Marco Fortis, Il Messaggero 29/1/2013, 29 gennaio 2013
TERAPIA PER LA RIPRESA E CORAGGIO CHE MANCA
La quasi contemporanea presentazione di due piani per il rilancio della crescita da parte di Confindustria e Cgil, durante la scorsa settimana, è da salutare molto positivamente. Anche per il deludente trascinarsi della campagna elettorale, con sterili contrapposizioni tra partiti spesso incentrate su questioni lontane dai problemi della società reale. Un teatrino che abbiamo già ripetutamente visto in passato. E che, purtroppo, ci tocca rivedere anche stavolta mentre avremmo sinceramente potuto aspettarci qualcosa di più, visto che siamo dentro un’emergenza globale in cui l’Italia paga contemporaneamente sia lo scotto di sue precise colpe storiche mai risolte in modo definitivo (come l’alto debito pubblico) sia gli effetti devastanti di una crisi mondiale ed europea più subìta dall’esterno che co-causata da nostri nuovi errori (di errori ci bastano e avanzano quelli che abbiamo ereditato dal passato più qualche nuovo “buco nero” tipo la vicenda Monte dei Paschi).
I piani di Confindustria e Cgil hanno il merito di riportare la discussione economica ai temi reali. Innanzitutto, pur con diverse accentuazioni, entrambi mettono finalmente nero su bianco il problema dei problemi, che è la crisi strutturale del mercato interno. Infatti, l’export, nonostante le inefficienze del sistema-Paese, “tira” (nel 2012 abbiamo avuto una bilancia commerciale con l’estero record per i manufatti industriali di circa 90 miliardi di euro). Si può indubbiamente migliorare la performance dell’export, innalzando la sua quota sul Pil. Ma la questione chiave dell’Italia non è la competitività “esterna” bensì la domanda domestica, che già aumentava poco ma che ora sta letteralmente collassando. E siccome la maggior parte dei servizi, le costruzioni e anche le stesse imprese manifatturiere che esportano hanno nel mercato interno un volano cruciale, se questo va in tilt l’intera economia ne risente e il Pil smette di crescere.
La causa di tutto ciò, messa in evidenza sia dalla Confindustria sia dalla Cgil, è che le classi meno abbienti e il ceto medio non hanno più abbastanza soldi per far crescere i consumi. Anzi, è già tanto se riescono a spendere come prima, dopo anni di perdita del potere d’acquisto, di continui incrementi di tasse e tariffe per colmare i buchi di un bilancio statale ipertrofico dove nessuno riesce a tagliare le spese improduttive e i costi della politica. I piani di Confindustria e della Cgil sono differenti ma a ben vedere partono tutti e due dallo stesso punto: è necessaria una riforma fiscale per rilanciare il potere d’acquisto delle classi meno abbienti. E occorre intensificare il recupero della evasione.
Il piano della Cgil, fortemente voluto da Susanna Camusso, è da apprezzare, pur con i consueti retaggi ideologici. Tra questi non poteva mancare l’immancabile progetto di una patrimoniale, ignorando con ciò il fatto che la ricchezza finanziaria netta delle famiglie italiane dal 2008 a oggi è già diminuita di circa 200 miliardi di euro (soprattutto per effetto del crollo dei titoli borsistici e obbligazionari): dunque, una “patrimoniale” non programmata c’è già stata, cadutaci in testa dall’esterno e accentuata all’interno da chi ci aveva fatto perdere credibilità a livello internazionale. Ed è anche per questa ragione, oltre che per il calo dei redditi e l’aumento delle tasse, che sono crollati i consumi. La ricchezza finanziaria che è rimasta in possesso delle famiglie italiane (per fortuna ancora pari a circa 2.700 miliardi di euro) tiene in piedi direttamente o indirettamente (attraverso depositi bancari e investimenti in Borsa, obbligazioni private e pubbliche) sia le imprese, sia le banche, sia lo Stato, sia le famiglie stesse, visto l’inaridirsi dei loro redditi (con gli stipendi che per di più nel 2012 sono cresciuti metà dell’inflazione). Scopriamo gli evasori, piuttosto, qui c’è il vero lavoro da fare.
