Carlo Verdelli, la Repubblica 30/1/2013, 30 gennaio 2013
Che sogni farà, la notte, il bambino strappato? E quanto ci metterà la mattina a disperderne l’ombra, a riprendere le misure dell’esilio colorato che ha preso il posto della sua casa? Il suo esilio, forse il suo rifugio, è una villetta su tre piani, gestita da una ex suora e alcuni volontari
Che sogni farà, la notte, il bambino strappato? E quanto ci metterà la mattina a disperderne l’ombra, a riprendere le misure dell’esilio colorato che ha preso il posto della sua casa? Il suo esilio, forse il suo rifugio, è una villetta su tre piani, gestita da una ex suora e alcuni volontari. Ci gioca insieme ad altri sette compagni d’avventura o di sventura, va a scuola lì vicino, rientra, studia, dorme, vede la madre un giorno su due e il padre sempre. Aspetta di essere “resettato”, come è spaventosamente scritto nel decreto della corte di Appello di Venezia che l’ha spedito a Padova, 30 chilometri da dove viveva, 30 chilometri dalla scena dove si è consumato lo strappo. Il suo strappo. Si dimentica la Storia, figurarsi la cronaca. Eppure la vicenda di questo bambino, che chiameremo X, pochi mesi fa ha sconvolto tanta Italia. C’è un video, tre minuti, che chi l’ha visto non può più scordare. Riprende un ragazzino con una tuta azzurra e una vocina disperata che si dimena mentre degli uomini cercano di trascinarlo sul marciapiede. Implora la zia che sta riprendendo la scena mentre lancia urla rabbiose contro i poliziotti che lottano col nipote («Lasciatelo stare! Non vedete che non respira! Stronzi, cosa siete, la Gestapo?»). Lui, il bambino X, cerca di aggrapparsi alla strada, graffiandola con le mani. Ancora la voce fuori campo della zia: «Fermatevi, il bambino dice che non vuole andare con suo padre perché lo maltratta». Lo maltratta? E allora perché i giudici l’hanno affidato proprio a lui? Sono pazzi? Consegnano un minore al suo persecutore? Il nonno materno è nella mischia, tira da una parte, i poliziotti dall’altra, X è in mezzo, strattonato, una bestiolina che si ribella al macello. È il 10 ottobre scorso, un mercoledì. Non inquadrata, una scuola, la Elena Lucrezia Cornaro di Cittadella di Padova, intitolata alla prima donna laureata al mondo. Il bambino strappato studiava lì. Quando sono venuti a prenderlo in classe, pare che fosse tranquillo. Non felice, ma tranquillo. Poi, appena fuori, tutto cambia. Quel video: tre minuti di follia, insopportabili da vedere e da sentire, immaginarsi da vivere. Alla fine, X scompare dentro una macchina grigia. Comincia la caccia al mostro, ai mostri. I poliziotti, il padre, i magistrati che hanno firmato il decreto. Caccia spiccia, verdetto sbrigativo. La sentenza si consuma nel salotto di Barbara D’Urso su Canale 5. Il pubblico ministero è Alessandra Mussolini, che si è precipitata a visitare X. Con l’abituale perentorietà, dice che il piccolo è provato, vive la cosa come una punizione, vuole solo tornare dalla mamma. Mamma che è in studio, i capelli spettinati dal dolore, insieme alla sorella, quella che ha girato il video. Piangono, protestano, invocano l’“onorevole Mussolini”: ci aiuti, lo tiri fuori, è un bambino maturo, sa quello che vuole. Ma davvero X può sapere quello che vuole? Davvero a 10 anni, dopo un’infanzia frantumata da una guerra tra genitori combattuta sul suo cuore, un bambino è in grado di capire che cosa è meglio per sé? Il clan materno è convintissimo di sì. Insieme al nonno, dirigente d’azienda e volitivo capofamiglia, tenta anche un blitz nell’istituto che “imprigiona” X. Il bambino verrà liberato, promettono e si promettono. Non succederà. La liberazione di X passa per altri percorsi. Smettere di essere scambiato per un campo di battaglia, per esempio. Intanto, tutti danno addosso, e c’è da capirlo, ai poliziotti del video, il braccio brutale della legge, epigoni dei carabinieri che arrestarono Pinocchio, tanto che il loro capo, il prefetto Antonio Manganelli, si scusa pubblicamente, e particolarmente con i parenti materni. Passa un po’ sotto silenzio il fatto che erano già stati fatti due tentativi per portare X in luogo protetto, sempre su mandato della magistratura, ma in entrambi i casi il bambino era sparito, o convinto a sparire, sotto un letto e i carabinieri avevano desistito. I genitori di X si chiamano Ombretta, 42 anni, e Michele, 43. Si sposano nel 2001, nel Duomo di Massa (lei è toscana, lui padovano). L’anno dopo nasce il primo e unico figlio. Altri due anni e arriva la separazione. Consensuale. Lui resta nella casa di Cittadella dove abitavano, lei si trasferisce con X da suo padre. Fine di un amore, inizio tranquillo di un nuovo ciclo, con Michele che va a trovare il bambino quando vuole, l’accordo che appena X avrà compiuto 3 anni potrà andare a dormire