta in volta la Markgenossenschaft germanica, la Allmende tedesca e scandinava, la Bürgergemeinschaft svizzera, il Mir russo, la Zadruga degli slavi del Sud, la Township scozzese e inglese e cosí via, fino a esperienze ancor più lontane di proprietà collettiva, per esempio in India o a Giava. Su questa contrapposizione se ne è innestata un’altra, quella fra civil law dell’Europa continentale, che sul modello del diritto romano è basata su codici e leggi, e common law inglese (e statunitense), sistema giuridico di lontana ascendenza germanica sganciato (anche se non del tutto) dal filone romanistico e che si fonda invece sulla consuetudine e sui precedenti giurisprudenziali.
Assai diverso è, nelle due divergenti dottrine giuridiche, lo statuto giuridico della proprietà. Nella tradizione continentale, essa è un diritto che insiste su un bene, inteso come una cosa materiale, mentre nei sistemi di common law tende a esserne svincolato, donde la categoria di chose in action (letteralmente «cosa in azione»), distinta dalla chose in possession («cosa posseduta»): una configurazione estranea alla tradizione romanistica. Perciò negli ambiti di common law, secondo una frequente immagine, più che un diritto di proprietà esiste un "fascio di diritti" (a bundle of rights) che si può rappresentare come una fascina di rami (a bundle of sticks), che possono essere separati e attribuiti a vari soggetti. Questa relativa "immaterialità" del diritto di proprietà ha conseguenze importanti: prima di tutto, rende più agevole disaccoppiare proprietà e uso del bene; inoltre, si presta meglio a coprire altre specie di proprietà, come i titoli finanziari. Nella tradizione di common law i commons (terreni e risorse possedute in comune) hanno sempre avuto un posto importante, anzi lo hanno ancora, pur essendo stati lungamente combattuti da ricorrenti enclosures. Si potrebbe dunque credere che le forme di proprietà collettiva debbano avere, per contrasto, un ruolo marginale nel diritto romano e nelle sue derivazioni continentali.
Non è necessariamente così. Il diritto romano assegna infatti un ruolo importante ad alcune tipologie di res communes (beni comuni), alternative e convergenti con le forme di proprietà pubblica che sono l’origine storica del patrimonio statale negli Stati preunitari e in Italia, fino a oggi [10]. Centrale per i Romani fu la distinzione fra res extra commercium (o extra patrimonium), rigorosamente sottratte al mercato, e res in commercio (o in patrimonio). Per definizione fuori commercio, attribuendone la proprietà nominale agli dèi o ai defunti, furono considerate tutte le "cose di diritto divino" (res divini iuris), come i templi e le tombe, ma anche le mura delle città. Più complesso era lo statuto delle "cose di diritto umano" (humani iuris). Fra esse, i giuristi romani distinsero tre categorie:
- quelle che appartengono al genere umano (res communes omnium), come l’aria, le acque, i mari, le spiagge, e sono per loro natura extra commercium;
- le res publicae, che potevano appartenere o al popolo romano nel suo insieme o a una singola comunità (per esempio un municipium). Esse potevano essere in usu populi (come ad esempio le strade, i porti, i fiumi, i circhi, i teatri), e perciò necessariamente extra commercium; oppure in pecunia populi, e perciò commerciabili; o, analogamente, potevano esser distinte in res in usu publico e res in patrimonio fisci;
- infine, le cose di proprietà privata (res privatae), commerciabili.
Fra res communes e res publicae non vi è identità; esse si pongono tuttavia entro una sequenza coerente, formando una sorta di continuum il cui carattere distintivo è un’appartenenza collettiva cosí forte e radicata che ad essa può, e in certi casi deve, corrispondere l’inalienabilità del bene. L’appartenenza pubblica di un gran numero di beni inalienabili, ben presente nel diritto romano, mette in ombra, o meglio assorbe, le forme di proprietà collettiva (per le quali abbiamo usato sopra l’etichetta di "usi civici"), ma in nome di un più forte e stabile dominio delle istituzioni pubbliche. I sistemi di common law, al contrario, contemplano sí forme di proprietà collettiva o commons, ma sostanzialmente ignorano la categoria giuridica dei beni pubblici inalienabili (demanio). Le acque, per esempio, non sono proprietà pubblica, ma nemmeno dei privati nei cui terreni esse scorrono; ne è tuttavia riconosciuto l’uso comune, disaccoppiando proprietà (del terreno) e uso (delle risorse idriche). La categoria giuridica di commons si riferisce dunque all’uso e non all’appartenenza, anzi si applica trasversalmente sia alle risorse naturali indivisibili (come l’aria o il mare) sia alle proprietà private, che possono esser gravate di diritti consuetudinari d’uso comune.
Vediamo cosí inscenarsi, con conseguenze oggi molto importanti, una netta biforcazione fra i diritti italiani di tradizione romanistica e quelli anglosassoni di common law. I primi prevedono tre regimi di proprietà (pubblica, collettiva e privata), dove tuttavia la proprietà collettiva può essere sussunta sotto quella pubblica; nei sistemi di common law, invece, la stessa idea di una proprietà pubblica inalienabile (demanio) resta fuori della porta, mentre vi ha luogo quella di "beni comuni" o commons, anche perché favorita dalla netta disgiunzione fra appartenenza e disciplina d’uso dei suoli e delle risorse. Nonostante questa differenza di fondo, tuttavia, negli ultimi decenni il ricorso a categorie di common law è diventato sempre più frequente in Italia, a rimorchio di una dominante economia di mercato secondo il modello americano.
C’è una causa specifica di questa evoluzione (o involuzione); ed è il focalizzarsi del discorso politico nostrano sui problemi gravi ma contingenti del debito pubblico, e non su prospettive di lungo periodo come l’uso virtuoso dei beni pubblici per il generale interesse. È come se la natura stessa del debito, legata ai titoli finanziari e ai loro mercati, avesse sospinto le proprietà pubbliche (anche le Alpi) verso una sorta di immaterialità virtuale, facendone il corrispettivo di altrettanti pacchetti azionari: è di qui che nasce l’idea di cartolarizzare i beni pubblici, di cui diremo; è per questo che il Ministero delle Finanze ha voluto fissare al centesimo il "prezzo" delle Dolomiti e dei templi di Paestum. Scelte politiche come queste, fatte o subite all’insegna del risanamento del debito pubblico, comportano un netto slittamento verso i linguaggi e le pratiche di common law, che introducendo «una certa liquidità della proprietà» (l’espressione è di Rodotà) meglio si prestano a favorire i processi di privatizzazione, sbandierando la smaterializzazione del diritto di proprietà per occultarne gli effetti. Si è in tal modo affievolita la tradizione giuridica radicata nel diritto romano, e in suo luogo ha preso tacitamente piede la dissociazione, più o meno dichiarata, dell’appartenenza pubblica dei beni comuni, cuore e lievito dei sistemi di civil law come nominalmente è ancora il nostro, dal loro uso. Questo processo è stato favorito dal fatto che in una diffusa tipologia di "usi civici" italiani, come abbiamo visto, proprietà e uso dei beni possono per consuetudine essere disaccoppiati. Si perde cosí tuttavia una delle principali ricchezze della tradizione di matrice romanistica, quel continuum tra res communes e proprietà pubblica che dovrebbe essere il punto di partenza per un radicale ripensamento della natura e delle finalità dei beni pubblici, anche nella fattispecie di beni comuni (in quanto cose materiali), in funzione del bene comune (come valore). Troppo spesso questa conseguenza vien data per inevitabile. Occorre, al contrario, interrogare non solo la nostra tradizione storica ma le categorie del nostro ordinamento vigente (cioè della legalità) per chiedersi se e come la proprietà pubblica, anche nella fattispecie dei beni comuni, possa rispondere a un disegno coerente con le finalità della Costituzione.
5. Proprietà pubblica: appartenenza e uso.
L’altra grande modalità di appropriazione collettiva dei beni è quella dei beni pubblici [11]. La loro presenza nella tradizione giuridica e nelle pratiche di governo degli Stati italiani, e poi dell’Italia unita, è stata sempre robusta, e ha contribuito a indebolire e marginalizzare gli usi civici, ora facendoli confluire, di nome o di fatto, nelle proprietà pubbliche (per esempio nei demani comunali), ora considerandoli una loro variante consuetudinaria in via di naturale estinzione. Nella confusa stagione che viviamo, insomma, le due categorie di appropriazione collettiva dei beni sono sotto attacco su due fronti opposti: gli "usi civici" in nome di una rigida bipartizione tra proprietà pubblica e privata, in cui tertium non datur, le proprietà pubbliche in nome di un servile ossequio alle leggi del mercato ma anche alla common law e all’egemonia americana. Nessun ruolo sembra avere, in questo processo che si svolge lontano dalla coscienza dei cittadini, l’etica comunitaria che innerva l’idea di bene comune (come valore), anzi fonda e legittima resistenza di beni comuni, attributo necessario e garanzia di una società civile mirata all’utilità sociale e al pubblico interesse.
Demanio è la parola più frequente per designare le proprietà pubbliche, ma essa, lo vedremo subito, non ne copre che una parte. L’etimologia, come sempre, dice qualcosa ma non tutto: «demanio» viene dal francese antico demaine, corrispondente al latino dominium, termine che esprimeva il pieno diritto di proprietà, anche privata. Ma l’accezione moderna del termine, in cui è dato per scontato che dominium per eccellenza è quello dello Stato, risale alla legislazione francese fra Rivoluzione e primo Impero, e in particolare al Codice civile di Napoleone (1804). Quando la sua validità fu estesa a tutti gli Stati italiani (con la sola eccezione di Sardegna, Sicilia e province austriache), ne fu approntata la doppia traduzione ufficiale in italiano e latino; in alcune edizioni (come quella di Lucca del 1812), il testo italiano è accompagnato dall’indicazione delle fonti di diritto romano dei singoli articoli. Domaine public è qui tradotto con «demanio pubblico», territoire National con «territorio dello Stato», e più in generale « Stato» corrisponde, nel testo italiano, al francese nation. Viene di qui il Regio Demanio del Codice civile del Regno di Sardegna (1837), e poi il Demanio Pubblico del Codice civile italiano del 1865 e di quello del 1942, ancora in vigore. Ma questa nuova articolazione presuppone la costanza del nesso inscindibile fra sovranità, territorio e patrimonio pubblico:
Oltre la sovranità, a formare lo Stato concorre necessariamente qualcos’altro di comune e di pubblico: il patrimonio comune, il tesoro pubblico, il territorio occupato dalle città, le mura, le strade, le piazze, le chiese, i mercati, gli usi, le leggi e consuetudini, la giustizia (Jean Bodin, 1576).
I beni pubblici italiani sono "demanio" solo se destinati all’uso gratuito e diretto della generalità dei cittadini o ad altra funzione pubblica essenziale; è per questo che essi sono inalienabili. Accanto al demanio, lo Stato possiede anche un proprio patrimonio, che il Codice civile distingue in "indisponibile", cioè alienabile solo con forti limitazioni, e "disponibile", cioè alienabile senza limiti (hanno un proprio demanio e un proprio patrimonio anche Regioni, Province e Comuni). Abbiamo dunque, schematizzando, le seguenti categorie di beni pubblici:
Demanio inalienabile
Patrimonio
indisponibile inalienabile [con eccezioni]
disponibile alienabile
Sono inclusi fra i beni demaniali necessari quelli del demanio marittimo (che include anche le foci dei fiumi), del demanio idrico (che abbraccia laghi e fiumi, acquedotti e altri impianti), del demanio militare (opere permanenti di difesa). Del demanio accidentale fanno parte strade, autostrade, ferrovie, aereoporti e beni storici, archeologici e artistici (demanio storico-artistico).
