Morya Longo, IlSole24Ore 27/01/2013, 27 gennaio 2013
QUEL FILO ROSSO DA FIORANI A LEHMAN
MILANO
Gianpiero Fiorani nel 2005 si era inventato, con l’aiuto di Deutsche Bank, l’operazione «Sonata». Dietro questo nome dal sapore ironico (erano i tempi del «concerto» per scalare AntonVeneta), si nascondeva un sofisticato maquillage finanziario: la Popolare di Lodi faceva finta di rafforzare il proprio patrimonio, ma in realtà si trattava di un grande bluff. Dick Fuld, il capo di Lehman Brothers ai tempi soprannominato «gorilla», ritoccava i conti pre-fallimentari con i «Repo 105». Operazioni che facevano magicamente sparire dai bilanci titoli e facevano "comparire" liquidità proprio nei giorni di chiusura degli esercizi. Mps ha incantato tutti con Alexandria e Santorini.
Potremmo andare avanti per ore. In effetti un po’ tutte le banche, qualche "piccolo" lifting ai bilanci lo fanno. E le "armi" dei delitti sono sempre le stesse: complesse strutture finanziarie che, proprio per la loro complessità, diventano giochi di prestigio. Fanno sparire poste dai bilanci, volatilizzare perdite, evaporare un po’ di fastidiose tasse. A volte legalmente, a volte un po’ meno. A volte portano alla rovina della stessa banca (o del banchiere). Lasciando senza risposta la domanda delle domande: non servirebbero regole più dure, per impedire il prestigio finanziario? Che tutele hanno azionisti, dipendenti e correntisti?
Capita spesso che i giochi di magia finiscano per intrappolare lo stesso mago. È il caso di Fiorani e di Fuld. La Popolare di Lodi nel 2005 voleva scalare AntonVeneta (la stessa banca che ha messo nei guai Mps): per farlo doveva però rafforzare il patrimonio. Per questo, oltre a effettuare un aumento di capitale, Fiorani decise di vendere partecipazioni di minoranza. Almeno: questo sembrò al mercato. La Guardia di Finanza scoprì invece che le quote erano state messe in una società-veicolo, che si chiamava Sonata, in cui per un complesso gioco di derivati con Deutsche Bank si creava una sorta di elastico: Popolare di Lodi era in sostanza obbligata a ricomprare, finita la scalata ad AntonVeneta, ciò che aveva venduto.
Lehman – nei mesi prima del crack – aveva invece bisogno di ridurre la sua leva finanziaria, cioè il rapporto tra totale attivi e capitale. Lo faceva con i «Repo 105». Il gioco era semplice: pochi giorni prima della chiusura di ogni trimestre, Lehman stipulava contratti di pronti contro termine (repo in inglese) con alcuni fondi o vari investitori. In sostanza cedeva loro dei titoli in grandi quantità e riceveva in cambio contanti, con l’impegno già scritto di fare lo scambio opposto dopo pochi giorni. Poi, scavallata la chiusura del trimestre, l’operazione si chiudeva. In questo modo Lehman, quando scattava la "fotografia" del bilancio trimestrale, appariva con meno attivi in portafoglio e con più liquidità: cioè si mostrava ben più "snella" e più "ricca" di come in realtà fosse.
Ma anche grandi e solidissime banche a volte si danno al lifting. Il giochetto dei «Repo», almeno in America, lo fanno un po’ tutti. Qualche anno fa il «Wall Street Journal», prendendo i dati dei 18 maggiori istituti mondiali, ha calcolato che sul mercato dei pronti contro termine ogni trimestre queste banche riducono i debiti a breve mediamente del 42% rispetto ai picchi massimi del mese. Deutsche Bank, per ridurre la leva finanziaria che tanto preoccupava i mercati nel 2008, quell’anno ha escogitato uno stratagemma ancora più geniale: nel bilancio 2008 ha iniziato a calcolare la leva con i principi contabili Usa, che permettono di prendere solo il valore netto dei derivati. Morale: la leva finanziaria magicamente si riduceva da 69 a 28. E che dire di Goldman Sachs? Tra il 2008 e il 2009 mise gran parte delle perdite dell’anno (780 milioni di dollari) in un mini-bilancio del solo mese di dicembre, difficilissimo da scovare. La scusa: il cambio dell’anno fiscale.
Ma anche in Italia la fantasia non manca. Non solo Mps ha usato complesse strutture finanziarie. UniCredit – secondo la Procura di Milano – ha utilizzato la finanza per risparmiare sulle tasse. Con l’operazione «Brontos» l’istituto è stato accusato di avere risparmiato un bel po’ di tasse nel 2007-2009 trasormando gli interessi in dividendi azionari, con complesse operazioni finanziarie tra Italia, Gran Bretagna e Lussemburgo con Barclays. Motivo: i dividendi sono deducibili fiscalmente al 95%. UniCredit in agosto ha raggiunto un accordo con l’Agenzia delle Entrate (per 264 milioni), ma molti manager – tra cui l’ex numero uno Alessandro Profumo – sono stati rinviati a giudizio.