Ciò detto, la Cgil pone problemi cruciali, tra cui non solo la necessità di un rilancio del potere d’acquisto delle classi meno abbienti ma anche il recupero del valore fondamentale del lavoro, da riportare “al centro”. Viene sottolineata l’importanza di far partire una azione di micro-investimenti sul territorio, un’idea da tempo sostenuta anche da Pier Luigi Bersani, che al convegno della Cgil ha ribadito la proposta di «una immediata revisione del patto di stabilità interno per fare un grande piano per le piccole opere».
Anche Fabrizio Barca ha sottolineato la rilevanza delle «attività di messa in sicurezza del territorio, degli edifici scolastici - con il ruolo decisivo della Cassa depositi e prestiti; il rilancio e il rinnovamento del welfare; il tema del rilancio dell’economia della conoscenza, con la proposta non più rinviabile dell’elevamento dell’obbligo scolastico a 18 anni». Nello stesso tempo, però, Barca ha messo in guardia da eccessivi ottimismi perché c’è «il rischio che si possa prefigurare una nuova stagione di lavori socialmente utili. Difficile in pochi mesi mettere in piedi, per il prossimo governo, una creazione di genuini beni e servizi utili davvero per la collettività». Inoltre, Barca si è detto dubbioso sul fatto che «dalla riforma fiscale possano venire i 40 miliardi prefigurati nel piano del lavoro della Cgil».
Il piano di Confindustria, fortemente voluto dal suo presidente Giorgio Squinzi, ipotizza non solo una riforma fiscale significativa ma anche un cospicuo programma di tagli, sia nella spesa pubblica (di cui è prevista altresì una razionalizzazione degli acquisti) sia negli incentivi alle imprese stesse. Si tratta di una articolata serie di interventi fino al 2018, con la relativa indicazione delle coperture, per riportare la crescita del Pil al 2% annuo, il peso del manifatturiero sullo stesso dal 16% al 20% e il rapporto debito pubblico/Pil intorno al 100%.
Per Confindustria, se si vuole davvero scongiurare il declino dell’Italia occorre una terapia d’urto e il coraggio di metterla in pratica. Al centro del rilancio dell’economia italiana, in questa visione, c’è il ruolo del settore manifatturiero, vero motore della crescita, attraverso maggiore competitività e investimenti ottenuti con misure essenziali tra cui un taglio del 30% delle componenti parafiscali del costo dell’energia per le imprese e un credito di imposta strutturale sulla ricerca. Confindustria ipotizza anche un progressivo taglio dell’Irap attraverso l’eliminazione del monte salari dalla base imponibile, ipotesi su cui lo stesso Mario Monti (che ieri si è espresso anche a favore di una riduzione dell’Irpef e una rimodulazione dell’Imu) ha avanzato una significativa apertura. Nell’immediato, cruciale per Confindustria è l’effetto di impulso sul sistema economico del pagamento di almeno i 2/3 dei debiti arretrati della pubblica amministrazione, come Squinzi ha ribadito in un’intervista al “Corriere della Sera”.
Ma nel piano di Confindustria si fa attenzione anche alle classi sociali disagiate. Si individuano i profili di una riforma fiscale che permetta la ripresa del potere d’acquisto e dei consumi degli operai e del ceto medio. Tutti temi non nuovi per Confindustria ma mai così dettagliatamente esplicitati e tradotti in proiezioni precise mediante la complessa simulazione di un modello econometrico.
Di fronte ai due piani di Cgil e Confindustria sta ora ai partiti politici il compito di non limitarsi a commenti benevoli di circostanza ma di incominciare a ragionare seriamente, se non hanno di meglio da proporre ai cittadini italiani, su come mettere in pratica le idee avanzate dalle parti sociali, almeno nei loro punti più condivisibili.