Essenziale è la distinzione fra demanio e patrimonio dello Stato. Per usare il linguaggio del Regolamento per la contabilità dello Stato del 1884, che è il fondamento di quello oggi in vigore, «costituiscono il demanio pubblico i beni che sono in potere dello Stato a titolo di sovranità», mentre «formano il patrimonio quelli che allo Stato appartengono a titolo di privata proprietà». I beni demaniali appartengono dunque allo Stato-comunità, cioè ai cittadini (perciò sono inalienabili), mentre i beni patrimoniali appartengono allo Stato-persona, secondo un modo di possedere vicino alla proprietà privata. Questa distinzione è concettualmente e storicamente identica a quella, presente nel diritto romano, fra le res publicae inalienabili perché perpetuamente in usu populi e le res publicae commerciabili, perché in pecunia populi.
La Costituzione della Repubblica ha dato nuovo orientamento e nuovo senso a queste categorie. Essa non menziona il demanio né lo distingue dai beni patrimoniali dello Stato, ma si limita a dichiarare che «la proprietà è pubblica o privata» (art. 42). Questa forte bipartizione elude la menzione dei beni comuni, ma proprio la netta contrapposizione fra due soli regimi di proprietà consente di ri-definirli secondo una netta gerarchia di valori. Con sapiente strategia, infatti, i Costituenti limitarono l’assolutezza del dominio della proprietà privata, che il Codice civile del 1865 aveva definito, sulla scia dello Statuto Albertino (1848), come «il diritto di godere e disporre delle cose nella maniera più assoluta, purché non se ne faccia un uso vietato dalle leggi o dai regolamenti» (art. 436): di fatto, una riproposizione tal quale dello ius utendi et abutendi degli antichi massimari. Il Codice civile del 1942 aveva introdotto una prima attenuazione, definendo la proprietà privata come «diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico» (art. 832). La Costituzione va oltre: non si ferma alla generica menzione di limiti e obblighi, ma circoscrive il pieno dominio della proprietà privata: secondo lo stesso art. 42, infatti, la legge deve «determinarne i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti». Forte affermazione, da cui inevitabilmente discende che "funzione sociale" e "accessibilità a tutti" devono a maggior ragione essere caratteri o attributi necessari della proprietà pubblica. La gerarchia costituzionale di valori antepone dunque nettamente la proprietà pubblica a quella privata; per questo, è Rodotà a notarlo, la proprietà privata è esclusa dai «diritti inviolabili dell’uomo» di cui all’art. 2 [12]. Secondo il famoso commento di Calamandrei (1950), «per compensare le forze di sinistra di una rivoluzione mancata, le forze di destra non si opposero ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa». Una promessa, oggi lo sappiamo, non mantenuta.
Nella Costituzione la proprietà pubblica ha carattere necessario e prioritario, anche perché garantisce la proprietà privata, nel momento stesso in cui ne fissa il limite funzionale nella pubblica utilità. Già secondo la dottrina pre-repubblicana, il demanio necessario (come quello marittimo, idrico, stradale) lo è in due sensi diversi: perché comprende beni di uso collettivo, ma anche perché è componente essenziale della sovranità. Con la Costituzione repubblicana, questi due sensi diventano uno solo: l’art. 1 stabilisce infatti che «la sovranità appartiene al popolo», cioè ai cittadini, titolari delle utilità collettive. Risuona nell’art. 1 il passaggio della sovranità dal re alla Nazione (cioè al popolo) deciso per la prima volta nella Costituzione francese del 1791, di cui per questo aspetto siamo eredi. Da allora, e comunque per la nostra Costituzione, beni demaniali, usi collettivi ed esercizio popolare della sovranità sono tutt’uno. Il dominio eminente e perpetuo dello Stato sulle terre demaniali è costitutivo della nozione stessa di territorio (senza il quale non vi è Stato), e corrisponde necessariamente al libero godimento delle relative utilità da parte dei cittadini; è, cioè, condizione di eguaglianza, di libertà, di democrazia.
Oltre che dar rilievo a tutte le forme di proprietà pubblica e consentire la sussistenza degli "usi civici", la Costituzione aggiunge altri beni comuni di rilevante interesse pubblico: l’ambiente, il paesaggio, il patrimonio storico e artistico, i siti archeologici, e in genere i "beni culturali". Per queste tipologie la garanzia costituzionale, fissata come poi meglio vedremo dall’art. 9 (tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico), nella sua convergenza con l’art. 32 (tutela della salute), prescinde dal regime di proprietà, anche se poi il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (2004) prevede una tutela più forte per le proprietà pubbliche che per le private. Ma i beni culturali, paesaggistici e ambientali, che siano pubblici o privati, costituiscono un continuum da tutelare non solo in ciascuna delle sue parti, ma nell’insieme. In essi convivono infatti due distinte componenti "patrimoniali": una si riferisce alla proprietà del singolo bene, che può essere privata o pubblica; l’altra ai valori storici, artistici e culturali, che sono sempre e comunque di appartenenza pubblica (cioè di tutti i cittadini), e rimandano a funzioni e fruizioni collettive, a un patrimonio condiviso di cultura e di memoria, a un bene comune (in tal senso, per esempio, la sentenza n. 232/2005 della Corte costituzionale). Questa seconda componente, all’insegna del pubblico interesse, può esser definita "immateriale", eppure esige la tutela dell’integrità materiale dei beni culturali, del paesaggio, dell’ambiente. La loro inclusione nell’universo dei beni comuni è rivelatrice: unita alle altre categorie (proprietà pubblica e usi civici), essa dimostra che i beni comuni sono figura della cittadinanza, rivestono una notevolissima funzione civile, incarnano vitali valori di solidarietà culturale, economica e sociale. I "beni comuni" (tangibili) sono essenziali alla promozione del "bene comune" come valore.
Questa essenziale funzione civile dei beni culturali e di altre fattispecie connesse obbliga a riflettere sul rapporto fra proprietà pubblica e beni comuni. Come vedremo meglio nel prossimo capitolo, l’una e gli altri costituiscono un continuum, e se la Costituzione non menziona i beni comuni non è per disinteresse (né tanto meno per marginalizzarne l’importanza), bensì perché i Costituenti giunsero alla conclusione che la proprietà collettiva ("beni comuni") potesse anzi dovesse essere tacitamente assorbita entro la categoria onnicomprensiva di proprietà pubblica, rendendone in tal modo più netta ed efficace la contrapposizione categoriale alla proprietà privata.
6. «Commons» e «Anticommons»: due opposte "tragedie".
Negli ultimi vent’anni molti commentatori e politici, a quel che pare, si sono convinti che ogni aspetto dei beni comuni che abbia natura etica, storica e giuridica debba essere archiviato, anzi messo in soffitta come fastidioso residuo di un tempo che fu. Il loro angolo visuale è un altro, e uno solo: la redditività immediata dei beni comuni. Si dà per scontato che, in questo come in ogni altro ambito della vita, il supremo valore-guida debba essere necessariamente la ricerca del massimo profitto e la cieca obbedienza a pretese leggi universali del mercato. È con questo presupposto che si parla sempre più spesso di "tragedia dei beni comuni" (tragedy of the commons). Questa fortunata espressione corrisponde a una drammatizzazione dello scenario socio-economico, che quasi narrativamente si traduce in una sorta di apologo, questo: la proprietà indivisa di beni comuni spinge inevitabilmente ciascuno degli aventi titolo a goderne, nel proprio interesse, senza limiti; ma proprio perché quei beni sono accessibili a tutti, si innesca un sovraconsumo che finisce col dilapidare le risorse fino a renderle insufficienti per la comunità che le possiede. Se per esempio un pascolo è condiviso da molti pastori, sarà interesse di ciascuno non solo sfruttarlo al massimo per le proprie pecore, ma anche accrescere le dimensioni del gregge; quando le pecore diventano troppe, l’erba del pascolo non basta più, l’economia del villaggio crolla di botto, e la comunione del pascolo, che all’inizio era stata economicamente produttiva, si traduce fatalmente in un meccanismo distruttivo. L’apologo dei commons dà per assodato non solo che la comunità di riferimento sia incapace di autoregolarsi, ma che sarebbe certamente inefficace anche una disciplina pubblica delle risorse (da parte dello Stato o di altre istituzioni, come in Italia potrebbero esserlo Regioni, Province, Comuni o Comunità montane). Non resta dunque che un’unica soluzione: privatizzare i beni comuni.
L’etichetta "tragedia", applicata a un processo (o a un racconto) come questo, ha una doppia valenza retorica: da un lato, come nelle tragedie in cui vien pugnalato dietro le quinte un personaggio inerme ma positivo, rende omaggio ai beni comuni come a qualcosa di teoricamente nobile. Dall’altro, come in tutte le tragedie che si rispettano, lo snodarsi degli eventi risponde praticamente a una spietata fatalità. Non c’è scelta, la "tragedia dei beni comuni" può avere un lieto fine, e uno solo: seppellita la vittima (la proprietà collettiva), entra in scena il vincitore, la proprietà privata. Non era questa, a dire il vero, l’intenzione di Garret Hardin, il biologo americano che in un famoso articolo su «Science» (1968) parlò per primo di The Tragedy of the Commons. In esso, è vero, si menziona fra l’altro il caso dei suoli di uso comune (con l’esempio del pascolo, poi sempre ripetuto), e si parla della proprietà privata come «ingiusta ma necessaria»; ma il vero tema di Hardin era il rapporto fra crescita (illimitata) della popolazione mondiale ed esaurimento delle (limitate) risorse del pianeta. È rispetto a questo macro-problema che egli raccomanda una forte regolazione, mediante forme di «mutua coercizione concordata», che nell’interesse del genere umano e del pianeta deve limitare l’uso delle risorse (aria, acque, terre) e frenare la crescita demografica, anche a costo di violare le libertà personali degli individui. Poiché le risorse del pianeta sono limitate, egli argomenta, per evitarne l’esaurimento non basta diffondere la coscienza del problema, non basta un diffuso senso di colpa o di ansietà, non basta un generico richiamo alla responsabilità dei cittadini. Non solo: secondo Hardin, un problema di questa portata non ammette soluzioni tecniche, cioè tali da potersi mettere in opera senza modificare la scala dei valori etici. Esiste una famiglia di "problemi senza soluzioni tecniche" (no technical solution problems), di cui questo è uno. Perciò il rapporto fra sovrapopolazione e finitezza delle risorse va affrontato modificando il costume e i valori correnti alla luce dei problemi di oggi: cioè mediante una rivoluzione squisitamente etica, che inneschi e regoli nuovi comportamenti.
Occorre dunque, per Hardin, ridefinire la responsabilità, sulla scia del filosofo Charles Frankel, come «il prodotto di specifici assetti sociali», cioè connettendola strettamente a una regolazione pubblica dell’uso delle risorse. Ma «si può imporre per legge la temperanza (legislate temperance)?», egli si chiede. La sua risposta è: si può, anzi si deve. Il principio di Adam Smith (1776), secondo cui «l’individuo che pensa solo al proprio profitto è guidato da una mano invisibile a promuovere il pubblico interesse» si è rivelato falso, e lo sarà tanto più quanto più il nostro pianeta diventa affollato. I problemi dell’oggi esigono un profondo ripensamento della moralità, che va ricalibrata su un mondo in pericolo: per esempio, gettare in campagna un po’ di spazzatura era forse tollerabile cento anni fa, ma è diventato oggi un delitto perché la civiltà industriale produce rifiuti ben più abbondanti e più dannosi della civiltà contadina da cui veniamo; e anche perché siamo già troppi, troppo è il suolo occupato dalle discariche, troppo il danno che esse fanno alla salute umana. Il riferimento esplicito è alla situation ethics, una moralità espressamente chiamata a ripensare se stessa a seconda delle circostanze (l’aveva teorizzata in quegli anni Joseph Fletcher, un pioniere della bioetica). Quello che Hardin considera il traguardo del liberalismo, e cioè «il maggior bene possibile per il maggior numero possibile di uomini» è irrealizzabile in una società del laissez-faire. Occorre ripensare quale sia il maggior bene, o il pubblico interesse, alla luce di una nuova etica capace di generare nuove norme e nuova responsabilità.
