Jack Livings, The Paris Review vol. 3 (Numero 174, 2005), Fandango Libri, Milano 2011, 29 gennaio 2013
SALMAN RUSHDIE L’ARTE DELLA NARRAZIONE
[vedi appunti]
Salman Rushdie è nato a Bombay nel 1947, alla vigilia dell’indipendenza indiana. Ha studiato in India e in Inghilterra, e proprio qui ha trascorso i primi anni della sua vita di scrittore. Oggi vive principalmente a New York dove l’anno scorso, in diverse sedute, ha avuto luogo quest’intervista. Per una pura casualità, il nostro secondo appuntamento è avvenuto il giorno di San Valentino del 2005, a sedici anni esatti dal proclama religioso (fatwa) che l’ayatollah Khomeini scagliò contro Salman Rushdie, definendolo un apostata per aver scritto I versi satanici e condannandolo a morte in nome della legge islamica. Nel 1998, il presidente dell’Iran, Mohammed Khatami, denunciò la fatwa e Salman Rushdie oggi insiste nel dire che il pericolo è passato. Ma gli estremisti islamici considerano quel proclama irrevocabile e l’indirizzo di casa dello scrittore continua a non comparire sull’elenco.
Per essere un uomo che ha suscitato tanto furore, che è stato elogiato e accusato, minacciato e celebrato, la cui immagine è stata bruciata oppure osannata come icona della libertà di espressione, Salman Rushdie è sorprendentemente simpatico e sincero — né una vittima perseguitata né un oppressore. Ben rasato, in jeans e maglione, sembra la versione più giovane del condannato che fissa i suoi accusatori nel celebre ritratto che gli fece Richard Avedon nel 1995. "La mia famiglia detesta quella fotografia", dice ridendo. Poi, quando gli chiediamo dove conserva la foto, sorride e risponde: "Appesa alla parete".
" È piuttosto difficile che io esca durante la giornata", afferma Salman Rushdie quando è al lavoro. Ma alla fine dello scorso anno ha consegnato il manoscritto di Shalimar il clown, il suo nono romanzo, e non ha ancora iniziato un nuovo progetto. Anche se ha detto di aver esaurito le risorse finendo quel libro, mentre parlava del suo passato, della sua scrittura, della politica sembrava quasi acquistare energia. Quando conversa, usa le stesse acrobazie mentali tipiche della sua narrativa – tortuose digressioni che raggiungono diversi continenti ed epoche storiche prima di tornare al punto di partenza.
La fatwa ha reso il nome Salman Rushdie più celebre di quello di qualsiasi altro romanziere vivente. Ma la sua reputazione di scrittore è stata difficilmente eclissata dagli attacchi politici. Nel 1993 ha ricevuto il "Booker of Bookers" – un riconoscimento per il romanzo I figli della mezzanotte, definito il miglior libro ad aver vinto il Man Booker Prize da quando lo avevano istituito venticinque anni prima – ed è attualmente presidente del PEN-American Center. Oltre ai romanzi, è anche autore di cinque libri di saggistica e di una raccolta di racconti. Il giorno di San Valentino, mentre si sistemava sulla sedia imbottita, fuori nevicava leggermente, e il comignolo di un inceneritore di un edificio a qualche isolato a est spandeva nel ciclo una colonna di fumo nero. Salman Rushdie prese un po’ d’acqua da un bicchiere, disse che sua moglie era stata un dono, poi si dedicò alle mie domande.
Jack Livings, 2005
Quando scrive, pensa a chi la leggerà?
Non lo so. Quando ero giovane, dicevo, No, sono solo il servo del mio lavoro.
Nobile.
Fin troppo nobile. Oggi mi interessa più la chiarezza come virtù che le virtù della difficoltà. Presumo significhi avere un senso più chiaro di come legge la gente, senso che dipende in parte, almeno credo, dalla conoscenza che ho del modo in cui la gente legge quello che ho scritto finora. Non mi piacciono i libri che vogliono strizzare l’occhio al pubblico, però oggi mi impegno al massimo per raccontare una storia in modo limpido e accattivante. Eppure, resta comunque quello che pensavo all’inizio quando ho scritto I figli della mezzanotte. Quando mi sembrava un’assurdità che la narrazione e la letteratura avessero preso direzioni diverse. Era una separazione inutile. Una storia non deve essere semplice, non deve essere monodimensionale ma, soprattutto se è multidimensionale, devi trovare il modo più chiaro e accattivante possibile per raccontarla.
Una delle cose che sembra ormai avere la mia paternità, tanto mi appartiene come argomento, è il modo in cui le storie di un qualsiasi luogo sono anche le storie di ogni altro luogo. Da un certo punto di vista, lo sapevo già, perché Bombay, dove sono cresciuto, era una città in cui l’Occidente già si mescolava completamente con l’Oriente. Le disgrazie della vita mi hanno dato la capacità di creare racconti in cui le diverse parti del mondo vengono a contatto, a volte in armonia, a volte nel conflitto, a volte in entrambi i modi — spesso in entrambi i modi. La difficoltà è che quando scrivi di qualunque luogo c’è il rischio di scrivere di nessun luogo. È un problema che lo scrittore che si occupa di un unico posto non deve affrontare. Questo sarà alle prese con altri problemi, ma quella cosa che hanno un Faulkner o una Welty – un pezzo di terra che conoscono profondamente e al quale appartengono totalmente, tanto da poterci tirar fuori tutta la loro vita senza rischiare si esaurisca – beh, quella cosa lì la ammiro ma non è quello che faccio io.
Come descriverebbe quello che fa?
La mia vita mi ha regalato un altro tema ricorrente: i mondi in collisione. Come si fa a far capire alla gente che la storia di tutti è ormai parte della storia di tutti gli altri? Un conto è dirlo, ma come si riesce a far sentire il lettore partecipe, visto che si tratta della sua stessa esperienza vissuta? I miei ultimi tre romanzi sono dei tentativi di trovare le risposte a queste domande: La terra sotto i suoi piedi. Furia e l’ultimo, Shalimar il clown, che comincia e finisce a Los Angeles ma la cui parte centrale si svolge un po’ nel Kashmir, un po’ nella Strasburgo occupata dai nazisti, un po’ nell’Inghilterra degli anni Sessanta. In Shalimar, Max Ophuls è un eroe della Resistenza durante la Seconda guerra mondiale. La resistenza, che riteniamo eroica, è ciò che oggi definiremmo un’insurrezione in un periodo di occupazione. Oggi viviamo in un’epoca in cui esistono altre insurrezioni che non definiamo eroiche – ma terroristiche. Non ho voluto esprimere giudizi morali. Volevo solo dire. Questo accadeva allora, questo accade oggi, questa mia storia mette insieme le due cose, osservatele. Non credo sia compito dello scrittore dire, Significa questo.
Deve trattenersi dal dire. Significa questo?
No. Io sono contro tutto quello che avviene nel romanzo. Se scrivo un editoriale per un giornale, allora è diverso. Ma credo che dare istruzioni al lettore danneggi il libro. Il personaggio di Shalimar, per esempio, è un feroce assassino. Ci terrorizza, eppure in alcune parti — come la scena in cui vola giù dal tetto a San Quentin — facciamo il tifo per lui. È questo che volevo, che la gente vedesse con i suoi occhi, che sentisse ciò che sente lui, non intendevo dare per scontato che conoscesse di che tipo di uomo si tratta. Tra tutti i miei libri è quello che è stato maggiormente scritto dai personaggi.
Una grossa parte dell’idea originaria l’ho dovuta buttare via perché i personaggi volevano andare da un’altra parte.
Cosa intende?
A mano a mano che procedevo nella scrittura, avvenivano cose che non avevo previsto. È successo qualcosa di strano con questo libro. Mi sono sentito completamente posseduto da queste persone, al punto da essermi ritrovato a piangere per i miei stessi personaggi. C’è una scena in cui il padre di Boonyi, il pandit Pyarelal, muore nel suo frutteto. Non sono riuscito a sopportarlo. Mi sono ritrovato a piagnucolare alla scrivania. Pensavo, Cosa sto facendo? Questa è una mia creazione. Poi, in un altro momento, stavo scrivendo della distruzione del villaggio nel Kashmir. Non ci riuscivo. Stavo lì, seduto alla scrivania, e pensavo. Non ce la faccio a scrivere queste frasi. Molti autori che hanno avuto a che vedere con l’argomento dell’orrore non sono riusciti ad affrontarlo di petto. Non ho mai avuto la sensazione di non poter sopportare l’idea di raccontare una storia — è una cosa terribile, non voglio nemmeno pensarci, non può succedere qualcos’altro? Ma poi ti dici. No, non può succedere qualcos’altro, no, è questo che accade.
Kashmir è un territorio a lei familiare.
La mia famiglia è originaria del Kashmir, ma fino a oggi non me ne sono mai davvero occupato. L’inizio dei Figli della mezzanotte si svolge nel Kashmir, e Harun e il mare delle storie è una favola sul Kashmir, però nella mia narrativa non c’è nient’altro di più diretto. L’anno della vera esplosione del Kashmir, il 1989, è stato anche l’anno in cui c’è stata un’esplosione nella mia vita. E mi sono distratto, così... A proposito, oggi è l’anniversario della fatwa. Il giorno di San Valentino non lo amo molto, e la cosa scoccia un po’ mia moglie. Ad ogni modo, Shalimar è stato una specie di tentativo di scrivere Il paradiso perduto del Kashmir. Solo che Il paradiso perduto riguarda la caduta dell’uomo – il paradiso è ancora lì, ma noi ne siamo stati cacciati. Shalimar è sulla disintegrazione del paradiso. Come se Adamo ci fosse tornato con delle bombe e lo avesse fatto saltare in aria.
