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 2013  gennaio 27 Domenica calendario

BUBOLA, NOTE DI CRONACA

Una lingua di terra inumidita da due fiumi. E nebbia, tanta nebbia che sfoca i contorni delle cose. In questa campagna della Bassa veronese — che è un po’ la nostra Mesopotamia, ritagliata fra il Po e l’Adige — si aggirano i ricordi di Massimo Bubola, le voci e i volti che hanno pompato sangue nel suo cuore bambino e gli hanno regalato la voglia di narrare, trasformandolo in uno dei cantautori più importanti della sua generazione.
Perché in quell’Italia contadina ormai scomparsa, nascere in un borgo come Terrazzo non era un accidente della cattiva sorte, ma l’occasione per far virare i colori acri della vita nelle tinte sfumate dei sogni. Bastava che nelle sere d’inverno il freddo fosse lama di coltello e ti costringesse a cercare riparo con gli altri dentro la stalla, o che il morso della calura estiva trascinasse tutti sull’aia a chiacchierare sotto un cielo trapunto di stelle, per vedere il mondo cambiare pelle e diventare un luogo incantato, con le frottole del nonno a far lievitare il pane di un racconto che avresti addentato per il resto dei tuoi giorni.
«Ho abitato in quella casa colonica fino ai sei anni — spiega Bubola — e lì ho ricevuto il mio imprinting. Ho imparato che la povertà, se ti insegna a essere solidale con il prossimo, può essere un valore e non soltanto una disgrazia, che Dio si nasconde in una risata improvvisa e che nessuno è mai vinto davvero. Le pagine del mio romanzo, Rapsodia delle terre basse, ricostruiscono l’epica di quell’infanzia, sono il tributo a una comunità che faceva della fantasia la sua erba medica, il rimedio ai dolori dell’esistenza. Il nonno, per imbellettare la memoria, diceva di aver combattuto al fianco di Garibaldi e raccontava battaglie da brivido, avventure malandrine... Ovviamente mentiva perché a quei tempi nemmeno era nato, ma io l’ho scoperto soltanto a vent’anni: fino a quel momento avevo creduto che fosse andata proprio così. È questo il potere della narrazione, un contagio che si diffonde nell’aria: in quei racconti, non a caso, affondano le radici di "Camicie rosse", una delle mie canzoni più famose. E poi c’è il verso iniziale di "Coda di lupo", uno dei brani scritti con Fabrizio De André, che fotografa esattamente l’atmosfera dei giorni trascorsi a Terrazzo: "Quando ero piccolo m’innamoravo di tutto, correvo dietro ai cani/e da marzo a febbraio mio nonno vegliava sulla corrente di cavalli e di buoi, sui fatti miei e sui fatti tuoi"».
Ma i ricordi non sanno soltanto di storie inventate e un po’ gradasse. Camminando accanto al padre, il bambino inciampa nella politica. «Lui era un partigiano della Brigata Adige, militante di Giustizia e Libertà. Lo accompagnavo di casa in casa a fare il doposcuola gratuito per le famiglie che ne avevano bisogno. Aveva liberato il nostro paese dai nazifascisti, era una figura che incuteva amore e rispetto, un uomo severo ma capace d’intenerirsi leggendo una poesia. All’epoca soffrivo d’una leggera forma di dislessia, lui mi poggiava sulle gambe le raccolte di Rilke e Hölderlin, e mi diceva: "Leggi e basta, non cercare di capire a ogni costo. Segui soltanto la musica delle parole...". Così mi ha insegnato il mistero della creatività. E dall’altra stanza, mentre i versi mi scorrevano nello sguardo, giungeva la voce melodiosa di mia madre che intonava le canzoni di Nilla Pizzi. Quest’abbraccio di musica e poesia ha fatto di me quello che sono oggi».