Come si vede, la formula della tragedy of the commons, per chi l’ha inventata, era calibrata sull’ecologia a scala planetaria, e non mirata a contestare le forme di proprietà collettiva in nome della superiorità della proprietà privata. Le categorie usate da Hardin sono ovviamente quelle della common law, e perciò il confine fra commons e regolazione pubblica delle risorse non coincide con quello dei diritti di tradizione romanistica, ma il punto centrale è un altro. La sua battaglia in favore di una «estensione sostanziale della moralità» condannava perentoriamente ogni "soluzione tecnica", che lasci intatta la scala dei valori etici; eppure la "tragedia dei beni comuni" che egli per primo ha messo in scena viene citata spesso, in forma distorta o di seconda mano, proprio per raccomandare una "soluzione tecnica": la privatizzazione dei beni comuni. Una soluzione che, con movimento rivelatore, lascia intatta, anzi conferma ed esalta, quella scala dei valori che per Hardin doveva urgentemente essere riformata.
Ma sugli scenari del presente la "tragedia dei beni comuni" non è sola: le fa compagnia da qualche tempo il suo rovescio, la "tragedia dei beni anticomuni". Inventore della formula è stato Michael Heller, un giurista (anch’egli americano) esperto in diritti della proprietà immobiliare. Il suo articolo, The Tragedy of the Anticommons, è uscito sulla « Harvard Law Review» nel 1998, a trent’anni esatti da quello di Hardin a cui simmetricamente corrisponde. Il sottotitolo indica chiaramente il punto di partenza: Property in the Transition from Marx to Markets. Nel turbolento processo di privatizzazione delle proprietà pubbliche in Russia e nell’Europa orientale dopo il crollo dei regimi comunisti ("da Marx ai mercati", appunto), è accaduto infatti che i beni, o i relativi diritti, siano stati frammentati e segmentati all’eccesso, in modo da accontentare il maggior numero possibile di compratori. La conseguenza è che le singole quote proprietarie sono insufficienti a generarne usi redditizi, e che entrando in competizione fra loro innescano meccanismi di sottoconsumo, riducendo significativamente gli introiti o addirittura paralizzando la produttività dell’insieme. Gli esempi di Heller sono vari: la suddivisione dei diritti in Russia, dove fu possibile vendere separatamente la proprietà di un immobile, il diritto di occuparlo, quello di affittarlo e quello di modificarne l’uso; la minuta ripartizione delle terre nelle riserve indiane in America, con un frazionamento progressivo tanto spinto da portare nel 1934 a un reddito nominale pro capite di I cent al mese; l’assoluto diritto di proprietà su particelle assai piccole che ha vanificato la ricostruzione di Kōbe (Giappone) dopo il terremoto del 1994: un isolato, per esempio, non si potè ricostruire nonostante il pieno finanziamento pubblico perché occorreva, e mancò, l’accordo unanime fra gli oltre trecento proprietari, affittuari e occupanti dei singoli lotti.
Se mettiamo sulla scena in simultanea le due opposte "tragedie", il risultato è chiaro: la proprietà collettiva non funziona perché conduce al sovrasfruttamento delle risorse; la quotizzazione molecolare non funziona perché ne provoca il sottosfruttamento. Ne risulta un mirabile equilibrio: l’unica soluzione virtuosa che resta sul palcoscenico dopo aver sgominato i "cattivi" della commedia (o della tragedia) è la proprietà privata concentrata in poche mani. Perciò un economista norvegese, Rögnvaldur Hannesson, ha potuto proporre la privatizzazione degli oceani secondo il sistema delle enclosures [13]. Se questo è il punto d’arrivo, non ci voleva poi tanto. Si poteva fare a meno delle categorie di common law, fare a meno di inventare la tragedia dei commons e quella degli anticommons. Stando allo scenario italiano, bastava ripescare dalla storia patria la questione della demanialità nelle province meridionali, dove senza ricorrere a professori americani accadde proprio questo: la privatizzazione delle immense proprietà collettive e pubbliche, passando talora attraverso una fase di suddivisione in piccole quote, finí con l’innescare processi di accorpamento, sfociati in grandi latifondi. Che questo sia stato un processo virtuoso, che abbia generato ricchezza diffusa, senso civico, democrazia, equilibrio nello sfruttamento delle risorse, davvero io non direi.
In questa discussione, che sta riempiendo di sé intere biblioteche, domina la scena politica americana (e, in subordine, britannica), e dunque il linguaggio della common law; giuristi ed economisti italiani sembrano generalmente soddisfatti di andare a rimorchio. Anche nella ricerca di un’alternativa, il copione non cambia: in diversa combinazione, vi ricorrono invariabilmente le categorie di un libro di Mancur Olson [14], che sebbene non citato da Hardin è sicuramente presupposto dalla sua tragedy of the commons. Per Olson, quando è in gioco un bene comune scatta una tensione inevitabile fra l’azione collettiva del gruppo che in quel bene ha un interesse condiviso e l’opportunismo (free ride) dei singoli individui che di quel gruppo fanno parte. In teoria, i membri del gruppo dovrebbero agire collegialmente, visto che condividono i benefici, ma in pratica il comportamento dei singoli è opportunistico e dominato dalle regole competitive del mercato; fra un comportamento cooperativo e il proprio interesse individuale, prevale sempre quest’ultimo (tanto più quanto più numeroso è il gruppo di riferimento). Unici correttivi possibili (per Olson): riservare benefici aggiuntivi a chi rispetta le norme cooperative del gruppo (col rischio, tuttavia, di creare minoranze privilegiate) o imporre regole coercitive.
È lavorando su questi temi che Elinor Ostrom ha vinto nel 2009 il premio Nobel per l’economia. Le tesi di questa studiosa presuppongono i lavori di Olson e di Hardin, ma anche osservazioni empiriche sulla capacità di auto-regolazione di determinate comunità che hanno sviluppato forme equilibrate di gestione dei beni comuni facendo leva su regole condivise di gestione, manutenzione e riproduzione dei beni e sull’esclusione da ogni beneficio di chi non le rispetta. Nel suo Governing the Commons [15], Ostrom respinge l’opposizione frontale fra rigidezza delle norme (che rimanda al potere regolamentare dello Stato) e competitività selvaggia di un mercato free ride, e rivaluta le antiche e universali consuetudini di gestione collettiva dei beni comuni, che designa con l’etichetta di commons, nell’accezione che essa ha nei diritti di common law. Muovendosi fra antropologia, economia e diritto (ma usando anche procedure della teoria dei giochi), Ostrom analizza le modalità organizzative di varie comunità, ciascuna delle quali ha un rapporto privilegiato e necessario con un determinato bacino di risorse condivise (common pool resource): aree di pesca ad Alanya (Turchia), a Mawelle (Sri Lanka) e sulla costa della Nova Scotia (Canada), aree a pascolo presso Törbel (Vallese) e altrove in Svizzera, boschi e terre di Yamanaka e altri villaggi del Giappone, canali e acque d’irrigazione a Valencia e in altri luoghi della Spagna, ma anche nelle Filippine. In questi luoghi si parlano lingue diversissime e vigono differenti leggi, eppure le consuetudini di autoregolazione sviluppate dalle varie comunità, spesso sperimentate già per secoli, hanno molto in comune: per far fronte a situazioni di difficoltà e incertezza nell’uso di risorse limitate, queste e numerosissime altre comunità umane hanno elaborato comportamenti cooperativi di lungo periodo, trasmettendoli di generazione in generazione.
Per Ostrom, l’esigenza di individuare una piattaforma di strategie comuni nella gestione dei commons rende impraticabile demandare alle pubbliche autorità la minuta regolamentazione delle risorse e dei comportamenti. La sua soluzione è «una teoria, su base empirica, di forme di azione collettiva (collective action) fondate sull’auto-organizzazione e l’autogoverno». Calibrato su comunità relativamente piccole (fino a 15000 persone), il modello di democrazia partecipativa e cooperativa sviluppato da Ostrom è molto attraente anche se rapportato su scala assai più grande, dove tuttavia un’etica consociativa fondata sul mutuo controllo e sulla condivisione dei benefici dovrebbe evolversi in nuove forme di codificazione, in cui le regole siano rispettate perché ritenute giuste e convenienti alla comunità nel suo insieme, ma anche perché garantite a un livello istituzionale. Elinor Ostrom ha costruito questa visione penetrante e originale negli anni della presidenza Reagan con la sua accentuata deregulation antistatale, e certo anche per questo le istituzioni pubbliche, come forza regolativa dei beni comuni, vi appaiono implausibili e distanti. A questa tendenziale assenza dello Stato fa anzi da contrappeso la proposta Ostrom di costruire le comunità di cittadini intorno ai beni comuni; la loro capacità di anteporre il pubblico interesse al profitto individuale, di generare regole condivise e di rispettarle è essa stessa un "bene comune", anzi l’incarnazione del bene comune come valore. Può rappresentare, per l’oggi e per le generazioni future, un capitale sociale da mettere a frutto. Nelle piccole comunità studiate da Ostrom, certo; ma forse anche su scala più grande.
7. Strategie di saccheggio.
Nel nostro Paese è in corso da alcuni decenni un’accesa discussione sui beni comuni di appartenenza pubblica (demanio e patrimonio), ma essa non ha nulla della ricchezza culturale e teorica di scritti come quelli di Garret Hardin o di Elinor Ostrom; nulla della loro lungimiranza. C’è stato anzi a quel che pare fra esperti e politici d’ogni tendenza (con pochissime eccezioni) un tacito accordo nella scelta di una prospettiva miope e di corto respiro, che nei beni pubblici vede solo una specie di salvadanaio da saccheggiare per contingenti esigenze di bilancio. L’altra faccia della medaglia è una sorta di conventio ad excludendum che ha espulso dallo spazio del discorso temi considerati, evidentemente, superflui o imbarazzanti. Tali sono la sostanza etica dei beni comuni, il loro statuto costituzionale, le dinamiche sociali della cooperazione, il rapporto fra beni comuni e proprietà pubblica. Infine, il vincolo necessario che lega da un lato la proprietà pubblica e i beni comuni (in senso patrimoniale) e dall’altro alcune idee-chiave, antiche ma oggi più attuali che mai: il bene comune (come valore) e la ricerca della felicità, per noi e per le generazioni future. In un’Italia assai distratta, il dibattito sul destino delle proprietà pubbliche si svolge, invece, quasi sempre in termini puramente economici, dandone per scontata la dominanza e l’impellenza, la priorità su qualsiasi altro ordine di valori.