Non ho mai visto al mondo posto più bello del Kashmir. Deve dipendere dal fatto che la valle è molto piccola e le montagne molto grandi, così hai sotto gli occhi questa campagna in miniatura circondata dall’Himalaya, è spettacolare. E anche le persone sono particolarmente belle. Il Kashmir è una zona prospera. La terra è ricca, e le colture abbondanti. È un luogo rigoglioso, non come gran parte dell’India dove la penuria è evidente. Ma tutto questo, è ovvio, oggi non c’è più, ed è dura.
La risorsa principale del Kashmir era il turismo. Non quello straniero, ma quello proveniente dall’India. Se ci fai caso, nei film indiani, ogni volta che volevano un’ambientazione esotica, inserivano un numero di danza nel Kashmir. Il Kashmir era la terra dei sogni dell’India. Gli indiani ci andavano perché da un paese caldo si va in uno più freddo. La gente rimaneva estasiata alla vista della neve. All’aeroporto, dove quella sporca e ridotta in poltiglia è ammucchiata ai lati delle strade, si vedevano persone immobili che guardavano come se avessero appena scoperto una miniera di diamanti. Sembrava uno spazio incantato. Oggi tutto questo non esiste più, e anche se dovesse esserci un trattato di pace domani, non tornerà quella di un tempo, perché ciò che è stato distrutto, ed è di questo che ho tentato di scrivere, è la cultura tollerante e mista del Kashmir. Dopo il modo in cui gli indù sono stati scacciati, e il modo in cui i musulmani sono stati radicalizzati e tormentati, non è possibile rimettere tutto insieme. Quello che ho voluto dire è: Non è solo la storia di un popolo di montagna a otto o nove mila chilometri di distanza. È anche la nostra storia.
Siamo tutti coinvolti?
In questo libro ho voluto mettere in chiaro che si trattava di una storia personale, non politica. Volevo che i lettori sviluppassero un attaccamento intimo e romanzesco ai personaggi e se sono stato bravo nel farlo, credo che nessuno lo sentirà didattico, ma che tutti ci preoccuperemo del bene di ciascuno. Volevo che fosse un libro senza personaggi secondari.
Da ragazzo era già preparato sulle questioni politiche del Kashmir?
Non avevo più di dodici anni quando andai con la mia famiglia a fare un viaggio nel Kashmir. Si potevano fare delle meravigliose escursioni con dei pony su altissime montagne e ghiacciai. Andavamo tutti insieme — io, le mie sorelle, i miei genitori — e si passava la notte negli alloggi messi a disposizione dal governo, dei posti molto semplici. Una volta arrivati al nostro alloggio mia madre si rese conto che il pony che avrebbe dovuto portare gli alimenti non li aveva. Era con tre bambini capricciosi, quindi chiese al ragazzo del pony di andare al villaggio a vedere di procurarsi qualcosa, ma quando questo ritornò disse. Non c’è da mangiare, non c’è niente. Non hanno nulla. E lei rispose. In che senso? Non può non esserci niente. Devono esserci delle uova — cosa vuol dire niente? Lui fece. No, non c’è niente. E così mia madre disse, Allora non possiamo cenare, non mangerà nessuno.
Un’ora più tardi ci accorgemmo che una processione di una mezza dozzina circa di persone provenienti dal villaggio, ci stavano portando da mangiare. Il personaggio più influente si avvicinò e disse. Volevo chiedervi scusa, perché quando abbiamo detto al ragazzo che non c’era niente da mangiare pensavamo foste una famiglia indù. Ma, lui aggiunse, quando abbiamo saputo che eravate musulmani non potevamo non portarvi del cibo. Non accettiamo alcun tipo di pagamento, e ci scusiamo per essere stati tanto scortesi.
Pensai, Wow. E siamo nel Kashmir, dove dovrebbe esserci una tradizione di tolleranza. Ci andavo sempre, e appena sentivano il mio nome, Salman, un nome musulmano, mi parlavano come non avrebbero mai fatto se mi fossi chiamato, Raghubir, ad esempio. Mi dilungavo in conversazioni sulla loro vita e sui loro rancori. Ma quando tornavo a Delhi o a Bombay e riportavo tutto quello che mi avevano detto, notavo che, anche tra gli esponenti dell’intellighenzia indiana, non e’era la voglia di ammettere quanto quei rancori si fossero fatti profondi. Dicevano, Non dovresti parlare, perché sembri un autonomista. Io, l’autonomista musulmano!
C’è la possibilità che lei scriva un libro apolitico?
Sì, mi piacerebbe molto, e sono sempre più seccato di non averlo ancora fatto. Io credo che oggi il divario fra la vita privata e quella pubblica sia scomparso. C’era una distanza maggiore prima. È come Jane Austen che si dimentica di menzionare le guerre napoleoniche. La funzione che l’esercito britannico ha nei romanzi di Jane Austen è di apparire il più gradevole possibile durante le feste. Non perché lei stia evitando la questione, ma perché è in grado di spiegare molto bene e in maniera esaustiva le vite dei suoi personaggi senza alcun riferimento alla sfera pubblica. Oggi non è più possibile, e non solo perché nell’angolo di ogni stanza c’è un televisore. Ma anche perché gli avvenimenti del mondo hanno un grande peso sulla nostra quotidianità. Abbiamo un lavoro oppure no? Quanto vale il nostro denaro? Tutto viene determinato da questioni che vanno al di là del nostro controllo. Viene da mettere in discussione l’idea di Eraclito che il carattere è destino. A volte il nostro carattere non è il nostro destino. A volte un aeroplano che sfonda un edificio è il nostro destino. Il mondo esterno entra nella storia non perché io voglia scrivere di politica, ma perché voglio scrivere della gente.
Ma fra gli scrittori americani sembra esserci una specie di spaccatura — politica da una parte, narrativa dall’altra – perché quello che scrive un romanziere americano non influenzerà le decisioni politiche di Washington.
Sì, ma a chi importa?
Crede che in India, ad esempio, la narrativa abbia una valenza politica?
No. Magari ce l’avesse. Ma può succedere che gli scrittori più noti vengano considerati — cosa questa che non avviene agli scrittori americani – parte del dibattito.
Le loro opinioni sono tenute in considerazione. Succede anche in Inghilterra. Come in Europa. In America succedeva non molto tempo fa. Nella generazione di Mailer, Sontag, Arthur Miller.
Cos’è successo?
Non lo so. Nel periodo di massimo splendore dell’Impero Britannico pochissimi romanzi parlavano del potere britannico. È incredibile che nel momento in cui l’Inghilterra era la superpotenza mondiale l’argomento del potere britannico sembrava non interessare la maggior parte degli scrittori. Forse oggi è così anche in America, superpotenza mondiale. Fuori dai confini. America vuol dire potere. Ma all’interno degli Stati Uniti non è la stessa cosa. Ci sono ancora scrittori che si occupano di politica – Don DeLillo, Robert Stone, Joan Didion e via dicendo. Ma credo che molti di loro siano decisamente disinteressati al modo in cui l’America viene percepita all’estero. La conseguenza è che si scrive decisamente poco del suo potere.
Oltre al suo interesse per la politica e il potere, c’è molta invenzione nelle sue opere. In effetti, lei sostiene che è stato Il mago di Oz ad aver fatto di lei uno scrittore.
Dopo aver visto il film, tornai a casa e scrissi un racconto intitolato "Over the Rainbow". Avevo nove o dieci anni. Il racconto parlava di un ragazzino che, mentre camminava su un marciapiede a Bombay, aveva visto l’inizio di un arcobaleno invece della fine – questa cosa tremolante che formava un arco lontano da lui. C’erano dei gradini nel mezzo – utili – dei gradini nei colori dell’arcobaleno che salivano fino in alto. Allora lui saliva, al di là dell’arcobaleno, e viveva avventure da favola. A un certo punto incontrava una pianola parlante. Il racconto non è sopravvissuto. Forse è un bene.
Pensavo lo conservasse suo padre.
Diceva di averlo lui, ma frugando fra le sue carte quando è morto non lo abbiamo trovato. Quindi, o ci ha preso per i fondelli oppure lo aveva perso. È morto nell’87, molto tempo fa, e di certo oggi non verrà fuori niente. Non ci sono bauli in soffitta. Credo sia scomparso, insieme a un’altra cosa scritta molto tempo dopo, il mio primo vero lavoro completo di scrittura. Quando avevo diciotto anni, e avevo appena finito la scuola – la Rugby, in Inghilterra — avevo cinque mesi di pausa prima di Cambridge. In quel periodo scrissi un testo intitolato "Terminal Report" sui miei ultimi trimestri di scuola, finemente romanzato. Andai a Cambridge e me ne dimenticai, poi dopo una ventina di anni mia madre mi disse che avevano trovato quel dattiloscritto. Era come un messaggio che mi arrivava dal mio io diciottenne. Ma non mi piaceva molto quell’io, era politicamente troppo conservatore, e per altri aspetti un prodotto standardizzato di un’educazione da collegio inglese. L’eccezione era il materiale sul razzismo, che invece era straordinariamente sofisticato. Quel diciottenne sapeva tutto quello che so io oggi, ma in maniera più nitida perché gli era appena accaduto. Eppure ho avuto una reazione talmente negativa davanti a quel testo, che quando mia madre mi chiese se lo volevo le dissi di tenerselo. E lei lo perse. Quando è morta non lo abbiamo trovato.
Un atto di gentilezza?
Forse. Era davvero terribile. Ma rimpiango di non averlo tenuto perché era come un diario. Se mi fosse mai venuto il desiderio di scrivere di quel periodo mi sarebbe stato d’aiuto per quel materiale grezzo che altrimenti non potrò mai recuperare. Oggi penso di essere stato molto stupido ad averlo lasciato a casa.
Fu un periodo negativo quello passato alla Rugby?
