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 2013  gennaio 28 Lunedì calendario

GATTI, OPERAI E DE FILIPPI COSÌ NASCE UN ROMANZO

[Emozioni, immagini, nevrosi. dubbi e difficoltà. Poi il risultato finale. Come gli scrittori trovano le idee per le loro opere. Obiettivo: dare un contorno preciso a qualcosa che, prima delle loro parole, non ce l’ha] –
Quando studiavo storia dell’arte e frequentavo pittori, ho imparato una cosa: che l’opera di un artista si capisce fino in fondo quando si visita il suo studio. Solo lì, in mezzo a tele buttate per terra, disegni sparsi su un tavolo, colori e materiali che hanno una loro fisicità, e perfino un odore, puoi dire di conoscere il lavoro di qualcuno. Lo studio di uno scrittore è nella sua testa. L’impatto con il luogo è meno immediato, ma la sua officina è più accessibile: basta farsela raccontare. E se raccogli alcune voci, ti accorgi che i romanzi nascono e crescono in modi molto diversi.
C’è chi parte dal titolo, come Marcello Fois. “Il titolo è una specie di bacchetta del rabdomante, capisco che sotto c’è l’acqua”, dice. “Io scrivo mentalmente e archivio tutto in testa, per me non esistono appunti. Quando ho il titolo giusto, mi siedo e scrivo. Questo è il motivo per cui scrivo un sacco di cose contemporaneamente. A volte ho due titoli giusti, quindi due romanzi. Quando cambio titolo, cambio anche romanzo. È successo per Memoria del vuoto, che prima si chiamava Simile a un dolore”. Chi parte da un’idea narrativa, come Alberto Garlini, che ha una visione aristotelica del processo creativo e fa iniziare tutto da “un’azione da cui nasce un conflitto. I romanzi sono come delle macchine. La carrozzeria è fatta dai personaggi e dall’azione, il motore è il nodo narrativo, cioè una situazione conflittuale di cui dobbiamo seguire gli esiti”. E chi da una fissazione, da un inspiegabile interesse per qualcosa, come Mauro Covacich, che racconta: “Avevo una passione per i maghi, li guardavo per ore in tv (ho ancora quattro vhs da 240) e poi li sbobinavo provandone le voci, riversando tutto quel materiale in tre potenziali personaggi. Sono andato avanti così per circa un anno, annaspando nella frustrazione più totale. Poi un giorno ho alzato la testa dal computer e ho visto sotto casa un tizio alto due metri che svuotava i pozzetti per conto di una ditta di autospurgo. Era il protagonista della mia storia (L’esperimento, in uscita a marzo per Einaudi), l’ho capito subito: un operaio solitario, gigantesco, risucchiato nelle trasmissioni di astrologia”.
Prime righe da un’immagine
E chi invece comincia da un’immagine, come Simona Vinci: “Ogni romanzo che ho scritto, ogni storia che ho raccontato, ha una genesi diversa però, forse, la cosa che mi è capitata più spesso è la persistenza di un’immagine attorno alla quale, come un minuscolo granello di sabbia, si è generata la conchiglia”.
Idem per Sandra Petrignani: “Anch’io parto da un’immagine, sempre. Per esempio in Poche storie, lessi la notizia di una madre che aveva investito il figlio per sbaglio. Quello che mi scatta nella testa è l’immagine: una madre che sta facendo retromarcia e il bambino che aspetta di salire, dietro la macchina. Persino quando mi occupo delle vite degli altri, parto da lì. Adesso sto scrivendo sulla Duras e tutto nasce dall’immagine di un rapporto violento fra madre e figlia”. Lo stesso vale per Teresa Ciabatti, anche se l’immagine si riduce a un particolare: “In genere parto da un personaggio, da una sua ossessione o caratteristica, da un piccolo dettaglio. Per questo romanzo (Il mio paradiso è deserto, in uscita a marzo per Rizzoli) sono partita da un’ombra: dopo la gravidanza ero molto ingrassata, non mi guardavo più allo specchio da un anno. Un giorno camminando per strada è comparsa sotto i miei piedi un’ombra immensa. Ci ho messo un po’ a capire che ero io. Da qui è nata Marta Bonifazi, un’obesa che non esce di casa da anni e che non si guarda allo specchio”. O per Evelina Santangelo: “Le mie storie nascono spesso da un’immagine o una circostanza che mi colpiscono perché mi suscitano idee, intuizioni, altre circostanze o altre immagini particolarmente significative al punto che, lavorando di immaginazione, a poco a poco, ci scorgo un pezzo d’umanità, di società o di vita”.
Le donne sono più visive? Chissà. In ogni caso questo non è un sondaggio. Si parla di cose non misurabili, per fortuna. Come i sentimenti. Molti scrittori partono proprio da lì: da un’emozione, da un turbamento, da un’ossessione, da qualcosa che non ha contorni precisi. E scrivono proprio per questo: per dare un contorno preciso a qualcosa che, prima delle loro parole, non ce l’ha.