L’idea che ha orientale questa discussione è semplice: da un lato, l’Italia ha da decenni un debito pubblico enorme e fuori controllo, che cresce anche perché vi si aggiungono gli interessi, e che va corretto anche per le pressioni dell’Unione Europea. Dall’altro lato, l’Italia ha un enorme patrimonio pubblico, non sempre gestito in modo redditizio. Ergo, si deve ripianare il debito pubblico, o almeno ridurlo, mediante la dismissione di parti più o meno grandi del patrimonio. Nessuno può negare che la riduzione del debito pubblico sia un obiettivo necessario, anche per poterci permettere un livello di spesa corrente che assicuri qualità e quantità dei servizi sociali, dalla scuola alla sanità. Ma la dismissione del patrimonio pubblico è davvero l’unica carta da giocare su questo tavolo? E, una volta giocata fino in fondo, siamo sicuri che sarebbe efficace? Il vero punto non è se, ma come, con che mezzi abbattere il debito, e farlo, però, evitando che la voragine resti aperta tal quale. L’accumularsi del debito pubblico non è una fatalità, una congiura di stelle avverse. Occorre analizzarne la genesi, diagnosticare la malattia prima di prescriverne la cura, che dev’esser tale da impedire ricadute. In questi anni è avvenuto precisamente il contrario.
Con una periodicità che ricalca l’andamento delle crisi, dai primi anni Novanta molti medici improvvisati hanno promesso all’ Italia malata di debito guarigioni miracolose a suon di dismissioni. Questa storia comincia almeno nel 1991, quando il VII governo Andreotti (al Tesoro Guido Carli) provò a istituire la "Immobiliare Italia S.p.A.": essa rimase sulla carta, ma il suo fantasma si materializzò dieci anni dopo, invecchiato e inasprito, nella "Patrimonio dello Stato S.p.A." di Tremonti (di cui dirò subito). Da allora, le ipotesi di dismissione ricorsero assai spesso, più o meno a ogni Finanziaria, anche con i governi di centro-sinistra del 1996-2001. Queste norme spesso confuse, velleitarie e inattuabili hanno però costruito un retroscena di solidi "precedenti" per il II governo Berlusconi, che infatti appena insediatesi a Palazzo Chigi nel 2001 rilanciò subito il tema con la legge 410: in essa si colpiva al cuore il principio di inalienabilità dei beni demaniali, rendendone possibile il trasferimento al patrimonio disponibile dello Stato con semplice decreto del Ministro dell’Economia.
La strada verso altre devastanti invenzioni era ormai aperta. Basterà richiamare tre tappe di questo processo degenerativo. La prima, che ho meglio analizzato nel mio libro Italia S.p.A. L’assalto al patrimonio culturale (2002), fu la costituzione, con legge dello Stato, di una Società per azioni, denominata "Patrimonio dello Stato S.p.A.". A essa potevano essere trasferiti parchi nazionali, coste, edifici storici di proprietà pubblica, monumenti, biblioteche, archivi dello Stato, chiese in proprietà pubblica (come il Pantheon), monumenti e aree archeologiche (come il Colosseo, come Pompei), per un valore complessivo che Tremonti in un’intervista valutò 2000 miliardi di euro. Con propria legge, lo Stato si dichiarava dunque incline a disfarsi dell’intero suo patrimonio in favore di una S.p.A. Era forse il gioco delle tre carte, che riversando le proprietà pubbliche da un "contenitore" all’altro lasciava di fatto le cose com’erano? No: infatti, secondo la norma, tutti i beni del demanio e tutti i beni del patrimonio dello Stato, dopo esser stati trasferiti alla "Patrimonio dello Stato S.p.A.", potevano, con decreto del ministro dell’Economia, essere ulteriormente trasferiti a un’altra società, la "Infrastrutture S.p.A.", aperta anche ai capitali privati. L’interazione fra le due S.p.A. era pensata come un gigantesco fondo immobiliare, che poteva essere suddiviso in pacchetti azionari, venduto o dato in affitto, utilizzando il meccanismo finanziario noto come "cartolarizzazione". Questo metodo, introdotto in Italia nel 1999 con una legge del governo D’Alema, è sperimentato specialmente negli Stati Uniti a garanzia delle ipoteche (mortgage-backed securities); ma in America esso è stato fra le cause principali della "bolla immobiliare" e della conseguente crisi finanziaria.
Una volta appropriatasi del patrimonio immobiliare pubblico, la "Infrastrutture S.p.A." doveva emettere obbligazioni e collocarle presso le banche, garantendone il valore mediante la vendita forzata di beni pubblici a prezzi inferiori (fino al 50%) ai prezzi di mercato. In caso di mancata vendita in un termine assai breve (da uno a tre anni), gli immobili dati in garanzia dovevano passare in proprietà delle banche, con l’impegno che i Comuni adottassero varianti urbanistiche per consentirne la "valorizzazione". «Dunque, lo Stato fa cassa immediatamente ma ad un costo elevatissimo; il finanziatore, a fronte di una cospicua redditività, non si accolla alcun rischio» [16]. Ma il ricavato di questa operazione era destinato non tanto ad abbattere il debito, quanto a finanziare un numero imprecisato e non programmato di grandi opere pubbliche: insomma, la svendita del patrimonio era mirata non solo a trasferire legalmente alle banche l’intero demanio e patrimonio dello Stato, ma anche a finanziare la cementificazione sistematica del territorio. Questa operazione immobiliare-finanziaria, un vero saccheggio ai danni del bene comune, si è in gran parte arenata, per ragioni che vedremo subito. Ma anche una rapina fallita rivela intenzioni e progetti dei predatori: nel caso in specie, a vantaggio di banche e imprese si provò ad annientare un patrimonio pubblico che non appartiene allo Stato-persona né ai ministri che lo governano, bensí allo Stato-comunità, cioè ai cittadini, vittime innocenti di tanta razzia.
Se a queste norme si fosse data integrale attuazione, la stessa categoria della proprietà pubblica, pur espressamente prevista dalla Costituzione, sarebbe evaporata nel nulla, e i beni demaniali sarebbero potuti diventare proprietà privata delle due S.p.A., per essere da loro commerciati e (s)venduti. Ma un’operazione cosí smaccata attirò subito la condanna dell’opinione pubblica in Italia e all’estero, specialmente per l’ipotesi di commercializzare siti archeologici, monumenti e luoghi storici. Ne è un esempio un titolo della «Frankfurter Allgemeine»: I talebani di Roma. Saldi di fine stagione. L’Italia svende i propri beni culturali (9 luglio 2002). La generale indignazione generò anticorpi e il processo di privatizzazione, pur producendo guasti e sconquassi, ne risultò depotenziato. Ma questo fallimento non scoraggiò un governo ben deciso a smantellare le strutture della proprietà pubblica. Imparata la lezione, prese allora forma il Piano B, che contemplava due mosse: primo, trasferire le proprietà pubbliche, compresi i beni demaniali, alle Regioni, alle Province e ai Comuni; secondo, ridurre drasticamente i contributi dello Stato a questi Enti, obbligandoli, per sopravvivere, a disfarsi dei propri beni. Polverizzando le vendite in 19 regioni, 110 province (di cui due autonome) e 8092 comuni, il governo evitava di diventare il bersaglio unico dell’indignazione e della protesta anche internazionale, e riduceva la pressione dell’opinione pubblica disperdendola in mille rivoli. Inoltre, veniva reso sostanzialmente impossibile un censimento nazionale delle vendite: invano Roland Benedikter e altri ricercatori dell’università di Stanford hanno cercato di raccogliere dati ufficiali anche solo sui beni di interesse culturale che sono stati alienati negli ultimi anni. Con una legge del 2008 (n. 133), il governo Berlusconi imponeva a Regioni, Province e Comuni di allegare al proprio bilancio, ogni anno, un «piano di alienazioni immobiliari», incoraggiando i Comuni a introdurre varianti urbanistiche per favorire la commercializzazione e la cementificazione dei suoli alienati. Un piano separato di dismissioni di immobili del demanio militare veniva intanto avviato dal ministero della Difesa, che addirittura si presentò con un proprio stand a qualche salone immobiliare.
Terza e ultima tappa della svendita perseguita dai governi Berlusconi (ma non, o non ancora, contrastata dal governo Monti) è il cosiddetto "federalismo demaniale" lanciato nel 2010. Lo Stato ha ceduto per legge a Comuni, Province e Regioni 19 005 unità del proprio demanio, per un valore nominale di oltre tre miliardi. Passano cosí di mano beni comuni di uso collettivo (demanio idrico e marittimo), caserme e aereoporti, catene montuose, palazzi storici, e cosí via. Il trasferimento comporta che una parte di questi beni diventerà immediatamente disponibile alla vendita, a parole «per produrre ricchezza a beneficio delle collettività territoriali». Un’altra porzione passerà invece al demanio degli enti locali e delle Regioni, cioè resterà inalienabile sulla carta: ma la stessa legge prevede una forma strisciante di privatizzazione, cioè il versamento gratuito di beni pubblici (anche demaniali) in fondi immobiliari di proprietà privata, purché i privati versino nello stesso fondo beni di proprietà equivalente; ed è chiaro che solo grandi banche e imprese potranno farlo. Si capisce cosí come mai le Dolomiti siano state "prezzate" 866 294 euro [17]: perché sono destinate a fondi immobiliari, in cui i privati verseranno proprietà di valore "equivalente" onde assumerne il pieno controllo. Fu dunque per questo che quasi 700 000 italiani d’ogni provincia (età media 25 anni) morirono sul fronte della Prima guerra mondiale.
Il demanio dello Stato viene in tal modo disfatto e degradato a una condizione residuale; i beni comuni vengono sminuzzati e ceduti al miglior offerente (o al peggiore), etichettando cinicamente la svendita come "valorizzazione". Il "federalismo demaniale" è stato reclamizzato dal presidente della Regione Veneto Zaia come la «restituzione ai legittimi proprietari» di beni indebitamente sottratti da uno Stato-ladrone. Analoga l’esultanza in loco quando la Valle dei Templi di Agrigento diventò «patrimonio dei siciliani» (meno di un mese dopo, il sindaco dichiarò l’intenzione di metterla all’asta). Ma prima di questa indegna farsa le Dolomiti erano anche dei siciliani, i templi di Agrigento anche dei veneti: lo spezzatino dei beni pubblici, ridistribuiti su base regionale o comunale, svuota il portafoglio proprietario degli italiani, ci rende tutti più poveri. Come ha scritto efficacemente Galli della Loggia [18],
fino ad oggi gli italiani potevano pensare di essere, in quanto tali, padroni del proprio Paese. Ora non più. Dobbiamo aspettarci la rovina definitiva del paesaggio e del patrimonio naturalistico del nostro Paese, la sua totale mercificazione-cementificazione.
In questa rincorsa al peggio, il "federalismo demaniale" si segnala, secondo il giudice costituzionale Paolo Maddalena, per l’aperta violazione di almeno nove articoli della Costituzione, ma soprattutto del principio fondamentale di «equa ripartizione dei beni fra tutti i cittadini, ispirato ai criteri dell’utilità generale e del preminente interesse pubblico» [19].
L’atteggiamento dei governi di centro-sinistra su questi temi è stato deludente. Già l’infelice riforma costituzionale del 2001 (governo Amato) aveva eliminato dall’art. 119 l’unico accenno al demanio, parola ormai fastidiosa perché evoca spettri di inalienabilità. Il secondo governo Prodi non fece nulla per cancellare la "Patrimonio dello Stato S.p.A." né la legge 410 del 2001; anzi, con la Finanziaria 2007 escogitò una mossa laterale, aggiungendo a quella legge commi e codicilli che, parlando di «razionalizzazione e valorizzazione» dei beni pubblici, ne promuoveva la concessione o locazione ai privati per 50 anni, introducendo per fortuna varie cautele per gli immobili di interesse culturale, ma disaccoppiando nettamente l’appartenenza del bene (in capo allo Stato) dalla disciplina d’uso (conferita ai privati). Fu poi lo stesso Tremonti a mettere in liquidazione la "Patrimonio dello Stato S.p.A." (giugno 2011). Quanto al "federalismo demaniale", questo provvedimento del IV governo Berlusconi deve aver convinto anche l’"opposizione", tanto è vero che Idv ha votato a favore, il Pd si è astenuto.