Non mi picchiavano ma ero piuttosto solitario e c’erano poche persone che consideravo amiche. Molto dipendeva dal pregiudizio. Non degli insegnanti — l’istruzione fu delle migliori. Ne ricordo due o tre che ispirarono il tipo di professore che si vede nei film di Robin Williams. C’era un gentiluomo piuttosto anziano molto dolce, il signor J.B. Hope-Simpson, che oltre a essere un bravo insegnante di storia fu anche quello che mi fece conoscere Il signore degli anelli quando avevo quindici anni. Me ne innamorai perdutamente, tanto da trascurare quasi gli studi. Ricordo ancora tutto nei minimi particolari. Mi colpì il progetto del linguaggio, tutte quelle lingue inventate. Diventai piuttosto bravo con l’elfico.
Cera qualcuno con cui poter parlare l’elfico?
C’erano altri due o tre nerd appassionati del Signore degli anelli.
Cos altro leggeva?
Prima di venire in Inghilterra i miei autori preferiti erano P.G. Wodehouse e Agatha Christie. Li divoravo. I miei nonni vivevano ad Aligarh, non lontano da Nuova Delhi, dove mio nonno lavorava per il Tibbiya College dell’università musulmana di Aligarh. Era un medico di formazione occidentale, aveva studiato in Europa, ma cominciò a nutrire un particolare interesse per la medicina tradizionale indiana. Mi portava sulla sua bicicletta alla biblioteca universitaria e lì mi lasciava libero. Lo ricordo come un luogo pieno di enormi scaffali che scomparivano nel buio, con quelle scalette a scorrimento sulle quali arrampicarsi. Me ne uscivo dall’oscurità con grosse pile di P.G. Wodehouse e Agatha Christie, di cui mio nonno registrava l’uscita con fare solenne. Li leggevo, li restituivo in una settimana e tornavo a prenderne altri. Wodehouse era molto popolare in India, e credo lo sia tuttora.
E perché?
Se una cosa è divertente, è divertente. Wodehouse ha qualcosa in comune con il senso dell’umorismo indiano. Forse solo la stupidaggine.
Dall’età di dieci anni a quando lasciò la Rugby, a tredici e mezzo, scrisse qualche racconto?
Oltre a "O ver thè Rainbow" non ne ricordo altri, ma ero bravo in inglese. Mi viene in mente una lezione in cui ci chiesero di scrivere un limerick su un argomento a scelta. Se fossimo riusciti a scriverne uno, dovevamo proseguire e scriverne un altro. E durante la lezione, mentre tutti si sforzavano di buttarne giù uno o al massimo due che funzionassero, io ne scrissi all’incirca trentasette. L’insegnante mi accusò di aver imbrogliato. Quel senso di ingiustizia ancora mi pervade. Come avrei potuto imbrogliare? Non avevo mica con me una copia di Edward Lear, né avevo passato i precedenti cinque anni a memorizzare limerick in previsione di questo possibile compito. Pensavo di meritarmi una lode, e invece venni accusato.
Bombay ha molti idiomi. Qual è la sua lingua madre?
L’urdu. L’urdu è letteralmente la lingua di mia madre. Ed è anche la lingua di mio padre. Ma nel Nord dell’India si parla anche l’hindi. In realtà, non parlavamo né l’una né l’altra, piuttosto entrambe. Voglio dire che nel Nord dell’India non si parla una vera e propria lingua. E un miscuglio colloquiale di hindi e urdu chiamato hindustani. Non è una lingua scritta. È la lingua dei film di Bollywood. E a casa parlavamo una specie di miscuglio di hindustani e inglese. Quando andai a studiare in Inghilterra, a tredici anni e mezzo, ero più o meno perfettamente bilingue parlavo bene entrambe. E anche oggi parlo in maniera fluente sia l’hindi che l’urdu, ma non penserei mai di scrivere in queste lingue.
Era un bravo studente?
Meno brillante di quanto pensavo di essere. In generale la Cathedral School di Bombay era una buona scuola. Quando arrivai in Inghilterra non mi sentivo indietro, ma a guardare le pagelle, non andavo poi così bene. Prima della Rugby mio padre, come molti padri indiani, mi dava da fare dei compiti extra. Ricordo che a casa dovevo esercitarmi nei temi e in altre cose, e mi pesava enormemente. Mi faceva fare dei riassunti di Shakespeare. Nelle famiglie indiane non è insolito che i bambini debbano seguire questo tipo di percorso. Alla Rugby, anche a causa dell’infelicità sociale, mi immersi nel lavoro. Non tanto nella scrittura creativa; a quei tempi mi interessava più la storia. Mi assegnarono dei premi per le mie lunghe tesi e per i temi. Considerando il mio amore per la lettura, non so perché non mi fosse mai venuto in mente di studiare letteratura né a scuola né tantomeno all’università. Leggere romanzi non mi sembrava un duro lavoro. In realtà, mio padre riteneva che nemmeno la storia fosse un duro lavoro. Voleva che facessi una scelta sensata a Cambridge studiare economia.
E lei si oppose?
Il dirigente scolastico, il dottore John Broadbent, mi salvò la vita. Andai da lui e gli dissi. Senta, mio padre dice che la storia non è utile e che dovrei sostituirla con l’economia, altrimenti non paga la retta. Broadbent mi rispose, Lascia fare a me. E scrisse una feroce lettera a mio padre: Caro signor Rushdie, suo figlio ci ha informato. Purtroppo riteniamo che non abbia i requisiti per studiare economia a Cambridge, e, per questo motivo, se insiste a fargli rinunciare gli studi di storia, dovrò chiederle di ritirarlo dall’università per lasciare il posto a chi ha i requisiti necessari. Era un momento particolare, perché avevo lasciato il subcontinente per andare a Cambridge nel bel mezzo di una guerra – quella indo-pakistana, nel settembre del 1965. Non riuscivo a telefonare perché le linee erano bloccate dai militari. Le lettere venivano censurate e ci mettevano settimane ad arrivare, e ricevevo notizie di bombardamenti e raid aerei. Ma dopo la lettera di Broadbent mio padre non disse più niente sulla facoltà di economia. Quando mi laureai e gli rivelai che volevo scrivere romanzi ne rimase scioccato. Mi urlò contro: E cosa dirò ai miei amici? Quello che voleva dire era che tutti i figli meno intelligenti dei suoi amici stavano guadagnando grosse cifre con dei lavori seri e io invece sarei diventato uno scrittore squattrinato? Avrebbe perso la faccia perché per lui scrivere poteva essere, al massimo, un hobby. Fortunatamente, ha vissuto abbastanza per vedere che forse non è stata una scelta così stupida.
Lo ha ammesso?
Per qualche motivo non è mai riuscito a elogiare i miei libri; aveva una specie di blocco emotivo. Ero l’unico figlio maschio, e avevamo un rapporto difficile per questo. È morto nell’87, ed erano già usciti I figli della mezzanotte e La vergogna, ma non versi satanici, e non ha mai detto una parola gentile sui miei romanzi fino a una settimana o due prima di morire. Eppure li aveva letti cento volte. Forse li conosceva meglio di me. I figli della mezzanotte lo infastidiva perché pensava che con il personaggio del padre avessi voluto fargli il verso. Con il mio modo da giovane incazzoso gli dissi che le cose negative le avevo addirittura omesse. Mio padre aveva studiato letteratura a Cambridge e mi aspettavo da parte sua una reazione sofisticata al libro, reazione che invece arrivò da mia madre. Avevo sempre pensato che se c’era qualcuno che avrebbe potuto preoccuparsi che la famiglia del libro potesse essere la rappresentazione della mia era proprio lei. Invece capì immediatamente che si trattava di finzione. Mio padre ci mise un po’ a perdonarmi, come diceva lui. Ovviamente, mi arrabbiai di più per il fatto di dover essere perdonato che non per la sua incazzatura.
Ma, come ha detto, non ha fatto in tempo a leggere I versi satanici.
Sono assolutamente sicuro che mio padre sarebbe stato al cinquecento percento dalla mia parte. Era uno studioso dell’Islam, aveva una profonda conoscenza della vita del Profeta e delle origini dell’Islam, del modo in cui era stato rivelato il Corano e via dicendo, ma non aveva alcuna fede religiosa. Andavamo in moschea una volta all’anno. Anche mentre stava morendo, non ci fu nemmeno un istante in cui cercò conforto nella religione o invocò Dio, niente. Non ha mai avuto l’illusione che la morte fosse altro dalla fine. Era impressionante. Che io abbia deciso di studiare le origini dell’Islam all’università non è un caso. È dovuto in parte all’esempio che ho avuto in casa. Lui avrebbe capito che quello che ho fatto in quel libro era un’indagine personale non-religiosa della natura della rivelazione, prendendo l’Islam come esempio perché era quello che più conoscevo.
Dove è andato dopo Cambridge?
All’inizio ho provato a fare l’attore. All’università avevo recitato molto e pensavo che mi sarebbe piaciuto continuare, soprattutto mentre cercavo di diventare uno scrittore. Non è stato affatto facile iniziare. Vivevo nella soffitta di una casa che dividevo con quattro amici a Londra, mi gingillavo. Non sapevo cosa stavo facendo. Volevo scrivere. Avevo un lato molto inquieto, che mi rendeva una persona un po’ nervosa all’epoca. C’erano degli amici del college che si trovavano a Londra, facevano parte di un teatro d’avanguardia. E ci lavoravano molti scrittori interessanti – David Hare, Howard Brenton, Trevor Griffiths — anche alcuni attori molto bravi. Stando con loro ho capito di non essere abbastanza bravo, non quanto loro. Un bravo attore ti aiuta a sembrare meglio di quello che sei in scena, ma sai che è lui il responsabile, non tu.
Un po’ per questo, e un po’ perché non avevo soldi, decisi di dedicarmi ad altro. Uno degli amici di teatro con cui avevo frequentato Cambridge, uno scrittore di nome Dusty Hughes, aveva ottenuto un lavoro all’agenzia pubblicitaria J. Walter Thompson. Di colpo si era trovato ad avere un ufficio che si affacciava su Berkeley Square e a fare servizi fotografici che reclamizzavano uno shampoo con delle supermodelle. Guadagnava parecchio. Aveva una macchina. E mi disse, È questo che dovresti fare, Salman, è così facile. Mi propose per un test d’ammissione alla J. Walter Thompson, che fallii.
