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 2013  gennaio 27 Domenica calendario

IL DIFFICILE MESTIERE DEL BANCHIERE «SENESE»

Citibank è la terza banca americana per attivi totali. Qual è la probabilità che un giorno il suo Cda elegga presidente un avvocato penalista che negli ultimi cinque anni ha presieduto una fondazione di beneficenza e non si è mai occupato di banche? Zero. Ma questo è esattamente ciò che è successo a Mps, la terza banca italiana. Eppure è troppo facile ora prendersela con Mussari e con gli intrecci tra banche e politica; la vicenda Mps ha scatenato un’enorme quantità di ipocrisia. Roberto Perotti Due giorni fa lo stesso presidente dell’associazione delle fondazioni, Giuseppe Guzzetti, ha dichiarato che lo statuto della Fondazione Mps è illegittimo, perché il presidente è eletto da un consiglio nominato per 14 sedicesimi da Comune, Provincia e Regione Toscana: un’influenza politica eccessiva perfino per gli standard molto elastici delle fondazioni. Eppure ciò non ha impedito allo stesso Guzzetti di cooptare entusiasticamente Mussari (allora presidente della Fondazione Mps) come suo vicepresidente nel 2001. Nel 2010 anche i sassi sapevano che Mussari non era un banchiere, e che l’acquisizione di Antonveneta da lui voluta aveva messo Mps in ginocchio. Eppure i banchieri italiani, inclusi coloro che tuonano periodicamente contro l’intreccio tra banche e politica, lo elessero all’unanimità e per acclamazione alla presidenza dell’Associazione bancaria italiana. E quando già era stato destituito dalla presidenza di Mps, lo rielessero all’unanimità nel luglio 2012. C’è molta ipocrisia anche nelle accuse che vengono fatte sulla finanza allegra di Mps. Nel caso più noto, il famoso fondo Alexandria, Nomura comprò titoli tossici a un valore superiore a quello di mercato, in cambio di titoli più presentabili, per abbellire il bilancio Mps del 2009 e dilazionare le perdite, facendosi ripagare nel tempo. Parte della vicenda può avere rilievo civilistico o penale; ma in termini di valore presente scontato, la perdita su questa transazione fu probabilmente limitata. Certamente Mps ricorse a questa transazione in parte per poter pagare gli interessi sul debito "Fresh" contratto con la Fondazione per finanziare l’acquisizione di Antonveneta. Siamo sempre lì: alla Fondazione. La Fondazione non è vittima, ma complice e istigatrice. Se la Fondazione non avesse praticamente messo tutto il proprio patrimonio a disposizione della banca a costo zero, Mussari non avrebbe potuto comprare Antonveneta a un prezzo insensato e ora sarebbe una banca quasi normale. La Fondazione l’ha fatto, contro ogni regola di sana e priudente gestione (e a lungo in violazione della legge che imponeva alle Fondazioni di scendere sotto la maggioranza delle banche conferite), per non perdere la maggioranza assoluta in Mps, e non dover condividere il proprio potere clientelare. Il risultato è che la Fondazione ha sperperato un patrimonio di miliardi a lei affidati dai cittadini senesi. Il ministo dell’Economia Grilli dice giustamente che la sorveglianza sulle banche spetta a Bankitalia. Ma la sorveglianza sulle fondazioni spetta a lui. E a più riprese recentemente si è limitato a un panegirico delle fondazioni. C’è molta ipocrisia anche sul resto del bilancio di Mps. Le perdite maggiori derivano probabilmente dall’enorme portafoglio di titoli di Stato. Ma come accusarla di questo, quando la moral e political suasion esercitata per anni sulle banche italiane è stata esattamente di comprare titoli italiani più di quanto sarebbbe stato prudente fare? E non è esattamente questo l’effetto, e l’intento, della enorme iniezione di liquidità della Bce: dare soldi alle banche all’1% per indurle ad acquistare titoli di Stato a rischio? Mussari è stato accusato di giocare con i derivati anche con "Nota Italia". Ma ci si dimentica che questa conduit vendeva credit default swap sull’Italia: cioè scommetteva sul fatto che i titoli di Stato italiani sarebero aumentati di valore. Non era quello che raccomandavano tanti politici e commentatori nostrani? La vicenda di Mussari e Mps è un altro capitolo della storia infinita del "banchiere di sistema". Non ho mai capito cosa significhi esattamente questa espressione, ma credo che implichi essenzialmente una cosa: il banchiere non bada solo ai profitti della sua azienda, ma anche all’interesse del Paese. Di conseguenza, la sa più lunga del mercato, e non è importante che si intenda di banche. La prima caratteristica serve a distinguere gli intrecci fra politica e finanza "buoni" (i propri) da quelli "cattivi" (quelli degli altri). La seconda serve a giustificare operazioni come l’acquisizione di Antonveneta: "la pago 4 miliardi in più di quanto ha pagato Santander, ma in una "logica di sistema" ne vale la pena, fidatevi". Sono affermazioni che non si possono contestare, perché nessuno sa misurare se i miliardi persi dagli azionisti di Mps e dai cittadini senesi sono più che compensati dai fantomatici benefici per la collettività nazionale di mantenere l’italianità di Antonveneta. La terza caratteristica è la più interessante, e serve a perpetuare il mito che l’equilibrismo sia una dote più importante della competenza per dirigere una banca. Il bel libro di Massimo Mucchetti "Confiteor" su Cesare Geronzi avrebbe potuto essere un’ottima occasione per rivedere in modo critico questa leggenda del banchiere di sistema. E invece il dibattito che ha suscitato ha contribuito a rinsaldarne il mito. È successo un po’ come con Andreotti: tutti ne prendono le distanze, ma in fondo tutti ne ammirano l’acume, la capacità di tessere trame, e l’abilità nello stare a galla in tutte le stagioni. E questo è il motivo per cui negli ultimi anni molte fra le maggiori banche italiane, con la complicità delle fondazioni, sono state o sono ancora dirette da persone che banchieri non sono. Ma perché mai in banca la competenza non dovrebe contare? Smettiamola di credere che nell’era dei derivati e della finanza turbo si possa dirigere una banca se non si possiedono gli strumenti tecnici per farlo.