Fra destra e sinistra vi è dunque accordo nel far cassa («o almeno darne l’impressione», ha scritto Raffaele Di Raimo) a spese dei beni pubblici, e se le misure finora introdotte dalla destra sono assai più radicali (e irresponsabili), il centro-sinistra ha frenato la corsa, ma non ha fatto marcia indietro. Per replicare a tanta concordia bipartisan, chiediamoci se davvero una strategia di dismissioni possa risolvere l’annoso problema del debito pubblico. È lecito dubitarne, visto che le vendite e svendite seguite alle due aggressive leggi Tremonti del 2001-2002 (menzionate sopra) non hanno avuto alcun effetto di lungo periodo: per tutta la durata di quella legislatura (2001-2006), anzi, il rapporto percentuale fra debito pubblico e Pil si è mantenuto fra 106 e 108,8%, e intanto per effetto delle dismissioni è peggiorata la situazione patrimoniale pubblica.
Interessante riprova: il modello supremo dei privatizzatori a oltranza, la "ricetta Thatcher", si è rivelata in tal senso un fallimento. Come ha dimostrato Massimo Florio [20], dopo 18 anni di privatizzazioni dei governi Thatcher e Major (1979-97) il livello del debito pubblico tornò a essere quello di prima, intorno al 40% del Pil. Negli stessi anni, il valore del patrimonio pubblico netto calava dal 70-80% del Pil a meno del 15%: insomma, gli introiti da privatizzazioni sono stati dirottati in gran parte sulla spesa corrente, e dunque ingoiati dal bilancio, senza produrre benefici permanenti per il Paese, anzi peggiorandone il conto patrimoniale. Ma c’è di peggio: contro la party line secondo cui gli investimenti pubblici rendono assai meno di quelli privati, di fatto nel Regno Unito i privati hanno acquistato in prevalenza beni e servizi pubblici che avevano già raggiunto una buona redditività. Per esempio, la più importante fra le imprese pubbliche che furono privatizzate, la British Telecom, aveva raggiunto un reddito operativo pari al 21% del fatturato; una volta passata in mani private, il reddito, dopo una piccola impennata di un anno, rimase esattamente lo stesso. Le dismissioni hanno dunque danneggiato la finanza pubblica e hanno causato un forte disinvestimento sui servizi, che non è stato affatto compensato da investimenti privati. Alla fine del ventennio Thatcher-Major, le imprese sono diventate più ricche, i cittadini più poveri e peggio serviti.
Non c’è dunque solo un deficit di bilancio, c’è anche un grave deficit di analisi delle cause e dei rimedi. Fonti governative e media riportano, si può dire ogni giorno, l’entità del debito sovrano, misurandola mediante il suo rapporto con il Pil del Paese, o confrontando questo rapporto con quello di Paesi più "virtuosi" (tipicamente, la Germania). Ma queste misure non ci dicono nulla sul perché mai si sia accumulato un debito tanto gigantesco; non ci spiegano perché esso sia tanto più grande che in Paesi a noi vicini e simili (come la Francia). Il nostro elevatissimo debito pubblico è l’esito di una politica di governo che almeno dagli anni Settanta ha finanziato in disavanzo una larga parte della spesa primaria, oltre che il costo del debito (interessi). In questo gioco al rialzo vi sono state oscillazioni e impennate (fino all’attuale 123,3% del Pil), senza mai raggiungere un equilibrio virtuoso nonostante spericolate operazioni finanziarie.
Le ipotizzate dismissioni in massa non possono interrompere questa spirale perversa né possono modificare in perpetuo le politiche di governo rendendole improvvisamente virtuose. Come ha scritto Daniele Franco [21], «la momentanea riduzione del fabbisogno e del debito dovuta alle dismissioni» potrebbe «indurre a posporre il processo di risanamento dei conti pubblici, determinando un ulteriore peggioramento della situazione patrimoniale netta» e dirottando i proventi delle dismissioni sulla spesa corrente, con l’aggravante che il patrimonio a cui attingere per rimediare non ci sarebbe più. Per intendere i meccanismi di formazione e di accumulo del debito pubblico non basta chiamare in causa, come si fa già anche troppo, gli sprechi (che ci sono) o le spese in welfare (che non sono uno spreco). Bisogna chiamare in causa altri fattori, per esempio le altre componenti del debito (banche, imprese, famiglie) che si ripercuotono sul debito pubblico. Bisogna scoperchiare la pentola della rendita parassitaria come quella generata dall’affidamento delle grandi opere a general contractors che ingoiano fondi pubblici generando profitti per se stessi, debito per lo Stato, decrescita per il Paese. Bisogna constatare che anche le dismissioni convengono più a chi compra sottocosto che allo Stato che svende sé stesso: non sono dunque un farmaco, fanno parte della malattia, generando nuova rendita parassitaria, della specie di quella rendita fondiaria esclusivamente privatistica che è fra le cause del degrado del territorio, ma anche del debito pubblico. Ma fra le altre ragioni del nostro deficit fuori controllo una ce n’è che resta quasi sempre sottaciuta: il rapporto fra crescita del debito pubblico e crescita dell’evasione fiscale (142,47 miliardi di euro di tasse non pagate nel 2011). Di evasione fiscale si è parlato poco e male in Italia, almeno fino al governo Monti che ha infranto la congiura del silenzio, ma non ha (ancora?) lanciato misure commisurate alle dimensioni gigantesche del problema.
Esiste, anche se sfugge all’opinione pubblica ed è spesso occultato dagli addetti ai lavori, un preciso rapporto triangolare fra crescita generale dei redditi e del benessere, evasione fiscale cronica, e infine incremento della spesa corrente dello Stato e delle istituzioni pubbliche. L’incremento della spesa corrente ha seguito grosso modo negli anni la curva del generale benessere (cioè delle aspettative dei cittadini), mentre gli introiti fiscali sono stati artificialmente frenati distribuendo iniquamente la pressione tributaria, massima sui percettori di reddito fisso e leggera, quasi opzionale, su tutti gli altri, per non dire di sconti, condoni più o meno tombali e altri artifizi per favorire gli evasori (individui e imprese) e conquistare i loro voti e la loro complicità. In un’irresponsabile rincorsa verso il baratro, le mancate entrate fiscali non solo hanno impedito il risanamento del debito, ma ne hanno accresciuto la portata e il costo degli interessi, mentre intanto la spesa pubblica, coi suoi mille sprechi, cresceva indisturbata, e cresceva, anzi cresce, la pressione fiscale sui percettori di reddito fisso, riducendone drasticamente le capacità di investimento produttivo. Un’analisi adeguata della correlazione fra crescita del debito pubblico e cronica evasione fiscale forse non si è mai fatta, ma sicuramente non ha raggiunto la coscienza dei cittadini. Solo cosí – rimuovendo cinicamente dalla scena l’evasione e i suoi effetti – si spiega come mai abbia potuto attecchire impunemente l’idea che la privatizzazione del patrimonio pubblico sia la sola leva disponibile per ripianare o ridurre il debito sovrano. Fingendo di dimenticare che un’evasione fiscale di questa portata non può che riaprire la voragine del debito.
Anche la strategia soft di puntare sulle concessioni anziché sulle dismissioni (II governo Prodi) ha un punto debole. Disaccoppiando l’appartenenza del bene dalla disciplina d’uso, essa da un lato veleggia verso le pratiche e i linguaggi dei diritti di common law, dall’altro introduce una sorta di privatizzazione strisciante. È infatti evidente che, per quanti vincoli la legge imponga al privato che prende in uso per cinquant’anni un immobile, lo Stato non potrà istituire un custode per ogni vincolo né verificare giorno per giorno se il bene dato in concessione venga custodito e rispettato, o invece stravolto mediante improprie ristrutturazioni e altri abusi. Il miglior modo di difendere un bene pubblico, nel nostro ordinamento, è di porlo fuori commercio in quanto destinato all’uso comune. Nel nostro immenso patrimonio pubblico ci sono certamente beni che possono essere alienati senza pregiudizio per la comunità (edifici senza interesse storico e che non servono ai pubblici uffici). Ma ce ne sono altri che devono, nello spirito della Costituzione e della legge, restare rigorosamente inalienabili: tale è ad esempio il demanio idrico, tali numerosissimi immobili storici che sono o potrebbero esser dati in uso a pubbliche istituzioni. In ogni caso, le inefficienze di gestione vanno corrette, ma non sono ragione sufficiente per incrinare in modo irreversibile la consistenza patrimoniale e la credibilità del Paese.
È stupefacente che il discorso sulla "necessaria" privatizzazione dei beni in proprietà pubblica, diretta conseguenza di una politica che favorisce la rendita parassitarla e protegge l’evasione fiscale (situazione, quest’ultima, specificamente italiana), abbia poi convocato a proprio sostegno la "tragedia dei beni comuni" e altre strategie e retoriche del discorso, prelevandole all’ingrosso da un mondo, gli Stati Uniti, dove l’evasione fiscale è ridottissima, anche perché severamente punita (tutti pagano le tasse, e perciò ciascuno paga meno). Non meno stupefacente è che si sia adottato a modello un Paese dove l’impalcatura del diritto si fonda sui linguaggi di common law, che con la nostra tradizione giuridica e civile hanno ben poco in comune; dove manca ad esempio, lo si è visto, la stessa nozione di un demanio pubblico inalienabile. In una spirale davvero perversa, la crescita esponenziale della spesa pubblica, la promozione delle rendite parassitarie e la rimozione dell’evasione fiscale dalla sfera del discorso politico hanno indirizzato sul solo patrimonio pubblico gli sforzi di recupero del deficit di bilancio; si è cosí tacitamente avviata, senza modificare la Costituzione né le leggi ordinarie, una transizione silente, ma illegale, verso i valori e le pratiche di common law, innescando una sorta di de-materializzazione dei beni pubblici per trasformarli in strumenti finanziari e favorirne l’immissione sul mercato.
Nessuno, intanto, si è preso la briga di spiegare ai cittadini quanta parte delle proprietà pubbliche (dallo Stato alle Regioni ai Comuni) sarebbe giusto alienare. Nessuno ha argomentato perché mai dovremmo considerare più virtuoso alimentare la spesa pubblica non più (o non solo) in deficit, bensì (anche) finanziandola mediante la svendita del patrimonio pubblico, cioè privandone per sempre le generazioni future. Nessuno ha chiarito come evitare che, esaurito il patrimonio, il debito pubblico torni a crescere in modo incontrollato. Nessuno ci ha detto che cosa accadrà quando dei beni pubblici accumulati nei secoli non sarà rimasto più nulla. La dominante idolatria dei mercati copre di falsi orpelli la politica delle dismissioni: giustificata con la necessità di abbattere il debito, essa in realtà ne modifica la struttura, ma impoverendo lo Stato a vantaggio di banche e imprese. Non pone rimedio al saccheggio, ne accresce la portata.