Ricordo una domanda: immaginate di incontrare un marziano che parla inglese ma non sa cosa sia il pane – avete cento parole per spiegargli come farsi un toast. In Company Limited, un film di Satyajit Ray, un milione di persone fanno domanda per lo stesso lavoro. Il protagonista è uno di quel milione, e gli intervistatori, non sapendo come scegliere fra tutte quelle persone, cominciano a chiedere cose sempre più folli. La domanda che alla fine vanifica ogni sua possibilità di ottenere il lavoro è: quanto pesa la luna? La domanda del marziano era una cosa simile.
Alla fine ottenni un lavoro in un’agenzia molto più piccola, la Sharp McManus, su Albemarle Street. Era il mio primo lavoro, e non avevo idea di come affrontarlo. Mi affidarono un progetto per un sigaro economico della Player. Era un’offerta natalizia; una scatola piena di quei pacchetti con sorpresa che producono un rumore come di scoppio quando vengono aperti — le tipiche bomboniere delle feste inglesi – e dentro ogni pacchetto un piccolo cilindro che custodiva un sigaro all’interno. Dovevo scrivere un testo per questa offerta, e avevo il vuoto. Così, andai dal direttore creativo, Oliver Knox — che tempo dopo scrisse anche lui tre o quattro romanzi — e gli dissi, Non so cosa fare. E lui rispose subito. Oh — sei idee esplosive della Player per un Natale col botto. Questa è stata la mia formazione nella pubblicità.
Nel frattempo si dedicava anche alla scrittura?
Stavo cominciando. Con scarsissimi risultati. Non avevo trovato la giusta direzione come scrittore. Scrivevo cose che non facevo leggere a nessuno, stralci che poi ho messo insieme nel mio primo lavoro, un testo della lunghezza di un romanzo che non è piaciuto a nessuno. Prima di Grimus, il romanzo che poi ho pubblicato. Ho tentato di scrivere il libro usando il flusso di coscienza di Joyce quando invece era necessario un linguaggio più diretto e da thriller. Si intitolava The Book of the Peer. In urdu un "peer" è un santo o un sant’uomo. Era la storia di un’imprecisata città dell’Oriente in cui un popolare sant’uomo viene sostenuto da un ricco e da un generale che decidono di metterlo al potere per poterne disporre secondo i loro scopi; ma quando lo fanno scoprono, in realtà, che è molto più potente, anche di loro stessi. In un certo senso è stato profetico, se pensiamo a quello che è successo dopo con Khomeini, e al modo in cui il radicalismo islamico si è radicato come conseguenza del fatto che la gente credeva potesse utilizzarlo come facciata. Purtroppo il libro è quasi illeggibile per come è scritto. Nessuno – nemmeno i più ben disposti nei miei riguardi – ha voluto averci niente a che fare. Lo misi da parte e continuai col mio lavoro nell’agenzia pubblicitaria.
Pare che ogni scrittore conservi nel cassetto un romanzo da buttare.
Io ne ho tre. Fino a quando non mi sono messo a scrivere I figli della mezzanotte, più o meno intorno alla fine del ’75, inizi del ’76, ho avuto un periodo infruttuoso che non aveva molto a che vedere con i problemi tecnici. Finché non sai chi sei non puoi scrivere. E, dal momento che la mia vita era stata un miscuglio di India, Inghilterra e Pakistan, non avevo ancora una vera coscienza di me stesso. La conseguenza era una scrittura da buttare, vera spazzatura — a volte spazzatura intelligente, ma sempre spazzatura. Credo che valga anche per Grimus. Non riesco a sentirlo come un libro mio. O solo a tratti. Mi vorrei nascondere dietro i mobili. Ma eccomi qui. Il libro è in stampa, e non l’ho mai fatto ritirare. Se fai l’errore di pubblicare qualcosa poi lo devi lasciare dov’è. Ha i suoi lettori, e c’è perfino chi ne ha detto cose positive, con mio grande sconcerto.
Ma uno dei romanzi che ho abbandonato — "The Antagonist", un libro orrendo sub-pynchoniano ambientato a Londra — conteneva il germe di quello che poi è diventato I figli della mezzanotte, un personaggio marginale chiamato Saleem Sinai nato nel momento dell’indipendenza indiana. È l’unica cosa che ho tenuto. Ho buttato un anno di lavoro ma quel germe è rimasto.
Dopo le critiche per Grimus, ho rivisto tutto. Pensavo, Ok, devo scrivere di qualcosa per cui tenga veramente. Avevo sempre paura. Insomma, credevo che la mia carriera di scrittore non stesse andando da nessuna parte. Nel frattempo, molte persone di talento della mia generazione avevano trovato la loro strada di scrittori molto prima di me. Era come se mi stessero sfrecciando accanto. Martin Amis, Ian McEwan, Julian Barnes, William Boyd, Kazuo Ishiguro, Timothy Mo, Angela Carter, Bruce Chatwin — per elencarne solo alcuni. È stato un momento straordinario per la letteratura inglese, e io ero rimasto al nastro di partenza, senza sapere da che parte correre. Questo non rendeva certo le cose più facili.
Cosa le ha fatto scattare Saleem Sinai?
Avevo sempre voluto scrivere qualcosa che provenisse dalla mia esperienza di bambino a Bombay. Mancavo dall’India da molto tempo e cominciavo a temere che il legame si stesse consumando. L’infanzia — era questo l’impulso, prima di sapere la storia e le dimensioni che avrebbe preso. Ma se hai intenzione di far nascere il bambino contemporaneamente al paese, rendendoli in un certo senso gemelli, devi raccontare la vicenda di entrambi. Così ho dovuto affrontare la cosa da un punto di vista storico. Uno dei motivi per cui mi ci sono voluti cinque anni per scriverlo è che non sapevo come scriverlo. Una prima versione cominciava con la frase, "La maggior parte di ciò che conta nella nostra vita avviene in nostra assenza". Volevo dire che i bambini non vengono al mondo nudi, ma si portano dietro, accumulata dalla famiglia e dal proprio mondo, il peso della storia. Ma era troppo tolstojiano. Ho pensato. Se c’è qualcosa a cui questo libro non deve somigliare, è proprio ad Anna Karenina. La frase c’è ancora nel libro, da qualche parte, ma l’ho sepolta.
La terza persona non funzionava, e decisi di provare con la prima, così un giorno scrissi più o meno esattamente quello che oggi è la prima pagina dei Figli della mezzanotte. Questa voce di Saleem semplicemente arrivò: piuttosto assennata, piena di ogni tipo di mistero, divertente ma anche ridicola per certi aspetti. Ero elettrizzato da quello che usciva dalla macchina da scrivere. Uno di quei momenti in cui ti sembra che la scrittura venga a te, piuttosto che da te. Riuscivo a portare dentro tutto quello che faceva parte della cultura indiana: dalle antiche tradizioni alla forma orale della narrazione, fino, soprattutto, al rumore e alla musica della città. Il primo paragrafo mi fece vedere il libro. Mi lasciai guidare da Saleem. Mentre il romanzo si sviluppava e Saleem cresceva, avevo momenti di frustrazione. Perché crescendo, lui diventava sempre più passivo. Tentavo di costringerlo a essere più attivo, a prendere in mano la situazione – ma non funzionava. Più avanti, la gente pensò che il libro fosse autobiografico, ma ho sempre pensato che Saleem non mi assomigliasse, perché io e lui c’eravamo messi a combattere, e io quella lotta l’avevo persa.
Ha scritto altri libri in cui la voce le è venuta così all’improvviso?
Ogni libro deve insegnarti il modo in cui dovrai scriverlo, ma spesso c’è un momento importante per la scoperta. Una cosa simile mi è successa soltanto per Harun e il Mar delle Storie, per la stesura del quale dovevo affrontare la questione del tono della voce, come trovare il giusto equilibrio in modo che sia i bambini sia gli adulti potessero trarne piacere. Un giorno, dopo alcune false partenze, scrissi quello che oggi è l’incipit. E pensai. Oh, ecco, si fa così: "Una volta, nel paese di Alifbay...". Dovevo trovare la formula del "c’era una volta". Perché nella favole vengono utilizzate parole molto semplici ma la storia non lo è affatto. Prendiamo le favole indiane, ad esempio, come la raccolta di Panchatantra, oppure quelle di Esopo, ma anche le più moderne, quelle dei libri di Calvino. Si dice, C’era una volta un gatto che aveva degli stivali alti fino al ginocchio e una spada. Parole semplici, di poche sillabe, ma che creano un’immagine molto strana.
Joseph Heller ha detto che ogni tanto trovava una frase che conteneva un altro centinaio di frasi. Gli successe quando stava cominciando Comma 22, mentre scriveva di Yossarian che si innamora del cappellano. Quella frase gli suggerì dove doveva andare il resto del romanzo. Mi è successa la stessa cosa con l’incipit dei Figli della mezzanotte e di Harun. Ho avuto quel momento di illuminazione. Ma per I versi satanici ho dovuto scrivere un centinaio di pagine prima di arrivare alla scena, che oggi costituisce l’inizio del romanzo, delle persone che precipitano dal cielo. Dopo averla scritta ho pensato, Ma questa cosa ci fa qui? Non è questo il suo posto.
Ed ecco il suo incipit.
