Gianni Clerici, la Repubblica 30/01/2013, 30 gennaio 2013
DEL PIERO GOLF, ASILI E UNA TAZZA DI TÈ VITA DI ALEX L’AUSTRALIANO
MELBOURNE
Come non far due chiacchiere con Alessandro Del Piero, trovandoci entrambilontanidall’Italia, Down Under, quaggiù, come dicono i discendenti del Capitano Cook, se così posso chiamare questa mescolatissima etnia. L’Australia di Alessandro – mi ha subito suggerito di chiamarlo per nome, come gli ho detto che potrei essere suo nonno, 82 anni contro 38 – si manifesta subito nella hall del Crown Plaza sotto forma di un appassionato, Roberto Penna, uno che dice di essere di Benevento ma parla loslanglocale,chiedelafotoperilsuobambino di 4 anni, che ha chiamato Alessandro in onore di Del Piero, e offre una maglia bianconera e un pennarello per una firma. Ed è lì che inizio a capire che in Alessandro Del Piero la natura umana, la sua personalità, prevale sul personaggio, perché domanda del bambino, per subito parlarmi dei suoi, mentre anch’io gli parlo delle mie nipotine Lea e Anita. I bambini di Alessandro sono tre, Tobias, Dorotea e Sasha, di cinque, tre e mezzo
e due anni. D’un tratto immersi in un nuovo mondo, trovano naturalissimo tutto ciò, Tobias già è andato all’asilo, e attende la riapertura delle scuole (qui è Ferragosto). Già comincia a capire lo slang, e arriva a tradurre qualche frase incomprensibile per il papà, che dal canto suo - mi rendo conto dagli interventi di qualche curioso - conosce un buon basic english.
Com’è arrivato qui, Alessandro Del Piero, a 38 anni, dopo aver vinto tutto e firmato un contratto in bianco con la Juventus, che non gli ha offerto lo stesso amore dedicatole per una vita? Mi risponde di avere avuto, in una parola, contatti con il mondo. Squadre nord e sudamericane, Giappone e paesi asiatici emergenti, paesi arabi, quelli del petrolio, e addirittura Cina. Sì, gli dico, conosco la Cina, ci son stato più volte, dai tempi che andavano scalzi e in bicicletta, ma non sapevo che giocassero a football. Giocano e come, mi risponde, e non esclude di esser stato incuriosito, ma la maggior tentazione è stata l’Australia.
Non mi pare gentile domandare quanto, in ciò, abbia influito la componente economica, ma posso capire la sua curiosità di italiano per un paese che, gli racconto, aveva nel 1960, quando per la prima volta lo visitai grazie al tennis, solo 9 milioni di abitanti, con una colonia italiana di 600.000 emigrati. Emigrati soprattutto dal Veneto, la regione di Alessandro, nato nel paesino di San Vendemiano a settantasette chilometri da Padova, la sua squadra d’esordio, prima che l’acquistasse Boniperti, e fosse ammesso alla corte di Re Gianni Agnelli I°. Ridiamo, mentre gli ricordo che la mia ultima intervista a un calciatore – ma si può chiamare intervista la nostra conversazione? – fu proprio a Boniperti, cordialissima intervista grazie a una fidanzata comune, oggi nonna. E, parlando di affetti, Alessandro mi racconta della sua, di famiglia, nonni contadini, papà elettricista, mamma donna di casa, e non solo della propria, ma donna a ore, tata, capace di lasciare la pelle delle mani instancabili su cento di San Vendemiano. Domando se, considerato il soprannome, abbia pensato di dare un’occhiata alla vicina Pinacoteca, e Alessandro mi informa che certo gli piacerebbe essere anche turista, come gli riesce negli intervalli del suo lavoro di calciatore a Sydney, la New York australiana, se Melbourne ne è la Londra. Appassionato come sono, non meno che di tennis, gli dico che non espongono a mia memoria un Pinturicchio, e Alessandro mi racconta che S.M. Agnelli aveva soprannominato Baggio nientemeno che Raffaello, e chiamò lui Pinturicchio per qualche tocco che gli ricordava la fantasia del pittore di Papa Borgia, guarda caso, Alessandro (VI).
Questa divagazione museale mi spinge a domandargli come mai avesse qualche conoscenza della mia attività, e Alessandro mi si rivela anche sportivo dilettante, tennista dotato di rovescio ad una mano «che con i suoi consigli potrei certo migliorare». Ora soprattutto golfista - qui si giocano con dieci dollari 18 buche – grazie agli insegnamenti del noto Dino Canonica. Parliamo un pochino di golf, del quale, ancor più che del mio tennis, lo affascina la solitudine, l’auto referenzialità, la
responsabilità: e non fatico a capire quel che disse di lui un allenatore, che Alessandro fosse malato di perfezionismo. Bellissima malattia, dalla quale è un dono essere contagiati.
Mentre davanti a un tè continuiamo a chiacchierare di molte cose comuni, la sala si riempie via via di giovanotti in tuta, che adocchiano il mio inutile taccuino bianco. Alessandro mi informa che i giovanotti in tuta blu sono i suoi compagni di squadra, i calciatori del Sydney Football Club, una delle dieci squadre del campionato in trasferta a Melbourne, lacapitaledelVictoria,unodeiseistati australiani. Squadra, il Sydney, in sicuro miglioramento verso i futuri play off, soprattutto dopo la vittoria contro il Wellington, la squadra neozelandese, costretta ad un avanti indietro settimanale di sei orette di volo. Vittoria a proposito della quale Alessandro ha il buon gusto, e l’umiltà di non accennare ai suoi quattro gol. Un incontro con un giovane uomo la cui presenza in un lontano continente farà di certo bene al nostro paese, un uomo rimasto semplice, per bene, uno capace di rispondere a chi lo definisce un mito: «Scusi, io non credo».