Da vent’anni governi d’ogni segno tentano di risolvere il problema del debito pubblico attingendo ai beni pubblici come se fossero un pozzo senza fondo. Il maggior guasto prodotto dal più radicale di questi tentativi, messo in opera da Tremonti nel 2001-2002, non è però nella nuda lista delle dismissioni, ma nella reazione di giuristi d’ogni scuola, molti dei quali, di fronte a quelle leggi eversive, si sono industriati a produrre interpretazioni che le mettano in qualche modo in armonia con la Costituzione, con il Codice civile e con altre leggi. Che ciascuno di essi lo abbia fatto per servile ossequio al governo allora in carica o per più nobili ragioni importa, in fondo, assai poco. Più rilevante è che molti giuristi, anche "di sinistra", abbiano ritenuto doveroso avallare una normativa apertamente ostile al bene comune, che abbiano speso la propria sapienza e il proprio ingegno per ripensare o stravolgere categorie un tempo solidissime. Alcune delle soluzioni proposte, estremiste e implausibili, si spingono a reinterpretare la Costituzione alla luce di fonti di rango inferiore (le leggi Tremonti); altre puntano a frammentare lo statuto giuridico dei beni pubblici, distinguendovi la proprietà, la funzione, la destinazione, la disciplina d’uso, i vincoli che vi gravano, gli obblighi e oneri che ne discendono. La party line, insomma, è che non importa chi sia il proprietario di un bene pubblico, purché siano comunque rispettati alcuni vincoli d’uso: foglia di fico poco persuasiva, visto che nessuno dice chi debba garantire, e con quali mezzi, l’osservanza dei vincoli; mentre lo Stato è in disfacimento, andrà forse affidata alla "mano invisibile" del mercato? Il risultato netto è un altro: nessuna garanzia sul rispetto dei vincoli d’uso, bensì una selvaggia deregulation che fa leva sulla segmentazione dello statuto della proprietà pubblica in un bundle of rights secondo le pratiche di common law.
Ma fermiamoci a pensare: nel 2001-2002, un governo Berlusconi abolí con un colpo di scure la differenza fra demanio inalienabile e patrimonio disponibile, aprendo la strada alla morte della proprietà pubblica. Tuttavia, non modificò altre norme (prima fra tutte il Codice civile), dove quella differenza continua a leggersi, né cambiò la Costituzione che la presuppone e la sancisce. La "sinistra" criticò aspramente quelle norme, ma tornata al potere col successivo governo Prodi non fece nulla per correggerle, e ben presto un nuovo governo Berlusconi poté su di esse innestare nuove norme come il "federalismo demaniale". Leggi incostituzionali ed eversive penetrano in tal modo nell’ordinamento, trovano nelle università esegeti arrendevoli, e anche se cozzano contro altre leggi ordinarie, e contro gli stessi principi della Costituzione, insidiano la coerenza del sistema e tendono a soppiantarlo. Come se fossimo già in regime di common law, quel che non viene contestato acquista forza di legge «by a combination of time and precedent», rafforzando i precedenti col passare del tempo [22]. Si dà per avvenuto il trionfo della common law, e con esso un nuovo statuto "liquido" della proprietà che, si favoleggia, sarebbe determinato da implacabili norme europee. Le quali, al contrario, «lasciano del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri»".
Svuotando la proprietà pubblica della sua anima comunitaria (della sua continuità con le proprietà collettive e del suo legame coi valori del bene comune), anzi riducendo persino il demanio a una sorta di superflua proprietà privata dello Stato-persona, si prepara cosí la strada al finale trionfo della proprietà privata concentrata in poche mani. Questa strategia sembra ormai invincibile. È penetrata a fondo nel discorso pubblico. Insidia il bene comune, pregiudica il diritto, erode la Costituzione.
8. Nuove mappe.
I tentativi di saccheggiare i beni pubblici e le reazioni dei cittadini hanno attratto su questi temi la generale attenzione, mettendo in evidenza quanto sia frammentato lo statuto dei beni pubblici in Italia. Da questa consapevolezza nacque la Commissione sui Beni Pubblici presieduta da Stefano Rodotà, che ha lavorato dal giugno 2007 al febbraio 2008 e ha prodotto una proposta di legge-delega per la riforma degli articoli del Codice civile sul diritto di proprietà. Due libri, a monte e a valle di quei lavori, rendono conto della loro complessità: il primo, Invertire la rotta [24], è una raccolta di saggi; il secondo, I beni pubblici [25] comprende i materiali di lavoro della Commissione Rodotà e gli atti di un convegno sul tema.
Dato che lo statuto dei beni pubblici è «disperso in mille rivoli, in classificazioni formalistiche del Codice civile, nonché in una miriade di leggi e leggine speciali», la Commissione ha proposto di riorganizzare la materia partendo dai beni stessi e dalle utilità che essi generano. Per la Costituzione, come abbiamo visto, «la proprietà è pubblica o privata» (art. 42); il nostro ordinamento classifica inoltre la proprietà pubblica in tre categorie (già descritte sopra): demanio, patrimonio indisponibile, patrimonio disponibile. La Commissione Rodotà ha dato nuovo risalto a una categoria ulteriore, quella dei beni comuni, aggiungendola a quelle della proprietà pubblica e della proprietà privata. Inoltre, ha proposto di riarticolare i beni pubblici secondo tre fattispecie:
1. beni ad appartenenza pubblica necessaria, perché «a titolo di sovranità». Sono essenziali per l’adempimento di finalità costituzionali di interesse primario come i «servizi pubblici essenziali» (art. 43 Cost.), e pertanto inalienabili. Vi rientrano piazze, strade, autostrade e ferrovie, porti e aereoporti, spiagge, acquedotti, opere di difesa nazionale;
2. beni pubblici sociali, vincolati alla soddisfazione di diritti civili e sociali della persona. Vi rientrano ospedali e scuole pubbliche, musei, abitazioni sociali, tribunali, reti di servizi pubblici, e pertanto sono vincolati a specifiche destinazioni d’uso;
3. beni pubblici fruttiferi, che appartengono a soggetti pubblici, ma in regime di "proprietà privata" in quanto destinati a produrre introiti, e devono perciò essere opportunamente gestiti o dati in gestione, ma possono anche essere alienati.
Più innovativa e fluida è la categoria dei beni comuni, un "terzo polo" della proprietà che si pone tuttavia in continuità con la proprietà pubblica. I beni comuni «si sottraggono alla logica proprietaria per mettere al centro una dimensione collettiva di fruizione diretta di lungo periodo», che si può anzi spingere fino a disaccoppiare la proprietà dei beni (che può essere pubblica o privata) dalla loro appartenenza alla collettività che ne ha l’uso e il godimento. Nella proposta della Commissione Rodotà, questa fattispecie è significativamente più estesa rispetto al perimetro degli "usi civici", che vi sono inglobati e ne risultano insieme rafforzati (perché inseriti in un quadro più garantito) e diluiti (perché perdono specificità). Il disegno di legge prodotto dalla Commissione definisce i beni comuni come «le cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona». Sono, per loro stessa natura, beni fuori commercio, che «valgono per il loro valore d’uso e non per quello di scambio», anche nell’interesse delle generazioni future. In questa categoria rientrano beni comuni globali e locali: l’aria, le acque e altre risorse naturali, come parchi e foreste, montagne e ghiacciai, coste e paesaggi tutelati, beni culturali, archeologici e ambientali, usi civici, fauna selvatica e flora tutelata; ma anche, per esempio, le frequenze radiofoniche, televisive e telefoniche, per le quali la designazione allogena di commons è ancor più frequente, perché più legata alla natura "globale" del dibattito sulle nuove sfide del diritto.
Questa proposta presuppone una stretta contiguità, anzi continuità, fra i beni "ad appartenenza pubblica necessaria" e i beni comuni: gli uni e gli altri, infatti, hanno in comune una caratteristica essenziale (sono fuori mercato) e un vincolo di scopo (sono finalizzati all’esercizio dei diritti costituzionali dei cittadini). Infatti, scrive Mattei, «il regime giuridico dei beni pubblici costituisce il fondamento economico e culturale più importante per la realizzazione del disegno di società contenuto nella Costituzione stessa». In tal senso, anche l’eventuale alienazione dei beni pubblici fruttiferi richiede «un caveat generale, molto importante»: questi beni «fanno pur sempre parte del patrimonio per cosí dire "liquido" di tutti noi» (ancora Mattei). Tutti i cittadini italiani sono titolari dei beni pubblici non pro quota ma pro toto, onde eventuali alienazioni dovrebbero comportare garanzie e compensazioni per tutti i titolari di tale portafoglio collettivo di proprietà. Vendere e svendere senza rispettare questo limite vuol dire borseggiare i cittadini. Se chi vende è il governo, ancor più grave è il delitto: perché le proprietà pubbliche non appartengono al governo pro tempore, ma alla comunità dei cittadini, anche alle generazioni future che nessun governo deve espropriare dei propri diritti. La contiguità concettuale fra beni pubblici e beni comuni e la loro perfetta analogia di scopo rendono questa conclusione ancor più cogente.
9. Lo Stato-residuo.
Le proposte della Commissione Rodotà sono l’esito più avanzato della discussione di questi anni in Italia, ma sono rimaste per ora inascoltate. Gli stessi giuristi ospitati nei due libri citati sopra prendono talvolta le distanze dalle scelte operate dalla Commissione, anzi esprimono visioni generali profondamente discordanti. Per darne un esempio, scelgo due soli nomi, che come vedremo si collocano a due estremi dello spettro di ipotesi interpretative dello statuto dei beni pubblici: Ugo Mattei (vicepresidente della Commissione) e Giuseppe Guarino (collaboratore del volume Invertire la rotta).
In un libro fortunato e incisivo [26], Mattei in parte riprende le formulazioni della Commissione, in parte se ne distingue introducendo una nuova prospettiva. I beni comuni, egli scrive, sono «una tipologia di diritti fondamentali "di ultima generazione", finalmente scollegati dal paradigma dominicale (individualistico) e autoritario (Stato assistenziale)»: perciò è necessario tutelarli «nei confronti tanto dello Stato quanto del potere privato» [27]. Per lui, infatti, proprietà privata e Stato sovrano sono le due ganasce di una «tenaglia letale» che ha «stritolato i beni comuni». Nell’Europa moderna, teorie della proprietà e teorie della sovranità si sono sviluppate insieme, perciò – prosegue Mattei – «la sovranità statuale e la proprietà privata hanno struttura identica, quella dell’esclusione e dell’arbitrio sovrano». Ecco perché lo Stato «da sempre presiede alla privatizzazione dei beni comuni adoperandosi per ampliare la sfera della proprietà privata», di cui è «complice nella distruzione del terzo fattore». Per «far rinascere i beni comuni», sull’esempio delle più avanzate Costituzioni (Bolivia, Ecuador), sarà dunque necessario combattere contro la proprietà privata, ma anche contro lo Stato che ne è il naturale alleato. Bisognerà «respingere l’equazione tra Stato e diritto», considerando al contrario lo stesso diritto come un bene comune; non si deve «trasferire la gestione dei beni comuni a strutture dello Stato o di enti locali», bensì «elaborare strutture di governo partecipato e autenticamente democratico», in «una logica transnazionale e transgenerazionale». Un «governo partecipato dei beni comuni», ispirato dalle proposte di Ostrom, che dovrebbe essere istituzionalizzato «a qualunque livello politicamente possibile». In tal modo i titolari dei beni comuni potranno «sottrarsi al ricatto politico della discrezionalità fiscale», giacché il Welfare State può negare ai cittadini i diritti sociali in nome di crisi fiscali, mentre «i beni comuni non riconoscono altro sovrano rispetto a chi vi accede», e perciò hanno un forte «potenziale di emancipazione», prima per le «comunità di utenti e lavoratori e poi definitivamente per le moltitudini che ne hanno necessità». Come si vede, questa visione tende a scavare un solco fra beni pubblici e beni comuni, anzi a contrapporre gli uni agli altri, secondo un’articolazione che non coincide con quella della Commissione Rodotà.