È curiosa, quella scena. Quando il libro uscì, erano in molti a odiarlo profondamente. Cominciò così la battuta sul club pagina quindici dei lettori di Rushdie – sì, insomma, di gente che non riesce ad andare oltre pagina quindici. Io pensavo fosse un buon inizio e continuo a pensarlo. Succede quasi sempre di scoprire che il libro al quale stai lavorando non è esattamente quello che ti eri prefissato di scrivere. Appena però ne hai preso coscienza, hai risolto il problema del romanzo. Quando ho scritto Furia il titolo cambiava ogni giorno, e per molto tempo non ero sicuro di che cosa avrebbe parlato il libro. Di bambole o di New York, di violenza o di divorzio? Ogni giorno mi svegliavo con un’idea leggermente diversa. Finché non ho deciso il titolo e ho capito attorno a cosa avrebbe ruotato l’idea centrale. Con I figli della mezzanotte è successo lo stesso. All’inizio non sapevo come intitolarlo. Quando mi misi a scriverlo, sulla copertina lasciai solo "Sinai". Poi, a un certo punto ho pensato, Se non so il titolo, non so neanche di cosa parlerà il libro. Smisi di scrivere il testo e cominciai a buttare giù i titoli. Dopo essermi trastullato per giorni, finii per averne due: "Children of Midnight" e "Midnight’s Children". Continuavo a batterli a macchina come un pazzo, uno dopo l’altro, e poi ancora e ancora. Alla fine, dopo un giorno passato a riscrivere incessantemente questi due titoli, pensai all’improvviso, "Children of Midnight", che titolo noioso, "Midnight’s Children", un titolo grandioso. Ed ecco che mi diede il centro del romanzo. Parlava di quei figli. Con I versi satanici non sapevo neanche se sarebbe stato un libro solo, o tre diversi. Mi c’è voluto del tempo per trovare il coraggio di decidermi per un unico libro. Anche se sarebbe stato il romanzo delle difformità, mi resi conto che era proprio quello che volevo scrivere. Evidentemente mi sentivo molto sicuro di me. Erano usciti due libri di grande successo, e la cosa mi aveva dato l’energia, pensavo di poter fare qualunque cosa.
Il successo e la fatwa hanno dato vita quasi a un culto di Rushdie. È una cosa che si sente addosso quando si mette alla scrivania?
No. Gli scrittori sono bravi a crearsi quello spazio di silenzio. Quando sono nella mia stanza con la porta chiusa, non conta più nulla se non quello contro cui sto lottando. Scrivere è difficilissimo, esige molto da te, e per la maggior parte del tempo ti fa sentire stupido. Penso sempre che si cominci dalla parte stupida del libro, per finire poi, se hai fortuna, con quella intelligente. Quando inizi, ti senti inadeguato al compito. Non lo capisci nemmeno, il compito. È così difficile che non ti preoccupi proprio del fatto di essere famoso. Sembrano solo stronzate che succedono là fuori.
La cosa più difficile con cui bisogna fare i conti è l’ostilità della stampa. È stata una strana sensazione essere rappresentato da qualcuno della stampa inglese come una persona antipatica. Non so bene cosa io avessi fatto per meritarmelo. Ritengo che nel mondo letterario ci siano dei cicli, c’è il turno dell’elogio e quello delle bastonate. Era evidente che quando uscì Furia era il mio turno delle bastonate. Ho avuto l’impressione che gran parte delle critiche non riguardassero affatto il libro — riguardavano me. Era curioso che tante recensioni di Furia si aprissero con la foto di me con la mia fidanzata di allora, oggi mia moglie. Pensai, Cosa c’entra? Quando fate una recensione su John Updike gli piazzate accanto la moglie prima del pezzo? O la moglie di Saul Bellow?
In Furia, Solanka è nato a Bombay, ha studiato a Cambridge, e vive a Manhattan. Forse è per questo che i critici hanno pensato che parlasse della sua vita a New York.
Sì, stavo dicendo, Adesso mi trovo qui. Faceva paura scrivere di un tempo così vicino al presente, delle mie esperienze, ma furono scelte intenzionali. Volevo scrivere del mio arrivo. Non volevo fingere di essere Don DeLillo o Philip Roth o chiunque altro cresciuto in queste strade. Volevo parlare della New York della gente che viene qui e si fa una nuova vita, della facilità con cui le storie di tutto il mondo possono diventare le storie di New York. Solo per il fatto di esserci, la tua storia diventa una delle tante storie della città. Londra non funziona così. Sì, è vero che a Londra c’è una cultura di immigrati che arricchisce e si aggiunge a quella originaria, ma Londra ha una sua narrazione dominante. Non ce n’è una paragonabile a New York; ci sono solo i racconti collettivi di tutti quelli che arrivano. È per questo che mi attrae.
Solanka è un rude bastardo, invece. In Solanka ho riversato tutta l’irritazione che il mondo nutre verso l’America, e poi ho fatto in modo che si trovasse nel bel mezzo di un carnevale. Dal momento che amo vivere a New York, mi interessa ugualmente sia la baldoria sia l’irritazione. E vale anche per Solanka — magari è vero che sfotte parecchio l’America, ma è in America che è venuto a cercare la salvezza. Ho trovato sciocco che si leggesse il libro pensando che parlasse di me. Non è il mio diario. Puoi pure partire da un punto vicino alla tua vita, ma è sempre il punto di partenza. La domanda è, Qual è il viaggio? Il viaggio è l’opera d’arte. Dov’è il punto di arrivo?
Lei ha vissuto in — e fra — diverse parti del mondo. Da dove dice di venire?
Ho sempre avuto più affinità con i luoghi che con le nazioni. Suppongo che se me lo stesse chiedendo formalmente, potrei dirle di considerarmi ancora un cittadino britannico di origini indiane. Ma mi considero anche un cittadino di New York e di Londra. Le ritengo definizioni più esatte di quelle che compaiono sul passaporto o alla voce luogo di nascita.
Pensa che un giorno scriverà la sua autobiografia?
Prima della fatwa non avevo mai pensato che la mia vita fosse sufficientemente interessante. Scrivevo i miei romanzi e speravo fossero interessanti, ma a chi importa della vita dello scrittore? Poi mi è capitata questa cosa insolita e mi sono ritrovato a tenere un diario occasionale solo per ricordarmi quello mi stava succedendo. Quando tutto è tornato alla normalità, ho pensato che un’autobiografia sarebbe stata utile per chiudere la questione. Avrebbero smesso di farmi domande al riguardo. Ma poi ho realizzato che mi sarebbero serviti un anno per le ricerche, un anno per scrivere e un anno per parlarne. Praticamente una condanna di altri tre o quattro anni per quella cosa dalla quale mi ero appena liberato. E non avrei potuto sopportare l’idea.
La fatwa ha minato la fiducia che aveva in se stesso come scrittore?
Mi ha fatto vacillare molto, sì. Dopodiché, ho preso un bel respiro e mi sono dedicato di nuovo alla mia arte, pensando, Beh, all’inferno questa faccenda. Eppure all’inizio il pensiero fu: Mi ci sono voluti più di cinque anni per scrivere questo libro. Cinque anni di vita dedicati all’impegno assoluto per produrre il miglior libro possibile. Io credo che gli scrittori, attraverso l’atto della scrittura, si rendano altruisti. Loro non pensano ai soldi o alla fama. Pensano a scrivere al massimo delle loro potenzialità dando vita alla pagina migliore, alla frase migliore, rendendo interessante la persona e sviluppando il tema. Lo scrittore pensa a come fare il suo compito nel modo giusto. L’atto della scrittura è così difficile e richiede talmente tanto che le reazioni che ne conseguono — le vendite e cose del genere — non hanno alcuna importanza. E così, avevo trascorso in questo modo cinque anni della mia vita per ottenere diffamazione su scala mondiale e una minaccia di morte. E non era tanto il rischio fisico quanto il disprezzo intellettuale, la denigrazione della serietà del libro, l’idea che io fossi un individuo senza valore che aveva fatto una cosa senza valore e che, sfortunatamente, ci fossero un certo numero di compagni viaggiatori occidentali che concordavano. In quel momento pensi, Che cazzo lo faccio a fare? Non ne vale la pena. Passare cinque anni della tua vita ricercando una serietà assoluta, e poi essere accusato di frivolezza, egoismo e opportunismo: Lo ha fatto di proposito. Certo che l’ho fatto di proposito! Come si possono trascorrere cinque anni della propria esistenza per una cosa che non hai programmato?
Quando dicevano che lo aveva fatto di proposito intendevano affermare che il suo scopo era quello di provocare, che se l’era andata a cercare. Mentre scriveva il libro, era consapevole che il suo approccio secolare all’Islam potesse risultare provocatorio?
Sapevo che il mio libro non incontrava le simpatie dei mullah radicali.
C’è una bella differenza, pero, fra questo e la fatwa.
Beh, questa è una cosa che nessuno avrebbe potuto prevedere. Nessuno. Non era mai successo prima. Non mi ero posto il problema. In più ho scoperto, soltanto tempo dopo, che gli iraniani avevano fatto una traduzione in farsi non autorizzata del mio romanzo precedente, La vergogna, che aveva vinto un importante premio come miglior romanzo straniero dell’anno. Questo significava che quando I versi satanici uscì, anche i librai iraniani pensarono che io fossi un grande, dato che gli stessi mullah avevano approvato il mio libro precedente. Quindi, fu una sorpresa anche per la gente in Iran oltre che per il resto del mondo.
Ma all’epoca l’opinione comune era che lei avrebbe dovuto aspettarsi in qualche modo quello che poi è accaduto.
Quando conclusi il libro lo feci leggere solo a uno o due lettori, fra i quali Edward Said. Lui si rese conto che avevo sfidato queste persone e mi chiese se ne fossi preoccupato. E in quei giorni innocenti dissi di no. Perché avrebbero dovuto irritarsi? È un romanzo letterario di cinquecento cinquanta pagine in inglese. L’idea che potesse anche solo sfiorare il loro campo visivo mi sembrava improbabile, e sinceramente non mi importava.
