Riccardo Antoniani, Domenicale, IlSole24Ore 27/01/2013, 27 gennaio 2013
CHE INCANTO CON DUCHAMP! [
L’«anartiste» era un assiduo frequentatore dell’Hotel Drouot di Parigi, mecca delle aste francesi. Lui provocava, per esempio, mettendo in vendita suoi falsi, comprati dagli amici ] –
Con How New York Stole the Idea of Modern Art, Serge Guilbaut aveva polemicamente sancito il passaggio da Parigi a New York del primato di centro d’arte: un fenomeno che secondo l’autore si produsse alla fine degli anni Quaranta, nell’ambito di una più complessa serie di strategie culturali con cui venne disputata la Guerra fredda. Strategie che implicarono una crescente strumentalizzazione del mercato artistico dando origine al curioso fenomeno delle vendite record che non a caso da oltre mezzo secolo vengono prevalentemente registrate Oltreoceano.
Il rischio che l’arte – nelle sue varie declinazioni – assuma esclusivamente un valore nel mero ambito della transazione in cui la moneta di scambio sia, per l’appunto, la sola moneta era stato intuito con largo anticipo da chi più d’ogni altro ebbe un ruolo chiave nell’interazione che durante il secolo scorso le avanguardie intrattennero tra le due sponde dell’Atlantico: Marcel Duchamp. Rimproverando ai suoi colleghi di firmare tele con la stessa disinvoltura con cui si staccano assegni, l’anartiste – che con un tratto di matita e un allografo irriverente sbeffeggiò la Gioconda – si dedicò provocatoriamente alla minuziosa realizzazione di «readymades finanziari» come i Monte Carlo Bonds o gli assegni di taglio e fattura inusuale quali il Tzanck Check ed i Bruno Cheques.
Nonostante il furto a cui allude Guilbaut, nonostante quanti sostengano che, adagiatasi su una gloria del passato, Parigi si prodighi a celebrare l’arte piuttosto che a produrla, è noto che la capitale francese proponga ogni anno ai milioni di visitatori che da tutto il mondo vi si riversano un calendario assai ricco di mostre e iniziative culturali. E alla pari di molte altre capitali, negli ultimi anni anche nella Ville Lumière hanno preso piede modalità espositive sempre più informali e personalizzate spesso rubricate come one-day exhibits e pop up galleries.
Il concetto di esporre un artista nell’arco limitato di un giorno e sovente in uno spazio non propriamente deputato all’arte non è in realtà una novità. Al contrario, è una pratica che ricalca una consuetudine propria a una delle maggiori istituzioni dell’arte moderna: la casa d’aste. Una struttura, o meglio un non-luogo, dove si verificano transazioni di duplice natura: per un breve lasso di tempo vi sfilano oggetti investiti di una valenza artistica e vi si realizzano operazioni di scambio in cui gli stessi, passando da un proprietario all’altro, subiscono un apprezzamento come (e non è poi così raro) un deprezzamento.
La più celebre tra le maisons de ventes aux enchères parigine è l’Hotel Drouot, situato dal 1851 nell’omonima via del 9e arrondissement. Ciò che rende unico questo luogo e fa sì che non abbia eguali in Europa è la frequenza delle transazioni e l’impressionante mole di oggetti battuti all’asta: almeno cinque giorni alla settimana, tra vendite catalogate o correnti, dai 300 ai 500 lotti vengono quotidianamente acquistati in ciascuna delle sue 16 sale.
Come molti luoghi che scandiscono la topografia della capitale, anche questo indirizzo non è privo di una cospicua aneddotica. È qui, ad esempio, che lo scacchista preso in prestito alle tele, nell’intento di adulterarne le regole orchestrò l’ennesimo checkmate al mercato dell’arte, divenendo così un abile sensale. Nel 1925 Picabia affidò a Duchamp – compagno di tante avventure artistiche e non – la vendita fittizia di 80 opere, incuriosito dalla ricezione di una tale raccolta di suoi lavori per la prima volta esposta presso il pubblico e ancor più dal loro eventuale valore commerciabile.
Con lo pseudonimo di Rrose Selavy Duchamp ne allestì il catalogo: le opere vennero quasi tutte acquistate da un folto gruppo di amici surrealisti – in primis Breton – che giunsero numerosi prestandosi all’operazione. Sulla scia di questo successo e supportato dal fraterno Roché – l’autore di Jules e Jim – l’anno seguente Duchamp ripetè l’impresa, questa volta a favore di Brâncus¸i. Venuto a mancare il loro comune collezionista John Quinn, l’artista rumeno era tormentato dal fatto che l’improvvisa iniezione sul mercato di una trentina delle sue sculture ne avrebbe inflazionato il valore fino ad allora raggiunto. Ancora una volta l’operazione riuscì egregiamente: le opere di Brâncus¸i mantennero il loro ambito fair value e Duchamp e Roché arricchirono le proprie collezioni con dei pezzi significativi dell’amico scultore.
Ripercorrendo il solco tracciato dall’opus duchampiano – per Apollinaire avrebbe «conciliato l’arte con il popolo» e Schwarz lo investì d’una valenza alchemica – ci sono due aspetti che, indipendentemente dalla nostra volontà o possibilità d’acquisto, valgono di per sé una visita al 9 di rue Drouot.
Il primo è che paradossalmente nelle sue sale si avvera quella democratizzazione dell’arte deputata ai musei. In quella manciata d’ore che di fatto scandiscono il passaggio di proprietà da un privato all’altro, ciascuno di noi ha la rara opportunità di contemplare degli oggetti secondo una prassi che vede abolita quella distanza di circa un metro che normalmente ci separa da un’opera d’arte esposta e per cui sovente abbiamo pagato il prezzo di un biglietto.
Con le dovute cautele e ben seguiti dal personale addetto, avremo addirittura la possibilità di tenere in mano il nostro eventuale acquisto e coglierne nel dettaglio la grana, l’altrimenti impercettibile trama di pennellate o colpi di scalpello che concorrono alla sua unicità.
«Dio è nei dettagli» amava ripetere Warburg e ciò vale anche per quanti identificano il divino con il denaro. Ed è qui che entra in gioco il secondo aspetto: durante questo rituale profano – officiato dal commissaire priseur e scandito dai colpi di martello che chiudono ogni enchère – si realizza un’arcana alchimia attraverso cui la presunta (ine)stimabilità di un’opera si vanifica o si verifica: la materia dell’oggetto si sublima nell’immaterialità del valore che gli viene aggiudicato.
E se può capitare che un lotto rimanga invenduto – retiré faute d’enchere – poiché i compratori ritengono eccessiva la stima fatta dal maître, accade talvolta il contrario: che in un turbine di rilanci, l’offerta superi notevolmente il valore stimato. È questa la modalità con cui solitamente si registrano i record mondiali di vendita e l’asta si risolve in un duello tra due soli compratori.
L’evento che si produce è indubbiamente tra i più suggestivi: il valore di mercato di un’opera altro non è che il precipitato di un conflitto di desiderio fra due acquirenti; come scrisse Baudrillard «tra il denaro che, perdendo il suo valore di scambio economico, diviene materia suntuaria e il quadro convertito puramente in segno prestigioso per la perdita del suo valore simbolico, non s’instaura più un’equivalenza ma una parità aristocratica».