In questo pur generoso discorso, Mattei rischia di giocare il nuovo ruolo dei beni comuni sul tavolo di un programmato indebolirsi non solo dello Stato-persona ma dello Stato-comunità. Tuttavia, è da temere che l’indebolimento dello Stato come comunità di cittadini, l’affievolirsi della sovranità e la marginalizzazione dei beni pubblici, anche se per effetto di un nuovo impulso verso i beni comuni, finirebbero per allearsi fatalmente con chi da anni lavora alacremente per smontare lo Stato, la sua sovranità e i suoi valori collettivi, allo scopo di saccheggiare il patrimonio delle proprietà pubbliche.
Per meglio intendere la posizione di Mattei, chiediamoci ora: quali sono per lui i "beni comuni"? Il suo libro non ne offre un’organica tassonomia, che si può tuttavia congetturare, per approssimazione, dalle menzioni sparse nelle sue pagine (specialmente p. 54):
"beni comuni naturali" a "interesse diffuso" (p, 57)
- la terra, «bene comune ambientale per eccellenza» (p. 40)
- ambiente, acqua, aria (pp. 54, 60, 64, 106)
- boschi, fiumi, torrenti (p. 27)
- ghiacciai, lido del mare (p. 83)
"beni comuni materiali":
- piazze, giardini pubblici (p. 54)
- pinacoteche, monumenti (p. 83)
- chiese (p. 27)
- rendita fondiaria (pp. 60-61, 106)
- petrolio (p. 66)
- «disposizione dei rifiuti» (p. 66)
"beni comuni immateriali":
- spazio comune del web (p. 54)
"beni comuni sociali"
- il lavoro (pp. 53, 106)
- beni culturali, memoria storica, sapere (p. 54), patrimonio culturale (p. 106)
- «cultura critica» (p. 70), conoscenza (p. 83)
- legalità (p. 58), diritto (p. 60)
- scuola (p. 60)
- università (pp. 70, 71, 107)
- informazione (pp. 60, 106), libertà d’informazione (p. 61), stampa (p. 70)
- «giurisdizione della rappresentanza politica» (p. 61)
- sanità (p. 64)
- cooperazione sociale (p. 66)
In questa mappa di "beni comuni" (al plurale) domina il "bene comune" (al singolare, cioè come valore), mentre vengono rimescolate le categorie della Commissione Rodotà, nelle quali, per esempio, piazze e spiagge sono "beni ad appartenenza pubblica necessaria", mentre non vi sono incluse istituzioni (come l’università) né nozioni funzionali di natura etico-politica (come "legalità", "conoscenza", "cultura critica"); né, infine, fonti di reddito misto come la "rendita fondiaria" che, nella classificazione Rodotà, può spettare alla proprietà pubblica, a quella privata o, infine, ai "beni comuni" in senso proprio. Nel "manifesto" di Mattei, la categoria dei "beni comuni" non coincide con quella definita dalla Commissione Rodotà, ma viene ad allargarsi indefinitamente. Essa diventa in tal modo assai meno operativa, e proprio perché viene contrapposta allo Stato: per esempio, perché la scuola diventi un bene comune nel senso di Mattei, deve forse essere de-statalizzata, contro l’art. 33 della Costituzione («La Repubblica istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi»)? Il diritto alla salute (art. 32 Cost.) dovrebbe essere strappato al Welfare State per esser garantito e gestito direttamente dalle «comunità di lavoratori o di utenti» (art. 43 Cost.)? Che cos’è «l’università bene comune, distinta dall’università di Stato» auspicata da Mattei, se non l’università pubblica gestita, come dovrebbe essere e oggi non è, secondo l’etica valoriale del bene comune? L’incerto perimetro dei "beni comuni" cosí definito, in bilico fra appartenenza e valore, comporta in realtà un prezzo altissimo: in questo quadro, infatti, lo Stato sembra essere il massimo, e il più minaccioso, dei proprietari privati; e, non meno della proprietà privata, è necessariamente un nemico dei beni comuni. Come classificare, allora, i beni del demanio, che la Commissione Rodotà riversava in quelli «di appartenenza pubblica necessaria» in quanto «soddisfano interessi generali fondamentali, la cui cura discende dalle prerogative dello Stato e degli enti pubblici territoriali»? Vanno considerati nemici dei beni comuni in quanto in capo allo Stato? O vanno sdemanializzati per immetterli nella categoria "Rodotà" dei "beni comuni", abolendo la categoria dei beni «ad appartenenza pubblica necessaria»?
La diffusa sfiducia nello Stato (di cui Sabino Cassese ha tracciato recentemente storia e implicazioni nel suo sapiente L’Italia: una società senza Stato? [28]) spiega forse perché Mattei nel suo libro ricorra tanto poco alla Costituzione, citandone se ben ho visto solo due articoli (32 e 43). Il carattere provocatorio e rivendicativo del suo "manifesto" è degno di attenzione e di rispetto; tuttavia, se vogliamo affrontare efficacemente un tema tanto importante, e se vogliamo farlo oggi e non in un futuro indeterminato, è indispensabile muovere dal forte continuum che corre, pur nella reciproca diversità, fra i "beni comuni" e i "beni pubblici" della classificazione Rodotà. Gli uni e gli altri rimandano a nozioni giuridiche di antica e solida memoria civile, ancora presenti nel nostro ordinamento: i primi, alle forme di proprietà collettiva che abbiamo convenzionalmente etichettato come "usi civici"; i secondi, al demanio e al patrimonio pubblico. Nella proposta Rodotà mutano i nomi e si chiariscono i perimetri, si arricchisce e muta aspetto la categoria dei "beni comuni", ma i "beni ad appartenenza pubblica necessaria" e quelli "sociali" restano di pertinenza dello Stato e delle sue articolazioni.
Se vogliamo produrre proposte immediatamente operative, è questo il punto di partenza necessario, che dev’essere illuminato e interpretato alla luce della Costituzione. Se, al contrario, volessimo rinviare il nuovo assetto dei beni comuni a una fase storica in cui nuovissime e imprecisate «strutture di governo partecipato e democratico», diverse da quelle oggi operanti, sostituiscano lo Stato nelle sue funzioni (ivi incluse la giurisdizione della rappresentanza politica, la regolazione del lavoro e della rendita fondiaria, l’università e la scuola...), finiremmo col concedere molto tempo, anzi troppo, a chi intanto ogni giorno s’industria a saccheggiare per proprio vantaggio tutte le possibili tipologie di beni pubblici e di beni comuni.
È dunque sul continuum beni comuni-beni pubblici, e sulle connesse garanzie costituzionali, che bisogna far leva per costruire un progetto concreto e attendibile. Ogni partecipanza emiliana, ogni regola del Cadore, ogni ademprivio sardo ha una propria comunità di riferimento, a volte assai piccola: e di quel singolo bene collettivo va conservato, nei suoi valori economici e cooperativi, il fortissimo legame biunivoco con la comunità che lo possiede (o che lo usa). Esistono poi beni che appartengono collettivamente, da millenni, a più vaste comunità di cittadini: tipicamente, i beni oggi demaniali, domani (forse) "ad appartenenza pubblica necessaria", secondo la terminologia Rodotà. Beni che appartengono all’insieme dei cittadini, cioè non allo Stato-persona bensì allo Stato-comunità che, secondo una lettura fedele della Costituzione, dovrebbe farne uso per il bene comune dei cittadini. Perciò non ha senso, come pure è stato scritto, dire che la scissione di proprietà e uso è irrilevante, dato che non possiamo «vedere lo Stato in costume da bagno che utilizza le spiagge». Questa voluta confusione fra Stato-persona e Stato-comunità può far sorridere, ma è quanto mai sviante. Assolutizza lo Stato-persona giuridica, conferendogli un’improbabile fisicità, ma cosí facendo svuota di senso la comunità dei cittadini e la espelle dal dominio del diritto; «come se la persona giuridica, ente soltanto pensato, che non può né godere né sentire, avesse autonoma esistenza», come se si dileguassero nel nulla «i singoli membri della comunità, in funzione dei quali esiste la persona giuridica» [29].
Lo Stato come titolare del demanio e del patrimonio indisponibile non si esaurisce, nemmeno figurativamente, in una "persona", né tanto meno coincide con qualsivoglia governo pro tempore. È, prima di tutto, una comunità. E se, come negli ultimi decenni è troppo spesso avvenuto, i governi sono stati ostili al bene comune (come valore) e hanno fatto scempio dei beni pubblici e dei beni comuni, non è certo identificando "Stato" con "governo" che troveremo una via d’uscita. Anzi, come scrive lo stesso Mattei, «il governo dovrebbe essere il servitore del popolo sovrano, e non viceversa». Per dirlo con Calamandrei, «in una Repubblica fondata sul lavoro, è necessario identificare popolo e Stato», i cittadini con lo Stato-comunità. Lo Stato siamo noi: perciò dobbiamo saper imporre a chi ci governa il pieno rispetto della legalità, e dunque anche fermare il saccheggio dei beni comuni e dei beni pubblici, anzi indirizzarne l’uso, secondo Costituzione, sulla loro utilità sociale.

Al polo diametralmente opposto, non solo rispetto a Mattei ma anche alla Commissione Rodotà, si colloca la visione di un famoso giurista come Giuseppe Guarino (già deputato e senatore democristiano, ministro delle Finanze nel VI governo Fanfani e dell’Industria nel I governo Amato), acceso sostenitore dell’immissione sul mercato di tutti i beni pubblici. Il suo saggio nel volume Invertire la rotta [30] rilancia proposte che egli andava facendo da anni, per esempio in un convegno su Debito pubblico e competitività (Roma, 26 ottobre 2005). Secondo il ragionamento di Guarino, il Trattato dell’Unione Europea avrebbe implicitamente abrogato vari principi della Costituzione italiana, sostituendoli con nuovi precetti: fra questi, l’obbligo di conformare il proprio bilancio alle regole europee e il divieto di regolare comunque il mercato interno. Ne consegue, secondo Guarino, che concetti come "demanio" e "patrimonio indisponibile" (con le relative funzioni), pur essendo ancora normati nel Codice civile, sono ormai obsoleti. Bisogna dunque abbandonare la disciplina italiana in merito, e adottare modelli "globali"; ma Guarino indica come tali solo diritti di common law (Gran Bretagna e Stati Uniti), dando per scontato che debbano tacitamente sostituirsi alla civil law del nostro ordinamento. «La sovranità è il bene supremo per lo Stato», è vero, egli dice; ma l’esercizio della sovranità è limitato dalla crescita del debito pubblico, perciò la priorità necessaria è cancellarlo, o almeno ridurne la portata. La dominanza dei mercati scardina i presupposti giuridici e obbliga, secondo Guarino, a riordinare le nostre categorie giuridiche e la disciplina dei beni pubblici a partire dalla gestione del debito; né è pensabile «toccare gli interessi dei contribuenti, dei consumatori, delle imprese, perché si provocherebbero conflitti sociali». Non resta che una strada praticabile: con «pacata concretezza» bisogna analizzare il patrimonio dello Stato, e alienarne quanto più è possibile.