Perché la letteratura non dovrebbe essere provocatoria? Lo è da sempre. E quest’idea che in qualche modo la persona sotto attacco sia responsabile dell’attacco è uno spostamento della colpa – cosa che sembrava facile da fare nel 1989. Di recente, in Inghilterra, dopo gli attentati di Al Qaeda, sono usciti diversi pezzi sui giornali in cui si sosteneva che tutto fosse cominciato con I versi satanici, e oggi c’è una solidarietà totale per quello che mi è accaduto allora. Oggi nessuno dice che era colpa mia e che io l’abbia fatto di proposito perché la gente ha una maggiore conoscenza della natura dell’Islam più radicale.
Ovvero — oggi siamo tutti Salman Rushdie?
Già. La stampa inglese è piena di frasi del genere, mentre nel 1989 l’opinione diffusa su tutti i giornali era che io fossi un istigatore che andava salvato da quelli della sua stessa specie da un governo a cui si era opposto – il governo Thatcher. E poi quando decisi di farmi una vita a New York, diedi prova della mia ingratitudine. Come se, per dimostrare la mia gratitudine, dovessi vivere il resto della vita a Londra.
Ma stava dicendo che nel 1989, proprio in seguito alla. fatwa, si chiese se la letteratura valesse lo sforzo.
Per molti mesi mi chiesi se volevo ancora fare lo scrittore. Non perché potesse essere pericoloso. Ma perché ero disgustato da quello che mi era accaduto, e non sapevo come avrei continuato se era quello il modo in cui veniva trattato il mio lavoro. Pensai, Beh, potrei fare il conducente d’autobus. Qualunque cosa era meglio di questo. Ho detto spesso – ed è vero — che credo che la cosa che mi abbia salvato come scrittore sia stata la promessa di un libro fatta a mio figlio. Anche la sua vita subì un forte deragliamento. Non solo la mia. Ci sono tante cose che non ho potuto fare insieme a lui, e altre che erano difficili da fare, questa era una promessa che quindi dovevo mantenere. Mi fece tornare a essere uno scrittore. Quando trovai la voce per Harun e il mar delle storie ero di nuovo felice. La prima volta che mi sentivo felice dopo il febbraio del 1989. Mi restituì il senso del perché mi piaceva il mio lavoro. Poi pensai. Non posso continuare, continuerò.
In effetti ricordo che è stato proprio in quel periodo che ho letto la trilogia di Beckett. L’innominabile è difficile quasi quanto il Finnegans Wake, ma quello stoicismo, quella grandiosa frase finale, ha davvero un valore. Mi ritrovai a leggere gli scrittori dell’Illuminismo — Voltaire rendendomi conto di non essere l’unico scrittore ad aver avuto vita dura. Sembrerà romantico in modo ridicolo, ma la storia della letteratura mi ha rafforzato. Ovidio in esilio, Dostoevskij davanti al plotone d’esecuzione, Genet in prigione — e guardiamo cos’hanno scritto: Le metamorfosi. Delitto e castigo, tutto quello che Genet scrisse in prigione. Pensai, Beh, se loro possono, ci proverò anch’io. Mi divenne più facile sapere quale fosse il mio posto nel mondo, e fu un bene. Mi liberò di alcune perplessità.
Ma continuo a non sapere come reagirà la gente di fronte a un libro. Non ne ho proprio idea. Io pensavo che I versi satanici fosse il mio romanzo meno politico. Forse oggi comincia a essere vero. Dopo tutto questo caos, finalmente il libro inizia ad avere una vita letteraria — soprattutto nel mondo accademico. Non viene letto solo nei corsi di religioni comparate o in quelli di politica mediorientale. Ricevo lettere in cui non si cita nemmeno la questione islamica. Lettere di persone che sono state colpite dall’aspetto umoristico del romanzo, una delle cose di cui nessuno ha mai parlato – come può essere divertente quando ha subito una sorte così poco divertente? – e penso: Finalmente! Da un certo punto di vista, il fatto che il libro sia riuscito in qualche modo a sopravvivere e che possa finalmente dirsi un libro e non più una patata bollente, uno scandalo diventato slogan, non vanifica quella battaglia. Finalmente è un romanzo.
Nei Versi satanici e nei Figli della mezzanotte, così come in alcuni dei suoi saggi, lei attribuisce a se stesso e ai suoi personaggi un concetto: il buco a forma di Dio. Queste parole hanno ancora un senso per lei?
Negli esseri umani si avverte il bisogno di qualcosa di immateriale, che viene definito spirituale. Tutti noi sentiamo il bisogno che esista altro oltre alla nostra presenza fisica nel mondo. Abbiamo bisogno dell’esaltazione. Se non crediamo in Dio abbiamo comunque bisogno di sentirci esaltati di tanto in tanto e consolati, e abbiamo bisogno di una spiegazione. E abbiamo bisogno di un altro elemento che la religione ci propone, la comunità, il senso di condivisione, un linguaggio comune, una struttura metaforica comune, un modo di spiegarci agli altri. Una traccia. Questo è ciò che la religione offre a chi è in grado di riceverlo. Dunque, se non hai una religione, tutti questi elementi diventano delle assenze che devi colmare cercando altrove. Il buco è questo. Le due fondamentali domande della religione sono da dove veniamo e come dobbiamo vivere. Da scrittore mi interessano tutte le finzioni che ci siamo inventati come razza per spiegare le nostre origini, ma non mi interessano come spiegazioni. Non vado dai preti per trovare le risposte a quelle domande. Quando lo facciamo, guardate cosa accade. Khomeini. I Talebani. L’Inquisizione.
Quindi dove va?
Praticamente da qualunque altra parte. La domanda di come dobbiamo vivere rimane senza risposta. È un dibattito aperto. In una società libera discutiamo di come vivere, ed è così che viviamo. La discussione è la risposta, e io voglio partecipare a questa discussione. È la democrazia: il sistema meno negativo che abbiamo a disposizione. Il potere esplicativo della religione è ciò di cui più facilmente si può fare a meno. Il resto — la consolazione, l’esaltazione, la comunità — è più difficile. Il luogo in cui sono andato nella mia vita per appagarla è la letteratura, e non solo la letteratura, ma il cinema, la musica, la pittura, le arti in generale. E poi c’è l’amore. L’amore di tua moglie, l’amore dei figli, l’amore dei genitori, l’amore degli amici. Investo molto nell’idea dell’amicizia. Da sempre. Soprattutto perché la mia vita è stata strappata dal luogo di origine e trascinata in giro per il mondo. I rapporti con i miei familiari non sono stati interrotti, ma messi in difficoltà in molti modi. Gli amici rappresentano la famiglia che ti costruisci. Io vivo con passione fra le persone con cui scelgo di vivere. Mi dà il senso di comunità e di essere qualcosa più di una semplice macchina.
Sono cresciuto in un paese in cui quasi tutti hanno una profonda fede religiosa — inclusa l’intellighenzia cittadina — e dove la gente non pensa alla religione come a qualcosa di astratto, ma crede che fare le offerte agli dei abbia un impatto diretto sulla propria felicità e riuscita nel mondo. È un paese in cui centinaia di milioni di persone sono convinte che gli dei intervengano direttamente nella loro vita quotidiana, e che quindi il loro rapporto con le divinità sia una questione di tutti i giorni. Quello è anche il mio mondo; devo prenderlo seriamente. Inoltre, è importante entrare nella testa di chi pensa in maniera diversa, e far sì che quel suo modo di pensare determini l’esito delle sue storie.
Potrebbe parlarci di come lavora quando si mette seduto dietro alla scrivania?
A leggere quello che dicono i giornali si potrebbe pensare che l’unica mia attività sia andare alle feste. In realtà, quello che faccio per ore intere, ogni giorno della mia vita, è sedermi in una stanza da solo. Quando mi fermo, a fine giornata, cerco sempre di avere un’idea dalla quale riprendere. Se ci riesco, diventa più facile ricominciare perché ho in mente il primo periodo, la prima frase. O almeno so dove andarla a cercare. Al principio, tutto va avanti molto lentamente, e ci sono molte false partenze. Scrivo un paragrafo, e poi magari il giorno dopo penso, No, non mi piace per niente, oppure. Non so dove possa andare, ma di certo non qui. Spesso mi ci vogliono mesi per prendere il via. Quando ero più giovane, scrivevo con molta più facilità di oggi, ma ciò che scrivevo richiedeva più fatica nella riscrittura. Ora procedo molto più lentamente ma gran parte della revisione la faccio mentre avanzo. Mi rendo conto che dopo averci lavorato un bel po’, non c’è bisogno di quella revisione che facevo un tempo. Le cose sono cambiate. Cerco qualcosa che mi dia una spinta, e se ci riesco, butto giù un centinaio di parole, e così arrivo a fine giornata.
Quando si sveglia al mattino la prima cosa che fa è mettersi a scrivere?
Sì, senz’altro. Non ho strani rituali segreti. Mi alzo, vado al piano di sotto e scrivo. Ho capito che devo dedicare alla scrittura tutte le energie che ho all’inizio della giornata, quindi prima di leggere il giornale, prima di aprire la posta, prima di telefonare, spesso anche prima di farmi la doccia, mi metto alla scrivania in pigiama. Mi costringo a non alzarmi finché non ho prodotto qualcosa che possa definire lavoro. Se esco a cena con gli amici, quando rientro, prima di andare a dormire mi rimetto al tavolo e leggo quello che ho scritto quel giorno. Quando mi sveglio al mattino, la prima cosa che faccio è leggere il lavoro del giorno prima. Non importa che giudizio straordinario ti sia fatto di ciò che hai scritto, è chiaro che ci sarà sempre qualcosa che hai sottovalutato, qualche piccola cosa da aggiungere o togliere – e devo dire, grazie a Dio che esistono i portatili perché rendono tutto più facile. Il processo di rileggere criticamente quello che ho fatto il giorno prima è un modo per rientrare nel libro. Ma a volte so esattamente cosa devo fare, e quando mi siedo mi metto a lavorare subito a quello. Non c’è una regola.
Legge qualcosa in particolare che la aiuta a procedere nella scrittura?
