Marco Neirotti, La Stampa 29/01/2013, 29 gennaio 2013
QUESTA DI MARINELLA È LA VERA STORIA
[Uno psicologo appassionato di Fabrizio De André ha ricostruito la vicenda di cronaca e l’identità della donna che ispirò la celebre canzone] –
«Quando si muore si muore soli», cantò Fabrizio De André. E provò a dar sollievo, seppur postumo e artistico, alla solitudine ultima di una prostituta uccisa e buttata in un fiume. Raccontò d’aver letto di lei da ragazzo, una notizia su un quotidiano, mentre era ad Asti o a Revignano, pochi chilometri dal capoluogo, e di averci ripensato più tardi, quando già scriveva canzoni. Alla sventurata donna volle «reinventare una vita e addolcire la morte». E scrisse, nel 1964, La canzone di Marinella , che, incisa da Mina, illuminò la sua carriera.
Se lo spunto di cronaca era noto, restavano nel vago la vera identità della vittima, i suoi passi prima di finire in articoli sui quotidiani, i momenti e gli artefici della sua fine. E così lo psicologo astigiano Roberto Argenta ha deciso di risalire la corrente degli archivi immergendosi nei microfilm con le pagine di giornale di metà ’900 e ha incontrato Maria Boccuzzi, mancata soubrette di varietà, prostituta nei casìni preMerlin e anche in strada, crivellata di colpi, nel gennaio 1953, a 32 anni (quando Fabrizio ne aveva 13), e abbandonata in quel che era poco più di una roggia.
Argenta ha raccolto le sue ricerche in Storia di Marinella... quella vera (Neos edizioni), restituendo a Maria, se non la vita, almeno una storia, ampia e non soltanto personale, perché pezzo di un’epoca di moralità di cartapesta e scandali, che ci accompagna su strade di asfalto ma anche di sociologia, con i primi giri di droga «d’élite», festini, vite parallele fino al clamoroso caso di due anni dopo, che, pur con alcune analogie, superò e annientò per clamore quello della Boccuzzi: il ritrovamento sulla spiaggia di Torvajanica del cadavere di una trentenne, Wilma Montesi, spacciata prima per morta d’annegamento e poi riconosciuta vittima di alcol e droga in un festino, con voci che tiravano in ballo il figlio dell’allora vicepresidente del Consiglio, Attilio Piccioni.
Negli anni in cui Fabrizio leggeva la notizia di Maria, Domenico Modugno componeva Vecchio frac, ispirata al suicidio del principe Raimondo Lanza di Trabia. Quando Faber stesso pescò anima nel buio della cronaca nera, collocò l’episodio nell’Astigiano perché aveva letto l’episodio in un ritorno a Revignano, il paese dove durante la guerra era sfollata la sua famiglia (e dove l’amica degli anni d’infanzia Nina Maifredi ispirò Ho visto Nina volare), ), o, più facilmente, a casa della nonna paterna, Rita, in un vecchio palazzo di via Carducci, ad Asti. Forse per questo, nella memoria, parlava di Tanaro o Bormida. E Argenta, appassionato storico del «suo» fiume, compie una tenace ricognizione sulle testate dell’epoca, soprattutto La Stampa eLa Gazzetta del Popolo , quotidiano torinese allora molto seguito nella provincia, chiuso nel 1983. Dopo molti episodi che fanno rileggere gli Anni 50 (gli infortuni sul lavoro, la frequenza del suicidio adolescenziale), si imbatte in episodi di cronaca nera (una giovane perpetua ammazzata, il prete sospettato) fino a che, quasi perdute le speranze, trova una traccia che per alcuni aspetti combacia con i ricordi di Fabrizio, anche se lo scenario si sposta: Maria Boccuzzi, «scaraventata» (le stesse parole di De André in un’intervista) nel fiume Olona, alle porte di Milano, non lontano dalla Fiera Campionaria (quel tratto è oggi interrato). Le hanno sparato più colpi di pistola, l’hanno portata lì e gettata dall’auto. Non l’hanno rapinata, è carica di gioielli come se andasse a una festa.
Le indagini si dividono tra Milano e Torino, le due città dove Maria lavorava nei bordelli, trasferendosi dall’uno all’altro, secondo la regola delle case, ma anche dei «protettori» ante litteram , cioè i mezzani che indirizzavano le ragazze, le suggerivano alle maîtresse. Per risolvere il delitto le due questure ricostruiscono il malinconico passato della donna: calabrese d’origine, immigrata con la famiglia a Milano, il padre dipendente della Manifattura Tabacchi, viene indirizzata anche lei a fare l’operaia nella maleodorante fabbrica, ma è insofferente, se ne viene via e rincorre il mito della «rivista» e di Wanda Osiris. Si inserisce come ballerina di fila, con il bizzarro nome di Mary Pirimpò, ma il sogno dura poco. La strada devia verso le case chiuse.
Come in un romanzo poliziesco seguiamo passo passo i commissari dell’epoca, le notti in strada («c’era la luna e avevi gli occhi stanchi...) accanto a colleghe amiche, i night, la cocaina, o «macuba», gli amici o fidanzati ambigui, gli sfaccendati che gravitano intorno al fascino della notte proibita, i play boy con le facce da duri sotto la tesa larga («bianco come la luna il suo cappello...), fino alla 1100 nera che una notte si porta via Mary. Ci saranno processi, un reo confesso dichiarato matto, accuse di sfruttamento. Le cronache dei giornali torinesi e di quelli milanesi sono minuziose. Si affaccia la pista dei segreti del sottobosco, poi quella della droga, allora consumo per pochi ricchi. Nessuno è arrestato per l’omicidio, qualcuno paga lo sfruttamento.
Due anni dopo, il caso Montesi scuoteva il mondo «bene» romano. Argenta raffronta le due vicende e a loro affianca altre pagine di cronaca nera, colorando con garbo un film d’epoca in bianco e nero. E Maria Boccuzzi o Mary Pirimpò non soltanto si riappropria dell’impronta da lasciare al tempo ma si fa anche narratrice di quel film, dove i «re senza corona e senza scorta», dopo aver bussato violenti una volta, si dileguano.