Specialmente appetibili per il mercato, dice Guarino, possono essere due categorie di beni immobili: quelli «che lo Stato impiega direttamente quali sedi di uffici o per altri scopi di pubblica utilità», e quelli «di interesse storico, archeologico e artistico che fanno parte del demanio pubblico e sono giuridicamente inalienabili». Bisogna dunque «abrogare, con atto avente forza di legge, il vincolo della inalienabilità». Va inoltre creata una società per azioni a cui lo Stato deve conferire tutti i propri beni, «spogliandosi della sua proprietà originaria»; e qui Guarino si limita a riciclare la "Patrimonio dello Stato S.p.A." di Tremonti, già in funzione quando egli scrive. Della S.p.A. prevista da Guarino lo Stato sarà inizialmente azionista al 100%, ma «la cessione rapida della totalità della partecipazione azionaria rappresenta l’optimum», ed «è indifferente che il controllo della società venga acquisito da soggetti esteri». La S.p.A. potrà vendere non solo le azioni, ma gli immobili; anzi, per incoraggiare i compratori lo Stato si impegnerà contestualmente a «prendere in locazione gli immobili con contratti decennali o pluridecennali, con clausola contrattuale che ponga a carico dello Stato locatario tutti gli oneri di ordinaria amministrazione, compresi quelli fiscali». Alla scadenza del contratto di locazione, il proprietario privato dovrà prendere pieno possesso degli immobili «per farne libero uso», a meno che lo Stato non riesca a riscattarli a prezzo rivalutato; nel caso degli immobili che siano sede di uffici statali, se lo Stato non riesce a riscattarli potrà chiedere una proroga della locazione, ma per non più di cinque anni. Il valore complessivo del patrimonio da alienare è stimato da Guarino in 430 miliardi di euro (meno di un quarto dei 2000 miliardi millantati da Tremonti nel 2002): se, com’egli auspica, tutto fosse rapidamente venduto trasformando il patrimonio in liquidità, il debito pubblico verrebbe significativamente abbattuto. Guarino ammette che la sua proposta «si presta a critiche», ma si rassegna subito: «Si deve provvedere con quanto lo Stato possiede. Purtroppo non c’è altro». E la sua soluzione ha un vantaggio: «non comporta sacrifici né per singoli né per categorie, non richiede nuove imposizioni, non compressione delle spese, non obbliga a revocare incentivi o investimenti già programmati». A operazione conclusa, secondo Guarino, «l’Italia avrebbe un enorme recupero di immagine».
La Costituzione e la legge devono essere, per Guarino, riorientate sulle regole inesorabili del mercato, di cui il Trattato europeo è espressione suprema, e in particolare sulla disciplina del debito. «I partecipi al sistema Italia non si sottraggono alle leggi dell’economia»: dunque il mercato sovrasta la Costituzione e la legge, scardina i presupposti giuridici del nostro ordinamento rendendoli obsoleti, impone di utilizzare principi e pratiche fuori ordinamento, dissolvendo la nostra tradizione giuridica entro la trionfante common law del Grande Fratello americano.
Che una tal proposta, ancor più estremista della "Patrimonio dello Stato S.p.A." di Tremonti, venga dalla penna di un grande giurista con dirette esperienze di governo è di per sé significativo. Lo è ancor di più che nel suo ragionamento sul debito pubblico non vi sia un’analisi della sua formazione, e che il debito di banche e imprese e l’evasione fiscale non siano nemmeno ricordati fra le concause; che, infine, non vi abbia menzione il fatto che, a uno Stato che fosse rimasto senza beni patrimoniali e che dovesse per giunta pagare l’affitto per tutti i pubblici uffici, non resterebbe che far leva sugli introiti fiscali, comportando per i cittadini gravissimi sacrifici.
Ma che cosa resterebbe dello Stato una volta che si fosse spogliato di ogni bene patrimoniale (ma anche dei titoli finanziari, inclusi tutti nel "piano Guarino")? E che cosa ne resterebbe, se mai venisse attuata la "linea Mattei", diametralmente opposta, per cui allo Stato, nemico naturale dei beni comuni, devono sostituirsi libere strutture autogestite (per esempio «l’università bene comune, distinta dall’università di Stato»)? Perché a tutti fa orrore l’accusa di "statalismo"? Due meccanismi di logoramento sembrano essersi alleati per svuotare di funzioni e di sostanza lo Stato (e con esso tutte le istituzioni pubbliche, dalla scuola ai Comuni). Da un lato, la frequente inefficienza degli organismi pubblici, che negli ultimi anni si è moltiplicata per effetto di una demeritocrazia ben attenta a sostituire le fedeltà (di partito e di clan) alle professionalità. Dall’altro, la doppia perdita di sovranità dello Stato, verso il basso (le Regioni) e verso l’alto (l’Unione Europea). Delegittimato dalla propria inefficienza e condannato dalle proprie stesse scelte a un’inarrestabile emorragia di sovranità, quel che in queste opposte concezioni sopravvive è uno Stato-residuo, che potrebbe anche restare senza beni patrimoniali, privatizzandoli (Guarino); o abdicare ai beni comuni, gestiti da «strutture partecipate e autenticamente democratiche» e non dalle strutture pubbliche (Mattei). Uno Stato, insomma, a cui resterebbe solo «imporre l’osservanza dei contratti, proteggere la proprietà privata dal furto, mantenere l’ordine pubblico»: uno Stato minimo [31]. L’Europa a cui si pensa, a sua volta, non è quella dei suoi cittadini, della sua storia, della sua cultura, bensì quella dei Trattati, nei quali il ruolo della cultura e della memoria storica è quasi nullo. È l’Europa dei mercati, a sua volta prona a una logica di globalizzazione dominata da altre potenze economiche (America, Cina) e dal crescente ruolo politico di poche gigantesche imprese multinazionali, le cui dimensioni finanziarie sono pari o superiori a quelle di molti Stati europei. Per una sorta di eterogenesi dei fini, fattori slegati fra loro (cattivo funzionamento delle istituzioni, malgoverno, sgangherato federalismo nostrano, dominanza dei mercati nelle dinamiche europee, globalizzazione) cospirano nello smontaggio di quel che resta dello Stato. E di fronte a uno Stato in via di liquidazione si capisce che vi sia chi vuole dividerne le spoglie; e che vi sia chi, al contrario, cerca nuove strategie per far rinascere spontaneamente etiche cooperative e solidali.
In questo scenario traballante, tuttavia, è il caso di ribadire con forza che nulla, almeno sulla carta, garantisce i diritti essenziali (libertà eguaglianza democrazia) quanto la Costituzione: che è la Carta fondamentale dello Stato. Di uno Stato che, c’è ragione di temere, potrebbe finire con l’essere smantellato per la spinta convergente dei privatizzatori a oltranza e di chi intende i beni comuni in senso marcatamente antistatale. È con questa dolorosa premessa che vanno formulate le domande basilari sui beni comuni e sulla loro necessaria contiguità-continuità con i beni pubblici. Dobbiamo davvero assegnare ai beni pubblici la sola e unica finalità di riserva aurea a cui attingere, anzi da prosciugare, per ripianare o ridurre il debito sovrano? O dobbiamo invece immaginare che a partire dai beni comuni possa costituirsi una sorta di anti-Stato su cui far leva per fondare una nuova democrazia?
Se, al contrario, sapremo affermare la piena continuità fra beni pubblici e beni comuni, allora potremo porre sul tappeto altre e più interessanti domande. Questi beni, in quanto appartenenti alla comunità di cittadini, cioè al popolo, possono rivestire più complesse funzioni, di natura economica ma anche etica e civile, in relazione al pubblico interesse, alla comunità nazionale, alle istituzioni della Repubblica? Possono contribuire a strutturare una cittadinanza consapevole della superiorità del bene comune sugli interessi di ognuno, convinta dei legami e degli obblighi di solidarietà fra cittadini? Possono dar sostanza e vigore a uno Stato inteso come comunità dei cittadini? Possiamo noi, in quanto cittadini, contrastare duramente il degrado civile anche a partire dai beni (pubblici e/o comuni) che a noi appartengono? Possiamo, facendo leva su questo nostro portafoglio proprietario, esigere meccanismi di buongoverno e di funzionamento delle istituzioni, anche quelle che oggi appaiono corrotte? Possiamo ancora appellarci alla nostra Costituzione in nome dei nostri diritti, o dobbiamo considerarla archiviata per sempre? A che cosa ci appoggeremo, dove cercheremo una zattera di salvataggio, su quale muro proveremo a incidere, prima che sia troppo tardi, i principi di una cultura del bene comune che risponda ai bisogni del nostro tempo?


[10] PAOLO MADDALENA, I beni comuni nel diritto romano: qualche valida idea per gli studiosi odierni, in www.federalismi.it, luglio 2012.
[11] SABINO CASSESE, I beni pubblici. Circolazione e tutela, Giuffrè, Milano 1969.
[12] STEFANO RODOTÀ, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata, il Mulino, Bologna 1990.
[13] The Privatization of the Oceans, The Mit Press, Cambridge (Mass.) 2004.
[14] Logica dell’azione collettiva (1965), Feltrinelli, Milano 1990.
[15] Governare i beni collettivi (1988), Marsilio, Venezia 2006.
[16] RAFFAELE DI RAIMO, Proprietà, economia pubblica e identità nazionale, in UGO MATTEI, EDOARDO REVIGLIO e STEFANO RODOTÀ (a cura di), Invertire la rotta: idee per una riforma della proprietà pubblica, il Mulino, Bologna 2007.
[17] Agenzia del Demanio, documento del 30 aprile 2010, Veneto, p. 3. Notizie su vari giornali («Il Giornale», 3 agosto 2010, «Il Gazzettino», 4 agosto 2010).
[18] ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, Italiani senza Italia, in «Corriere della Sera», 2 agosto 2010.
[19] PAOLO MADDALENA, I beni comuni nel Codice civile, nella tradizione romanistica e nella Costituzione della Repubblica italiana, in www.federalismi.it, ottobre 2011.
[20] The Great Divestiture. Evaluating the Welfare Impact of the British Privatizations 1979-1997, The Mit Press, Cambridge (Mass.) 2004.
[21] In U. MATTEI, E. REVIGLIO e S. RODOTÀ (a cura di), Invertire la rotta cit.
[22] JACK P. GREENE, The Constitutional Origins of the American Revolution, Cambridge University Press, New York 2011.
[23] Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, art. 345. Vedi infra, cap. v.
[24] U. MATTEI, E. REVIGLIO e S. RODOTÀ (a cura di), Invertire la rotta cit.
[25] IDD. (a cura di), I beni pubblici: dal governo democratico dell ’economia alla riforma del Codice civile. Accademia nazionale dei Lincei, Roma 2010.
[26] Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Roma-Bari 2011.
[27] La frase completa (ibid., p. X) suona «tutela del pubblico nei confronti tanto dello Stato che del privato». Poiché a p. VII l’autore aveva sottolineato che i beni comuni sono dotati «di autonomia giuridica e strutturale rispetto tanto alla proprietà privata quanto a quella pubblica (intesa come demanio e/o patrimonio dello Stato e delle altre forme di organizzazione politica formale)», ho interpretato "pubblico" a p. 10 come sinonimo di "beni comuni". Ma c’è qui una qualche (non casuale) esitazione terminologica.
[28] Il Mulino, Bologna 2011.
[29] RUDOF VON JHERING, Lo scopo del diritto (1877), Einaudi, Torino 1972.
[30] MATTEI, E. REVIGLIO e S. RODOTÀ (a cura di), Invertire la rotta cit.
[31] MICHAEL SANDEL, Giustizia. Il nostro bene comune (2009), Feltrinelli, Milano 2010.