Leggo poesia. Quando si scrive un romanzo, è facile lasciare spazio a un po’ di pigrizia. La poesia è un modo per ricordarmi di fare attenzione alla lingua. Ultimamente ho letto molte cose di Czeslaw Milosz. E poi, spostandomi sul versante opposto, ho letto la meravigliosa autobiografia di Bob Dylan, Chronicles. È scritta benissimo con momenti di scrittura sciattissima, parole usate male — come per esempio, evidentially al posto di evidently. Incredulously invece di incredibly. Credo che l’editore – o qualcuno — abbia pensato che rientrasse nella sua Bobbaggine.
Evidentially.
Mi piace la frase di Randall Jarrell: "Un romanzo è una narrativa in prosa di un certa ampiezza con qualcosa che non va". Credo sia così. Quando si scrivono cento, centocinquantamila, duecentomila parole, la perfezione è pura fantasia. Se sei Shakespeare e scrivi sedici righe, allora puoi creare una cosa perfetta. Ma ho il sospetto che se anche Shakespeare avesse scritto un romanzo, ci sarebbero state delle imperfezioni. Nelle sue commedie ci sono imperfezioni — ci sono delle parti noiose, se ci è permesso dirlo. Se leggi per amore della lettura, cerchi quello che ti dà, non quello che non ti dà. Se quello che cerchi è in quantità sufficiente, un passo falso sarà perdonato. Succede anche con la critica letteraria. Ci sono critici che affrontano l’opera in base a ciò che possono trarne, e altri che la affrontano in base a ciò che possono trovarci di sbagliato. Detto francamente, si può trovare qualcosa che non va in ogni libro che si prende in mano, non importa quanto bello sia. C’è una parte meravigliosa del Pappagallo di Flaubert di Julian Barnes in cui l’autore, nel capitolo intitolato "Gli occhi di Emma Bovary", ci fa notare che gli occhi della donna cambiano colore quattro o cinque volte nel romanzo.
Perché ha dato in Shalimar il clown il nome di Max Ophuls al suo personaggio principale? Per il regista cinematografico?
Mi piaceva il nome, tutto qui. La cosa interessante del confine franco-tedesco vicino a Strasburgo è il fatto che la storia lo abbia spostato in continuazione, in modo che la città fosse a volte tedesca, a volte francese, e volevo che Max avesse un nome che fosse sia francese che tedesco, perché in quel nome ci fosse la storia di Strasburgo.
Ma perché non inventarne uno?
Non lo so. I nomi ti rimangono dentro. Ho continuato a pensare a lui in quei termini, e alla fine mi sono dimenticato del regista.
Riesce a leggere narrativa mentre sta lavorando a un romanzo?
Non moltissima. O almeno non molta narrativa contemporanea. Leggo meno narrativa contemporanea di un tempo e leggo più classici. Pare ci sia un motivo se sono rimasti. Mentre scrivevo Furia, per esempio, leggevo Balzac, in particolare Eugénie Grandet. L’incipit di Eugénie Grandet usa una tecnica simile a quella dello zoom cinematografico. Comincia con un campo molto ampio — qui c’è la città, e questi gli edifici, la situazione economica — e gradualmente si focalizza sul quartiere, e all’interno del quartiere su una casa piuttosto sontuosa, e all’interno di questa casa su una stanza, e dentro la stanza su una donna costretta su una sedia. Nel momento in cui scopriamo come si chiama, è già imprigionata in una classe, in una situazione sociale, in una comunità, in una città. Ora che la sua storia comincia a svelarsi, ci rendiamo conto che ci scontreremo contro tutte queste cose. È come un uccello in gabbia. Pensai, Bello. È un modo molto chiaro di procedere.
Va spesso al cinema?
Molto spesso, sì. Quasi tutto quello che penso sulla scrittura si è formato in gioventù, un periodo della mia vita passato a guardare la straordinaria esplosione del cinema mondiale negli anni Sessanta e Settanta. Credo di aver imparato tanto da Buñuel, Bergman, Godard e Fellini quanto dai libri. È difficile spiegare oggi come ci si sentiva allora quando il film in uscita della settimana era 8 di Fellini, il nuovo film di Godard, il nuovo Bergman, poi il nuovo film di Satyajit Ray, poi Kurosawa. Erano cineasti che costruivano consapevolmente opere coerenti, in cui i temi venivano esplorati fino a esaurirli. C’era dietro un progetto artistico serio. Oggi, sia per quanto riguarda i libri che per il cinema, siamo diventati una cultura molto più pigra. I registi vengono comprati subito. Basta un film interessante ed entri nel paradiso dei soldi. Non esiste più l’idea di costruire un’opera con una coerenza intellettuale e artistica. Non interessa a nessuno.
Cos’ha imparato guardando questi film?
Alcune cose tecniche – per esempio, dalla libertà della tecnica della Nouvelle Vague, una conseguente liberazione nel linguaggio. La forma classica del montaggio di un film è campo lungo, campo medio, primo piano, campo medio, campo lungo, campo medio, primo piano, campo medio, campo lungo — una specie di danza. Due passi avanti due passi indietro due passi avanti due passi indietro. Può risultare incredibilmente noioso. Quando guardi i film degli anni Cinquanta tagliati in quel modo, ti sembra che il montaggio sia stato fatto seguendo delle regole. E l’uso che faceva Godard del jump-cut ti faceva saltare sulla poltrona. Partire dal campo totale – bum – nella faccia di Belmondo e Anna Karenina. Uno dei motivi per i quali, nei film di Godard, un personaggio si rivolge direttamente in macchina da presa è...
...perché non avevano abbastanza soldi per riprendere l’interà scena.
Esatto. Ma l’idea mi piaceva, l’interruzione dell’inquadratura, il fatto che molti di questi film erano sia divertenti sia seri. In Missione Alphaville, un film molto nero, c’è questa meravigliosa scena in cui Lemmy Caution, lo scalcagnato detective privato, arriva all’albergaccio dove scopre che tutti i supereroi sono morti. "Et Barman?" "Il est mort." "Superman?" "Mort." "Flash Gordon?" "Mort." Esilarante. E mi piace molto come Buñuel utilizza il surrealismo, senza togliere al film il senso di realtà. Nel Fascino discreto della borghesia la gente si siede intorno a un tavolo sui water ma va a mangiare in silenzio in piccole stanzette. E mi piacciono i due Bergman — quello mistico del Settimo sigillo e quello intimo e psicologico. E Kurosawa che ci porta in una cultura completamente chiusa, il mondo dei samurai. Non credo mi piaccia il pensiero samurai, eppure non si può fare a meno di amare Toshiro Mifune quando si gratta – sei immediatamente dalla sua parte. È una delle cose che vuoi da un’opera d’arte, che ti porti in un mondo in cui non sei mai stato, e renderlo parte del tuo mondo. Il grande periodo del cinema ha molto da insegnare agli scrittori. Ho sempre pensato che la miglior formazione l’ho avuta dal cinema.
Stava assimilando consapevolmente la lezione per poi applicarla?
No, semplicemente amavo andare al cinema. Mi divertivo di più al cinema che in biblioteca. Oggi noto che le persone a cui piacciono i miei libri di solito dicono di trovarli molto visivi, mentre le persone a cui non piacciono dicono di trovarli troppo visivi. Se sei uno scrittore, la gente ti apprezza esattamente per gli stessi motivi per cui altri ti disprezzano. I tuoi punti forti sono le tue debolezze. A volte vengono prese ad esempio le stesse frasi per dimostrare quanto scrivo male e quanto scrivo bene. Chi ama la mia scrittura dice di amare i miei personaggi femminili. Chi non ama i miei libri dice, Beh, non sa scrivere delle donne.
Diceva che la sua generazione di scrittori britannici era piena di talenti. Come si trova qui a New York?
In America c’è una generazione più giovane con vere ambizioni. Ma c’è stato un momento in cui la letteratura americana si è rivelata poco avventurosa. Raymond Carver era uno scrittore molto ambizioso, e i suoi libri sono incredibilmente originali perché forzano i confini di come dire le cose, come suggerirle, ma credo che gran parte della scuola carveriana sia diventata una scusa per dire cose banali in maniera banale. Come se bastasse quello — due persone sedute una davanti all’altra a un tavolo con una bottiglia di whiskey che si parlano attraverso dei cliché. Oggi credo ci siano nuovi tentativi di fare cose sorprendenti. Alcune funzionano altre no. Ma mi piace vedere questo spirito che riaffiora. Curiosamente, in Inghilterra, negli anni Settanta e Ottanta ci opponevamo all’idea di essere definiti una generazione. La maggior parte di noi non si conosceva. Non ci rendevamo conto di avere dei progetti. Non era come per i surrealisti, che avevano un manifesto. Non discutevamo fra di noi della nostra scrittura. Era già abbastanza difficile cercare la mia strada; non volevo sentire altre dieci opinioni. Pensavo di doverla trovare da solo, per conto mio.
Scrive lettere?
Sono noto per essere pessimo a scrivere lettere. E la più grande critica che mi rivolge mia moglie. Vorrebbe che le scrivessi delle lettere. Che senso ha essere la moglie di uno scrittore se non ti scrive delle lettere d’amore? Quindi, sono costretto a scriverle. Ma no, non ho una grande corrispondenza. Tuttavia, qualcosa conservo. Nel 1984, la prima volta che andai in Australia, cominciai a leggere Patrick White. Feci alcuni viaggi con Bruce Chatwin, quelli che portarono alle Vie dei canti, e rimasi stregato e colpito dal deserto australiano. Poi lessi il libro di White, L’esploratore, e mi rapì. Fu una delle poche volte nella vita che scrissi una lettera da ammiratore. White mi rispose, dicendo. Caro signor Rushdie, L ’esploratore è un romanzo che ormai detesto. Disse, Potrei mandarle alcuni dei miei libri per i quali sento ancora qualcosa, ma non è bello importunare la gente con i libri che non vuole leggere. E pensai, ’Fanculo anche a te. Voglio dire, avevo scritto una lettera molto calorosa e in risposta ricevo questa schifezza. Quando tornai in Australia, non feci alcun tentativo di ricontattarlo. Poi morì, e mi scrisse il suo biografo, David Marr. White buttava via tutto, ma nel primo cassetto della sua scrivania c’era un mazzetto di lettere, la maggior parte del suo consulente bancario, e tre o quattro non di lavoro, tra le quali c’era la mia. E pensai, Ma quanto si può essere stupidi? Avevo completamente frainteso la sua lettera. Avevo interpretato il suo autolesionismo come scontrosità.