Lo spiega bene Nicola Lagioia: “Per quanto sia uno scrittore abbastanza metodico (scrivo ogni giorno, per almeno 5 o 6 ore) mi rendo conto che ogni mio libro nasce da momenti di forte irrazionalità. Iniziai a scrivere Occidente per principianti dopo un lungo viaggio a base di psilocibina, Riportando tutto a casa dopo un litigio violento con una cara amica. Il romanzo con cui sono alle prese da un anno e mezzo l’ho cominciato dopo un incubo avuto dormendo con mia moglie, in una casa al mare, una notte d’estate di qualche anno fa. Era uno di quei sogni che spalancano porte”. Così a Valeria Parrella, per lei le storie nascono “dal dispiacere, dalla disillusione, dalla rabbia, dal rancore, dalla pietà, dalla commozione. Da un sentimento forte e doloroso che mi muove: questo movimento diventa la scrittura”. E a Lidia Ravera, che però lega questi sentimenti al senso del tempo che li percorre: “I miei romanzi nascono da un’ossessione, dagli urti della vita, da un disagio profondo. Ogni stagione della vita è come un paese che cambi, il paese che vai ad abitare è l’età che attraversi. Questa stagionalità è un tempo non reversibile, da lì il dramma. Quando trovo la metafora attraverso cui riesco a centrare il bersaglio della mia angoscia, mi nasce in testa il personaggio che se ne farà carico. Il personaggio mi consente la distanza. La genesi nasce dal coinvolgimento e i personaggi sono la garanzia del distacco. Il romanzo, nel suo farsi, è un percorso di allontanamento da quell’angoscia”.
Esigenza di capire
Molto diverso è il modo di procedere di autori come Siti o Starnone o Vasta. Per loro la letteratura nasce da una domanda, da un dubbio, dal bisogno di capire. Ha un carattere interrogativo. “In genere parto dal bisogno di chiarire a me stesso qualcosa (un odio, un’attrazione, la fascinazione per la merce, il finto che sembra vero)”, racconta Walter Siti, “su quel bisogno di capire fabbrico un canovaccio, i personaggi vengono dopo. Ma prima ancora di partire riempio qualche quaderno di frasi che mi sono venute incontro in sogno o per strada; sono l’aria del tempo, da cui non posso prescindere”. “A pensarci non ho mai scritto niente che non muova da un piccolo evento grezzo”, dice Domenico Starnone, che ha affrontato il tema della genesi anche nel suo ultimo romanzo, Autobiografia erotica di Aristide Gambia. “Non un sentimento, non un’immagine, non una parola emozionata, ma un accadimento. Non è successo mai che mi sia accorto subito delle sue potenzialità. C’è voluto tempo, quasi sempre anni. Funziona così: il piccolo fatto resta lì nella memoria, di tanto in tanto si ripresenta ma non lo stesso: si modifica, si dilata, attrae altri materiali sparsi, mostra una sua forza catalizzatrice. Finché si presenta in una forma straordinariamente sintetica, una frase attraente, un incipit. Comincio da lì, poi ci ripenso, poi ci ritorno su. A volte lascio perdere, cerco altre vie di accesso. È la fase difficile dello scrivere, può durare un mucchio di tempo e non portare da nessuna parte. Poi, se va bene, succede che tutto comincia a funzionare. La scrittura che pareva un inutile e faticoso esercizio comincia a quadrare. I materiali che hai accumulato mostrano connessioni inevitabili. La scrittura comincia a correre, le giornate volano con piacere”. In questa linea, può inserirsi anche Giorgio Vasta che considera “l’immaginazione narrativa uno strumento di ricapitolazione di una tranche della propria vita”. “Si tratta di prendere atto di quelle che sono le proprie fissazioni”, spiega. “All’inizio queste ossessioni possono apparire diverse fra loro, poi ti accorgi che c’è un denominatore comune e trovi un angolo visuale che mette in prospettiva questi pezzi eterogenei , e dà una possibilità di significazione. I discorsi sul tema intervengono dopo, a posteriori, ma è solo un problema di comunicazione del libro, quindi dell’ufficio stampa, non mio”.
In tutto questo, nell’officina dello scrittore che succede? Quali piccole nevrosi rendono grandi i romanzi che leggiamo? Quali sono i tormenti che un elegante libro stampato nasconde ? Quanta energia quotidiana, quanta ostinazione, quanta fatica servono per non farci capire che dietro alla scrittura c’è energia, ostinazione e fatica? Guardiamoli un po’ così, mentre lavorano. Chiamiamoli per nome, adesso. Come amici di cui si conoscono i tic, le abitudini, le manie.
Marcello che non riesce a scrivere nel silenzio e deve sempre avere intorno qualcuno, tanto che, quando è solo, accende la televisione su programmi di cucina, così sente “spentolare” nella stanza accanto. Nicola che lavora con il gatto addormentato sulla spalliera della poltrona (“È incredibile come il gatto non abbia saltato mai un giorno di questo rituale”). Lidia che è capace di scrivere in mezzo a dieci persone che chiacchierano, ma solo sul suo Mac (“E quando ne devo comprare uno nuovo, lo cerco il più possibile uguale al precedente”). Sandra che litiga con gli aggettivi. Alberto che inventa solo di mattina (“Partire la mattina vuol dire partire senza pensieri, dopo le due non riesco”). Teresa che si concentra solo mentre ascolta programmi trash in tivù (“De Filippi e D’Urso: d’estate, a fine palinsesto, è un problema”). Evelina che scarabocchia foglietti. Simona che pulisce la stanza in cui lavora (“Il disordine mi distrae e fa uscire la mia ombra massaia”). Valeria che compone la sua Antigone in cucina, mentre un operaio usa il martello pneumatico tre metri più in là. Mauro che si sente in vena e lavora anche sulle mensole dell’ufficio postale, in mezzo ai formulari. Walter che scrive su un quaderno con un pennarello (nero TrattoPen a punta fine), disteso a pancia in giù. Domenico che si alza, mangiucchia, guarda la tivù, legge qualcosa, poi torna a sedersi e a scrivere, ascoltando lo stesso disco per ore. E Giorgio che si ritira in Finlandia, Svezia o Islanda (“Ma il prossimo paese scandinavo sarà Roma”). Eccoli. Non aggiungo altro.