qualche volta dal suo papà e farci qualche vacanza insieme. Poi? «Poi mio figlio fa 3 anni e mia moglie mi dice: non sono pronta, e neanche lui. Accetto, lascio passare sei o sette mesi, ma qualcosa sta cambiando, me ne accorgo, allora comincio a insistere, chiedo il rispetto del nostro patto». Ombretta, tramite il suo avvocato, fa sapere che preferisce non parlare: la vicenda legale non è conclusa, non vorremmo compromettere esiti che invece auspichiamo con tutto il cuore, per il bene del bambino, ci comprenda… Michele ha l’ufficio di avvocato a un passo dal tribunale di Padova, in un vecchio stabile pieno di uffici di avvocati. È un uomo magro, vestito di scuro, mite nei gesti, gentile ma cauto nel parlare, complessivamente triste. «Un po’ per volta, X diventa freddo con me, quanto prima era dolce e affettuoso. Io non capisco, cerco in ogni modo di recuperare il suo bene, ma le cose peggiorano ancora, diventano terribili. Mi rifiuta, rifiuta di chiamarmi papà, dice “quello”, “lui”. E poi pugni, calci, un’ostilità feroce, impressionante. Mi rivolgo al Tribunale dei minori, cominciano degli incontri protetti, io, lui e mia moglie, ma per X ormai sono il nemico». Si sarà chiesto il perché di questa metamorfosi, il perché Ombretta la odi così tanto. «Non penso che mia moglie mi odi» (Michele continua a chiamarla “mia moglie” per tutta la durata dell’incontro). «Forse, magari inconsciamente, è rimasta vittima del suo, di padre, chissà. L’unica cosa certa è che ha cresciuto X nel disprezzo di me, e questo è un male per il bambino». Anche andare con la polizia a prelevarlo a scuola non deve avergli fatto benissimo. «C’è un decreto della Corte di Appello di Venezia, luglio 2012, che stabilisce l’allontanamento di X dalla madre e la scelta di un luogo neutro dove ripararlo. Eravamo a ottobre, tutti i tentativi di applicare quella disposizione erano falliti. Io dovevo, dovevo capisce?, salvare mio figlio. Quando leggo del bambino conteso, mi ribello. Non sto contendendo X a nessuno. Chiedo solo che possa crescere con una madre e con un padre. Anche con un padre, che sono io». Come va adesso con suo figlio? «Sta meglio, è certo che sta meglio. Per anni ha avuto uno sguardo strano, come se rivolgesse gli occhi sempre in su. Ora ti guarda. Qualche volta mi dà anche la mano o mi abbraccia, e questo mi commuove. A scuola è uno dei primi della classe. A me piace la letteratura, lui ha una propensione per la matematica, va benissimo. Vuole diventare chimico come il nonno? Benissimo. Io non cerco rivincite. Voglio solo che X cresca in pace. Mi sono laureato in diritto amministrativo, ma ora mi sto interessando sempre di più al diritto familiare. Perché non accada ad altri quello che è accaduto a X». «Quello di Padova è stato un disastro», dice con esperienza Egidio Turetti, dal 2000 coordinatore del pronto intervento per i minori del comune di Milano. «Quando capitano cose simili da noi, cioè casi di bambini da allontanare dalla famiglia perché il tribunale ha deciso che era l’ultima e l’unica possibilità per salvarli, facciamo in modo di convocare i genitori dalle forze dell’ordine, così da liberare il campo da altre possibili ingerenze, e intanto qualcuno, con più delicatezza possibile, va a prelevare il bambino e lo porta alla comunità dove è stato assegnato. Nel 2012, ci è successo 32 volte». Una volta al riparo, il bambino sta meglio? «Di sicuro smette di stare peggio. E poi così si dà ai genitori una scossa per provare a capire quanto hanno sbagliato e una possibilità per ricominciare. Il problema, quasi sempre, è che quei genitori non vedono la sofferenza del figlio. Come a Padova: il piccolo accetta i poliziotti in classe, poi si rivolta appena arrivato in strada. Non è strano? Vede i parenti, crede di non poter tradire le loro aspettative su di lui e si comporta di conseguenza». In Italia, da un anno, esiste un Garante per l’infanzia e l’adolescenza, di fatto la massima autorità in materia. Si chiama Vincenzo Spadafora, 39 anni, napoletano, una vita nel volontariato (e una parentesi come capo della segreteria di Rutelli, quand’era ministro dei Beni culturali). Si presenta in Parlamento, dicendo una cosa tanto ovvia quanto vera: «I bambini non votano, non hanno sindacati, non hanno voce, e quindi vengono per ultimi». Provate a cercare la parola “bambino” in una delle tante agende di questa campagna elettorale. Non la troverete, se non per vaghi accenni alla necessità di investire sui giovani (che è un’altra cosa) o tutelare la famiglia (altra cosa ancora). A Padova corre anche Spadafora, nei giorni di fuoco del bambino X. Visita la struttura che lo accoglie («molto seria, come la stragrande maggioranza di questi istituti»), si fa l’idea che il caso, a parte gli eccessi, è uguale a tanti altri: