Giuseppe Lupo, Domenicale, IlSole24Ore 27/01/2013, 27 gennaio 2013
LO SCRUPOLO MANZONIANO [
Tornano in libreria, aggiornati, gli studi di Salvatore S. Nigro, sui «Promessi sposi»: un invito alla rilettura profonda dell’opera] –
Come dare torto a Calvino quando scriveva che «un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire». Anzi, più lo leggiamo e più ci sembra di entrare in una caccia al tesoro. Naturalmente ciò è possibile quando siamo di fronte a un’opera che davvero continua a "parlare", nonostante il tempo opacizzi ogni pagina, e quando, chi legge, si addentra così bene sotto la superficie del testo da muoversi a proprio agio tra fonti occulte, modelli vicini e remoti, suggestioni di rara limpidezza.
Nel caso dei Promessi sposi e della Storia della colonna infame, ai quali Salvatore Silvano Nigro torna ad accostarsi dopo averne già curato la riedizione (insieme con Ermanno Paccagnini) nella collezione dei Meridiani, è fin troppo evidente che l’orizzonte delle letture immagazzinate moltiplichi le virtù dell’interpretazione e potenzi il giudizio critico. Potrebbe bastare la breve introduzione a dimostrarcelo. Là dove si puntualizza la natura figurativa del capolavoro manzoniano, il suo essere un romanzo che punta molto sulla dimensione visiva (non più strettamente verbale) e sin dall’apertura paesaggistica – la passeggiata panoramica di don Abbondio – mostra una scrittura dalla vocazione iconica. «Manzoni seppe farsi produttore, regista e sceneggiatore di una visual history» precisa con arguzia Nigro. E non si riferisce solo al fatto che la seconda edizione, la Quarantana, avvalendosi delle illustrazioni di Francesco Gonin, si affidava al supporto di immagini intertestuali per indirizzare la narrazione lungo le direttrici che lo scrittore intendeva additare al lettore. Lo dice pensando soprattutto a quanto il corredo iconografico riesca a caricare di sovrasensi la maniera in cui Manzoni mette in scena la vicenda dei singoli personaggi e quella dell’intero Seicento, riflettendo cioè sulla capacità di conferire al testo scritto quei significati che vanno oltre, lo trascendono, integrano e completano il discorso, diventando quasi un libro nel libro, una striscia di comics o di fumetti, parallelo a quello ufficiale.
Non è un atto di sfiducia nei confronti delle tradizionali armi retoriche, semmai è un’ulteriore attestazione di modernità – se ancora fosse necessario ribadirlo – di un’historia unica nel suo nascere: il manoscritto ritrovato, la trascrizione in forma corrente, il gioco dello smentire e del condividere che lo scrittore lombardo ingaggia con l’Anonimo del secolo XVII. Tre livelli di complessità espressiva, che proiettano il libro nel campo del postmoderno. Ed è proprio su simili attrezzature narratologiche, con cui il più delle volte devono cimentarsi gli schizzi di Gonin, che si affronta e si risolve il problema della fortuna letteraria.
Il lettore insomma, se non vuole farsi gabbare da ciò che succede nelle pagine, deve aguzzare lo sguardo: questo chiede di fare Manzoni (e indirettamente anche Nigro), proprio come allude il gesto di due sagome maschili – una confusa tra la folla del tumulto di san Martino, l’altra collocata da sola a fine del capitolo XXVI – che poggiano l’indice della mano destra sotto l’occhio e invitano a prestare attenzione. Ma Nigro intanto può ammiccare con sicurezza esegetica alla figuralità del testo di Manzoni perché ha alle spalle un lavoro critico che non cessa di stupire per l’acutezza dello sguardo e che l’Einaudi ha pensato bene di ripresentare in libreria, per la terza volta in sedici anni.
Mi riferisco alla Tabacchiera di don Lisander, un esempio di letteratura riflessa (o di letteratura sulla letteratura), a suo modo un classico, che proietta le sue migliori energie proprio sulla predisposizione manzoniana a lavorare per immagini, a cominciare dal celebre dipinto di Francesco Hayez del 1841, in cui il maggiore autore del nostro Ottocento è ritratto seduto e con una tabacchiera accarezzata dalle dita della mano mancina. In quell’oggetto per fumatori, semplice all’apparenza e forse fin troppo quotidiano, si nascondono i miracoli narrativi che accompagnano l’avventura del Gran Lombardo ed essa diventa il grande magazzino di nozioni storiografiche, filosofiche, artistiche, giuridiche, che stanno a contorno del libro, prima e dopo il prodigio da cui scaturisce la sua forma inimitabile.
Fedele alla lezione di Sciascia, di Manganelli, a Nigro piace ragionare per paradossi (mettendo in rapporto l’Innominato con Napoleone, il mito di Babele con il Duomo di Milano), piace costruire una ragnatela di nomi dalla stringente consequenzialità (da Bossuet a Daniello Bartoli, da Ovidio a Pascal) e la propone al lettore nella forma migliore, che è quella di una investigazione holmesiana. Alla fine ne vien fuori non soltanto il mosaico di un capolavoro, ma un’indicazione metodologica, un duro corpo a corpo tra opera interpretata e opera interpretante, che esalta il senso del leggere e fa dell’indagine sulla letteratura uno strumento assai consapevole per scrutare il mondo.