Quando decide che un libro è pronto da spedire?
L’imbarazzo è una buona verifica. Quando senti che se qualcuno leggesse quello che hai scritto non ti metterebbe in imbarazzo, allora significa che puoi farlo leggere. Ma con Shalimar ho fatto una cosa mai fatta prima: l’ho fatto leggere ad alcune persone – il mio agente, mia moglie, e un’amica, la scrittrice Pauline Melville. L’ho fatto leggere anche ai miei editor, Dan Franklin della Cape e Dan Menaker qui alla Random House. Gli ho fatto leggere le prime centocinquanta pagine, poi ci ho riprovato di nuovo a trecentocinquanta o quattrocento pagine circa. Non so perché. Ho pensato. Non lo faccio mai, questa volta sì. Sono arrivato al punto di pensare che non devo fare qualcosa solo perché l’ho sempre fatta. Sono stato contento di aver dato in lettura quello che stavo scrivendo e di ricevere il loro entusiasmo. Non so se sia la dimostrazione di quanto bisogno di essere rassicurato io abbia, o se riveli in realtà una maggiore sicurezza. Credo entrambi.
Che ruolo hanno avuto gli editar nelle sue opere?
Tra le cose che ricordo meglio ci sono due preziosi editing da parte di Liz Calder per I figli della mezzanotte. Uno è alla fine di quella che adesso è la seconda parte e l’inizio della terza, quando c’è un salto di circa sei anni dalla fine della Guerra indo-pakistana del 1965 alla Guerra del Bangladesh del 1971. Originariamente, avevo fatto un salto maggiore — fino alla fine della Guerra del Bangladesh – poi ero tornato all’inizio, e poi ero andato di nuovo avanti. Quindi: avanti di sette anni, indietro di uno, e poi di nuovo avanti, e questa confusione cronologica era l’unico momento del libro che aveva interrotto l’attenzione di Liz, mi disse. Fu preziosa. C’è ancora il salto di sei anni, ma ripristinai la sequenza cronologica, rendendo decisamente più chiare quelle quaranta o cinquanta pagine.
L’altro riguarda resistenza di una seconda figura di spettatore nel romanzo. Nel libro, come lo conosciamo, Saleem racconta la sua storia a Padma, la donna dei sottaceti. Nella prima versione scriveva la sua storia e la inviava a una giornalista che restava fuori dalla scena. Quindi, la storia orale era per la donna che lavorava nella fabbrica dei sottaceti, e la versione scritta veniva mandata a quest’altra figura. Liz e un altro paio di lettori della prima versione concordarono tutti che questo fosse l’unico elemento davvero ridondante del libro. Dissero, Hai un bel personaggio seduto nella stanza insieme a lui, con cui ha un vero e proprio rapporto, non hai bisogno di questa seconda figura astratta della giornalista alla quale vuole mandare la sua storia scritta. Inizialmente pensavo si sbagliassero, e poi mi convinsi a eliminare il personaggio. Uscì dal libro senza grossi problemi – ricordo che ci impiegai solo due giorni — e capii che un personaggio così facilmente eliminabile non poteva essere davvero parte integrante della storia. Mi salvarono da un grosso errore. Oggi se riguardo il materiale che ho escluso, lo trovo piuttosto terribile.
L’altro libro sottoposto a un editing realmente costruttivo è quello sul Nicaragua, Il sorriso del giaguaro. Era un reportage. Lo scrissi in pochi mesi dopo essere tornato dal Nicaragua nel 1986. È ancora piuttosto breve, ma la versione originale era più corta. Vista la velocità, Sonny Mehta — all’epoca editor alla Picador in Inghilterra — disse che aveva qualche perplessità sul testo, e fece un editing più o meno riga per riga. In ciascuno dei casi richiedeva più informazioni. Non cancellava mai niente, voleva di più. Diceva, Stai dando per scontate troppe informazioni – devo sapere chi sono queste persone, che momento era, lo sfondo, ecc. Mi fece rimpolpare il libro, ed è stato un aiuto prezioso.
Oltre al Sorriso del giaguaro, ha scritto anche Patrie immaginarie, Step Across This Line e altri libri ai saggistica. Ne ha in programma altri?
Non ancora. Al momento sento – come posso metterla? –, sento che la mia vita è diventata drammaticamente poco narrativa. In un certo senso sono circondato da materiale basato più su fatti reali, e sento il bisogno di uscire dalle macerie della realtà per tornare alla scrittura immaginativa. Sono pieno di storie, e finché non avrò liberato dalla polvere e ristabilito – beh, non ristabilito, ma analizzato — le storie che devo raccontare, storie inventate, non ho alcuna intenzione di ritornare ai fatti reali. Ne ho sempre meno voglia.
Uno degli insegnamenti che ho tratto da Shalimar il clown è che la quantità di ricerche che si fanno non è rilevante. Ne ho fatte molte di più per quel libro di quante ne avessi fatte per un romanzo, ma ho imparato che ti portano fino a un certo punto soltanto. Alla fine, per far sì che la cosa funzioni, deve esserci un vero salto immaginativo. Devi entrare nella pelle delle persone, e sentire le loro percezioni, comprendere i loro processi e capire dove vogliono portare la storia. Quindi, scrivere un libro per il quale ho fatto moltissime indagini ha rafforzato la convinzione che avevo e cioè che quello che davvero mi interessa è il salto immaginativo. Al momento ho una rubrica mensile in esclusiva per il New York Times e ho un contratto per quest’anno, ma ho la forte sensazione che per un po’ la lascerò – perché preferirei scrivere dei racconti. Sento un forte impulso narrativo al momento.
Ed è un fatto che diamo per certo?
Esatto — magari sto mentendo. Mai fidarsi di uno scrittore quando parla del futuro del suo lavoro.
Bene, quindi quale sarà il suo prossimo libro?
Il prossimo libro credo sarà un romanzo in cui si prefigura un legame tra l’Italia del Rinascimento e il primo Impero dei Moghul. Volevo intitolarlo L’incantatrice di Firenze. Nel frattempo, c’è il mio bambino — il mio secondo figlio — che preme per un libro per l’infanzia. Lui adora Harun e il mar delle storie, ma sa che l’ho scritto per suo fratello. Se dovesse servirmi un lungo periodo per le ricerche potrebbe essere un’idea quella di un libro per l’infanzia. Potrei dedicarmi in parte alla lettura e poi qualche ora al giorno per scrivere una favola.
Poi c’è "Parallelville", un’idea futuristica, fantascientifica-barra-film noir, una sorta di Blade Runner che incontra Touch of Evil. Sto anche valutando l’idea di scrivere un libro che ho provvisoriamente intitolato "Carless Masters". Lo immagino come un grosso romanzo inglese che comincia con la storia di un collegio per poi portare i personaggi nella vita adulta, fino a diventare un romanzo sullo stato dell’Inghilterra. La cosa più lunga che io abbia scritto sull’Inghilterra è I versi satanici, che nessuno ritiene un romanzo sull’Inghilterra, ma che in realtà, in gran parte, è un romanzo su Londra. Sulla vita degli immigrati nella Londra thatcherista.
Diventa nervoso se non scrive tutti i giorni?
Mi sento molto meglio quando so dove sto andando. D’altro canto, alcuni dei momenti più creativi sono quelli fra un libro e l’altro, quando non so esattamente dove sto andando e la mente procede a ruota libera. Le cose mi vengono inaspettatamente, e magari si trasformano in un personaggio o in un paragrafo o anche solo in percezioni, e tutto questo può a sua volta trasformarsi in storie, o in un romanzo. Lavoro sodo sia quando scrivo sia quando non lo faccio. Mi siedo e lascio che le cose accadano, di solito il giorno successivo butto via quello del giorno prima. Ma la vera creatività significa stare a vedere cosa viene fuori. Quando viene fuori qualcosa, le tue attenzioni si concentrano su quello, e ne avrai un grande piacere. Ma in questo tempo intermedio avvengono le cose più inaspettate. Succedono cose che prima pensavo essere fuori dalle mia capacità d’immaginazione. Diventano immaginabili. E sono dentro di te. È lì che mi trovo adesso.
Numero 174, 2005
BIOGRAFIA–
Salman Rushdie è nato a Bombay, in India, nel 1947. Ha frequentato le scuole superiori e l’università nel Regno Unito, studiando storia e recitazione a Cambridge. Nel 1975 pubblicò il suo primo romanzo, Grimus, seguito da I figli della mezzanotte (1981) grazie al quale vinse il Booker Prize. La sua fama internazionale fu consacrata da un altro romanzo di grande successo di critica. La vergogna (1983). Quando uscì nel 1988 I versi satanici, una fatwa dell’ayatollah dell’Iran, Khomeini, lo condannò a morte costringendolo a vivere nell’ombra per nove anni. Tuttavia ha continuato a pubblicare romanzi e saggi, scrivendo un romanzo per l’infanzia, Harun e il mar delle storie (1990), e una raccolta di racconti. Est, Ovest (1994). Sue opere successive sono: La terra sotto i suoi piedi (1999), Furia (2001), e Shalimar il clown (2005). Nel 2007 è stato nominato Cavaliere dalla regina d’Inghilterra. Jack Livings collabora con la rivista The Paris Review.