il figlio come oggetto di scambio o di scontro tra genitori divisi non solo dalla legge ma anche dal rancore. «Sta crescendo il numero di affidi giudiziari rispetto a quelli consensuali, il che significa che sempre più giudici sono costretti a fare le veci dei genitori». È l’emergenza numero uno, signor Garante? «No, quella è la povertà. Secondo l’Istat, abbiamo un milione e 800 mila minori che vivono in famiglie indigenti e più di 700 mila in condizioni di assoluta povertà. Il dato è peggiore nel Mezzogiorno, ma ormai il fenomeno si sta allargando alle periferie delle grandi città. E la povertà si eredita, con la conseguenza, per esempio, che tende a crescere l’abbandono scolastico. La crisi che stiamo attraversando peggiorerà la situazione. Spero molto che il prossimo Parlamento si renda conto della portata di questo allarme». Succederà? «Da quando sono in carica, non ho ricevuto una telefonata da alcun leader politico. In compenso ho cercato un contatto con il premier in carica». E che cosa le ha risposto Monti? «Per rispetto della competizione elettorale in corso, glielo dirò dopo il 24 febbraio». Il bambino X è nato nel 2002. A metà aprile compirà 11 anni. Non rientra nella casistica dei “minori di famiglie indigenti” (il padre è avvocato, la madre farmacista), ma contribuisce con il suo piccolo più uno alle statistiche elaborate in materia dall’Istituto degli Innocenti di Firenze. A inizio 2011, quelli fuori dalla famiglie di origine erano 29.309: metà in famiglie con la formula dell’affido temporaneo, metà in una delle 2.766 comunità riconosciute dallo Stato e gestite da onlus, associazioni religiose, il famoso “privato sociale”. Alla fine degli anni Novanta, il totale era di circa 25 mila: a far crescere la cifra sono stati soprattutto gli affidi, cresciuti del 50 per cento. Raddoppio anche per i minori stranieri: dal 10 al 22 per cento. Dimenticarsi degli orfanotrofi, oltretutto aboliti per legge nel 2006 ma di fatto scomparsi già molti anni prima. Dentro quei collegi, con gli ospiti rapati e incolonnati con divisa e berrettino, si sono consumate infinite miserie, infinite carità, storie da libro Cuore o da Guinness. Dai Martinitt di Milano, per esempio, sono usciti l’editore Angelo Rizzoli, figlio di un ciabattino analfabeta che morì prima che lui nascesse; Leonardo Del Vecchio, fondatore di Luxottica, oggi il secondo uomo più ricco d’Italia dopo Michele Ferrero e il 74° al mondo, secondo Forbes; Edoardo Bianchi, che poi inventò la prima bicicletta moderna, con la ruota anteriore più piccola e i pedali abbassati. Oggi, solo l’1 per cento è orfano di entrambi i genitori (e il 4 per cento in una condizione di abbandono), il che significa che il 95 per cento di questi “bambini altrove” è costretto a esserlo per problemi dei genitori: inadeguatezza, maltrattamenti e incuria, alcolismo o tossicodipendenza, «importanti guasti relazionali tra il padre e la madre» (ed è questo, a occhio, il caso di X). Di conseguenza, prima i genitori rinsaviscono e prima i bambini tornano. Le statistiche però dicono che, in quasi la metà dei casi, la permanenza fuori va dai 2 ai 4 anni e oltre. Un costo pesante in termini di vita, non trascurabile nemmeno dal punto di vista della spesa. Una famiglia affidataria prende in media dallo Stato 400 euro al mese (che diventano 700 a Trento e 600 in Calabria e a Bolzano). Una casa- famiglia, per ospite, qualcosa di più, e il qualcosa, in assenza di dati ufficiali, è molto variabile. Resterebbe l’adozione, ma è complicatissima per due motivi. Il primo è che i minori adottabili, cioè quelli per cui non esiste o non resta neanche un esilissimo legame parentale, sono pochi: mille l’anno. Il secondo è che il percorso di idoneità per una coppia che voglia adottare è lungo ed estremamente laborioso. Molti si scoraggiano nel tragitto, o cambiano strade, imboccando anche quelle non previste dalla legge. La morale è che, a fronte di 10 mila coppie richiedenti nell’anno Duemila, oggi siamo tra le 5-6 mila. E comunque il bambino X non è adottabile, neanche se intervenissero il Papa o Napolitano in persona. Alla fine dell’estate potrebbe lasciare la comunità dove tre mesi e mezzo fa è arrivato, spezzato e da “resettare”, su una macchina grigia di poliziotti in borghese. Potrebbe. «Perché non accada ad altri quello che è accaduto a X», dice il padre Michele. Accadrà, continuerà ad accadere. E anche lei lo sa. I bambini di oggi sono condannati all’invisibilità. L’avvocato abbassa la testa, poi chiede permesso: suo figlio lo aspetta per andare a pranzo fuori. Gli ha appena scaricato sul telefonino un gioco che a X piace molto. «La cosa che lo diverte di più? Mah, andare al cinema… No, la playstation, non c’è proprio gara». E per la prima volta il triste Michele sorride.