Inizi degli anni Settanta. Massimo ormai vive a Verona, in un quartiere abitato per la maggior parte da ferrovieri. «Lì potevi suonare in una band e giocare a pallone, per il resto non c’era altro da fare. Io mi dedicavo a entrambe le cose. Un giorno presi la chitarra e andai a Milano: avevo un’audizione con Roberto Dané, che ai tempi era anche il produttore artistico di Fabrizio De André. Mi fece incidere "Nastro giallo", un lavoro ovviamente ancora ingenuo, intriso di letteratura e surrealismo. Poco dopo mi fece incontrare Fabrizio che, terminato il disco con De Gregori, cercava un altro collaboratore. Francamente io non sapevo bene chi fosse, all’epoca ascoltavo soltanto Dylan e il rock americano. Eravamo tutti e due molto imbarazzati, ma cominciammo a parlare di calcio e l’atmosfera si sgelò. Per sette mesi non ne seppi più nulla. Poi un giorno, alle quattro del mattino, squillò il telefono. Mio padre venne a svegliarmi borbottando con voce incazzata: "C’è un cretino che fa gli scherzi in piena notte. Dice di essere Fabrizio De André... Vai a sentire che vuole e mandalo a quel paese". Invece era proprio Faber. Lo raggiunsi a Milano e in poco tempo nacque "Rimini". Dopo che venne sequestrato con Dori Ghezzi in Sardegna scrivemmo "L’indiano", forse l’album più famoso e venduto della sua discografia. Abbiamo praticamente lavorato e vissuto insieme quattordici anni: per sei mesi mi trasferivo all’Agnata, la sua tenuta isolana, e lì lavoravamo, pescavamo, cucinavamo... il nostro era un continuo scontro-incontro tra la mia cultura di stampo americano e la sua di carattere europeo. Ci rincontrammo quando mi chiamò a comporre "Don Raffaè" per l’album "Le nuvole". Non era facile stargli accanto, ma ho imparato un mucchio di cose e credo che anche lui, con le nostre canzoni, abbia assimilato un mondo diverso da quello che lo aveva formato. Del resto, l’intera produzione di Fabrizio è scandita dalle collaborazioni, perché era uno che traeva la sua forza poetica e musicale dal confronto con gli altri».
Quello con De André non è stato l’unico matrimonio artistico della carriera di Bubola. Ha suonato con nomi del calibro di Lou Reed, Steve Earle e Paddy Maloney, scritto canzoni per Fiorella Mannoia (su tutte «Il cielo d’Irlanda»), Mauro Pagani, Milva e tanti altri, prodotto una decina di album. Pochi giorni fa ha pubblicato il suo ventesimo disco, intitolato «In alto i cuori», accolto da ottime recensioni su giornali e riviste specializzate. È una raccolta di instant songs, brani costruiti su spunti dettati dalla cronaca come facevano i vecchi folk-singers americani e i nostri cantastorie. L’intera sequenza è scandita da una tensione civile e politica che sembrava ormai sparita dal panorama della canzone d’autore.
«Alla fine, l’obiettivo è sempre lo stesso: conservare la memoria. Volevo mettere insieme giornalismo, musica e poesia. Le notizie ci vengono scaraventate addosso, ma hanno una vita sempre più breve, si dissolvono subito nel frastuono che ci circonda. Invece molte raccontano come sta cambiando il tessuto delle nostre vite, il dna stesso della cultura italiana. Brani come "Un paese finto", "Hanno sparato a un angelo", "Tasse sui sogni", "Analogico-Digitale" (curiosa perché scritta con Beppe Grillo all’epoca nemico del web, ndr) sono fotografie di questo mutamento. Mick Jagger diceva: "Chi compra i giornali di ieri? Nessuno. Tutti, al contrario, comprano le canzoni di ieri". Ecco, la mia speranza è che di quelle notizie, e delle questioni etiche poste in esse, resti una traccia nel tempo e nella coscienza delle persone. I cantautori non sono profeti biblici, non custodiscono alcuna verità. Possono soltanto offrire una visione del mondo. Per questo il rock è letteratura: racconta la realtà con uno sguardo parziale che, tuttavia, parla al cuore e alla mente di molti. E quello sguardo, per me, deve riflettere anche la cronaca. Perché sono le storie a fare la Storia».
Enzo D’Errico