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 2013  gennaio 29 Martedì calendario

USTICA, UN’ALTRA (NON) VERIT

[La Cassazione civile: fu un missile] –
La Cassazione civile (ripetiamo: civile) ha stabilito che lo Stato dovrà risarcire i parenti delle vittime della cosiddetta «strage di Ustica»: ieri è successo questo, e il difficile, ora, è spiegare che in termini di verità storica e giudiziaria significa poco o nulla. Sappiamo che i processi civili, in Italia, viaggiano autonomamente e indipendentemente dai processi penali: e tutti quelli sulla strage di Ustica, sappiamo pure, si sono già conclusi da tempo e senza verità eclatanti. Ovviamente la sentenza di ieri (che poi è la fotocopia di una analoga sentenza palermitana d’Appello del 2011) motiva il risarcimento che toccherà ai ministeri della Difesa e dei Trasporti: tuttavia non introduce novità documentali e probatorie, ma si limita a esporre le proprie convinzioni circa i materiali già prodotti in vecchi processi. Ergo, è una tesi come un’altra, e come altre è più che rispettabile: dice che all’interno del Dc-9 dell’Itavia non vi fu nessuna esplosione e che l’idea che l’aereo sia stato colpito da un missile appare «congruamente motivata». Lo Stato, in ogni caso, non ha garantito la sicurezza dei cieli e quindi deve risarcire tutti i parenti che hanno fatto ricorso. Così è deciso.
Ciò detto, non solo ne sappiamo quanto prima: ma vale la pena di riassumere gli sforzi - diciamo così - che sono stati fatti a partire dal 1980 per arrivare a ciò che appunto non sappiamo. Il processo ufficiale, la cosiddetta «istruttoria Priore», è durato vent’anni e ha prodotto decine di migliaia di faldoni, circa 4000 testimoni, quasi cento rogatorie internazionali, circa 300 udienze e 115 tra perizie necroscopiche, medico-legali, chimiche, foniche, acustiche, di trascrizione, grafiche, metallografico- frattografiche ed esplosivistiche. Le spese processuali sono state di circa 300 miliardi di lire, mentre il dibattimento (anzi, neanche: è stata un’istruttoria alla vecchia maniera) si è chiuso il 31 dicembre 1997 con un nulla di fatto: sono stati definiti «ignoti gli autori della strage» e «non luogo a procedere» è stato dunque il sigillo finale. Va detto che il reato di strage non cade comunque mai in prescrizione, e quindi, probabilmente per l’eternità, potranno esserci annunciate delle riaperture in virtù di novità eclatanti.
Ce ne sono state, da allora, di novità eclatanti? Sì e no. Ma prima dobbiamo spiegare che i processi, in generale, furono disseminati a Palermo, Roma e Bologna, ma che a essi si aggiunse da subito una commissione d’inchiesta del Ministero dei Trasporti che entrò subito in conflitto con la magistratura; poi, nel 1989, vi fu una chiassosa altra commissione guidata dal repubblicano Libero Gualtieri (che s’occupava anche di altre stragi) e poi ci furono i processi sui presunti depistaggi: in Corte di Assise, in Corte di Assise d’Appello e poi in Cassazione. Qui erano imputati molti alti ufficiali dell’Aeronautica Militare, e, per farla breve, nel gennaio 2007 la Suprema Corte ha concluso che i depistaggi non ci furono. La letteratura giornalistica dice tutt’altro, e anche la sentenza civile di ieri ha strappato accesi commenti contro i «depistaggi » a personaggi come Valter Veltroni e Nicola Vendola: sta di fatto che è stata la stessa magistratura penale, a suo tempo, a stabilire che i depistaggi non ci furono.
Ci fu poi - proseguendo col calvario - un’altra causa civile troppo spesso dimenticata: quella di risarcimento danni fatta dall’Itavia allo Stato. Il proprietario Aldo Davanzali, infatti, perse la sua compagnia aerea dopo che l’allora ministro Rino Formica l’aveva fatta chiudere praticamente subito dopo la strage, nel 1980, sulla base di una perizia poi rivelatasi sbagliata. Il risultato fu che circa un migliaio di dipendenti dell’Itavia persero lavoro. L’ex Itavia ottenne 108 milioni di euro dallo Stato.
Un film a parte meriterebbe inoltre il mirabolante recupero dell’aereo a 3700 metri di profondità, riuscito al termine di due distinte campagne nel 1987 e nel 1991: fu riportato in superficie circa il 96 per cento del relitto, ma la cosa, benché utile, non si rivelò decisiva. Non mancarono polemiche evocative in quanto la compagnia che recuperò il Dc-9 (la Ifremer) era francese e, secondo il giudice Rosario Priore, collegata ai servizi segreti d’oltralpe: francese, infatti, è anche la pista che nel 2007 ha fatto partire una nuova inchiesta. A ventotto anni dalla strage, infatti, la procura di Roma ha aperto un nuovo fascicolo dopo alcune dichiarazioni di Francesco Cossiga, presidente del Consiglio all’epoca della strage: disse che ad abbattere il DC-9, e ad uccidere gli 81 occupanti, fu un missile «a risonanza e non a impatto » lanciato da un caccia decollato dalla portaerei Clemenceau, arma destinata ad abbattere un altro caccia su cui si sarebbe trovato - non è chiaro perché - il dittatore libico Gheddafi. Cossiga, nel febbraio 2007, disse anche che i servizi segreti italiani informarono lui e l’allora ministro dell’Interno Giuliano Amato.
Da allora, non ne siamo più venuti a capo. Le piste, in generale, si sono sempre divise così: 1) pista internazionale (protagonisti eventuali caccia francesi, libici e statunitensi); 2) pista del cedimento strutturale (sempre bistrattata e ridicolizzata); 3) pista terroristica e cioè legata a un’eventuale bomba nascosta nella toilette del velivolo, con tanto di collegamento con la strage di Bologna avvenuta 35 giorni dopo (il Dc-9 era decollato da lì).
Ora i giudici di Palermo (giudici civili, che si occupano solo di risarcimenti) in pratica hanno dato ragione a Cossiga in tutti e tre i gradi di giudizio (civile): anche se nessuno, ieri- tantomeno Vendola e Veltroni - ha osato nominare l’ex defunto presidente della Repubblica. Le motivazioni della sentenza di Palermo non sono ancora note più di tanto: ma in ogni caso, da quanto trapelato, vanno nella direzione diametralmente opposta a quelle della Cassazione Penale che ha già assolto vari ufficiali dell’Aeronautica, e che concluse, a suo tempo, che di missili non ce n’erano stati nemmeno l’ombra. La verità giudiziaria perciò rimane quest’ultima. Cioè nessuna.