Giovanni Bianconi, la Lettura (Corriere della Sera) 27/01/2013, 27 gennaio 2013
TOGHE CON LE GONNE. LA RIVINCITA
Chissà che direbbe oggi il presidente di tribunale Antonio Romano, classe 1895, a vedersi circondato da tante toghe indossate sopra una gonna. Non possiamo saperlo. Sappiamo invece quel che disse l’11 novembre 1947 dai banchi dell’Assemblea costituente dov’era stato eletto nelle liste della Democrazia cristiana, mentre si discuteva della possibilità di aprire al mondo femminile le porte dell’amministrazione della giustizia.
«Da alcuni s’è detto — proclamò Romano — che potendo le donne esercitare la professione di avvocato, debbono poter essere anche magistrati. In verità, io invito a meditare sull’opportunità di questa norma. Oggi, chi per un verso chi per altro, tutti si concordano per allontanare la donna dal focolare domestico. La donna deve rimanere la regina della casa, più la si allontana dalla famiglia, più questa si sgretola». Il verbalizzante d’aula rilevò gli applausi di alcuni deputati, e Romano proseguì: «Con tutto il rispetto per le capacità intellettive della donna, ho l’impressione che essa non sia indicata per la difficile arte di giudicare. Questa richiede grande equilibrio, e alle volte l’equilibrio difetta per ragioni fisiologiche». La sua collega di partito Maria Federici, insegnante di lettere nata nel 1899, lo interruppe: «È un antiquato». «Meglio così», rispose Romano fra le proteste delle (poche) signore presenti in aula. Finché il magistrato concluse: «Questa è la mia opinione, le donne devono stare a casa».
Allo stesso modo la pensava l’altro costituente democristiano Giuseppe Cappi: «La ragione della diffidenza diffusa di fronte a una donna giudicante sta nella prevalenza che nelle donne ha il sentimento sul raziocinio, mentre nella risoluzione delle controversie deve prevalere il raziocinio sul sentimento». E l’avvocato Salvatore Mannironi, pure lui della Dc: «Nella sua costituzione psichica la donna non ha le attitudini per fare bene il magistrato, come dimostra l’esperienza pratica in un campo affine, cioè nella professione dell’avvocato. Tutti avranno notato quale scarsa tendenza e adattabilità abbia la donna per questa professione perché le manca, proprio per costituzione, quel potere di sintesi e di equilibrio assoluto che è necessario per sottrarsi agli stati emotivi».
Gli stessi giudici erano contrari all’integrazione dei sessi nel loro ambiente, come ricordò il socialista Mancini. Il quale, pur sostenendo la tesi opposta, non sfuggì a certi stereotipi: «La magistratura vuole chiudersi in una casta senza sesso, in una torre d’avorio... Disdegna che un gentile sorriso venga a rompere l’austerità e la grinta (per non dire la mutria!) di certi magistrati... L’uomo si umanizza vicino alla donna... Dal naso di Cleopatra fino all’imperatrice senza impero, la duchessa di Castiglione, vi è una dorata catena di vezzi che insidiano il movimento storico!... Quale cuore più generoso e più gentile del cuore di una donna, che valuta i fatti umani e vivifica col sentimento la dura norma della legge?».
Alla Costituente intervennero anche le deputate (piccola minoranza rispetto ai deputati, ovviamente), per affermare le ragioni della parità. Dalla stessa Maria Federici alla comunista Maria Maddalena Rossi. Senza successo. L’Assemblea decise di non decidere: fu tolta la preclusione, ma l’accesso femminile all’ordine giudiziario venne rinviato alla legge ordinaria. Giunta con quindici anni di ritardo. Prima ci volle una sentenza della Corte costituzionale, che nel 1961 cancellò la norma del 1919 con cui le donne venivano espressamente escluse «dall’esercizio della giurisdizione». E solo nel 1963, con la legge numero 66 varata il 9 febbraio, il Parlamento repubblicano decretò la svolta. Articolo 1: «La donna può accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura, nei vari ruoli, carriere e categorie, senza limitazione di mansioni e di svolgimento della carriera».
Accadeva cinquant’anni fa. Ne trascorsero altri due per arrivare al primo concorso aperto a tutti, superato da otto donne che s’intrufolarono tra i 5.647 magistrati dell’epoca. Lo 0,14 per cento. Mezzo secolo più tardi, febbraio 2013, su 8.948 toghe in servizio, 4.209 sono indossate da donne. Il 47 per cento. La metà è quasi raggiunta, e la quota aumenta di anno in anno. Il sorpasso è solo questione di tempo, visto che tra i nuovi ingressi è già avvenuto da qualche anno. Al concorso del 2009, su 325 vincitori, i due terzi (210) erano donne. E nel 2010 sono salite a 214, sempre su 325 ammessi all’ordine giudiziario.
Dunque in mezzo secolo la situazione s’è capovolta, imprimendo una svolta al modo di esercitare la giurisdizione. Paola Di Nicola, magistrato figlia di magistrato, nata quando le porte dei tribunali s’erano appena aperte all’altra metà del cielo, ha voluto raccontare in un libro (La giudice, edizioni Ghena, pp. 190, € 14) la sua esperienza di donna (e di moglie, e di madre) in toga. Partendo proprio dal dibattito alla Costituente, che riletto oggi può apparire persino surreale, per arrivare a episodi che spiegano meglio di qualunque dissertazione i cambiamenti avvenuti nel mondo della giustizia.
Grazie alle femmine chiamate a giudicare un universo quasi esclusivamente maschile, come dimostrano le cifre su imputati e condannati nei processi penali. Nel microcosmo di quelli finiti in carcere, alla fine del 2012, su 65.701 detenuti solo 2.804 erano donne. Appena il 4 per cento.
La giudice De Nicola rievoca il processo per stupro svoltosi a Latina nel 1978, divenuto famoso perché ripreso dalle telecamere della televisione pubblica, dove il giudice chiamato a decidere «consente, troppo spesso, domande tanto morbose quanto irrilevanti, toni sprezzanti nei confronti della vittima, atteggiamenti percepiti come scherzosamente complici» tra gli uomini che partecipano al giudizio. Fino a far sbottare l’avvocata Tina Lagostena Bassi: «Quello che è successo qua dentro si commenta da solo, ed è il motivo per cui migliaia di donne non fanno le denunce, non si rivolgono alla giustizia».
Trent’anni dopo, sempre a Latina, ecco un altro processo per presunto stupro. Ma il tribunale è composto da tre signore (tra cui Paola Di Nicola), il pubblico ministero è una signora e pure l’avvocato. L’unico maschio è l’imputato, assolto per mancanza di prove dopo un dibattimento in cui si percepisce, grazie al tenore degli interventi di accusa e difesa «l’attenzione a evitare, nelle minime sfumature, qualsiasi lesione della dignità della donna che denuncia e dell’uomo che si difende».
Se le donne magistrato hanno ormai raggiunto il numero degli uomini, negli incarichi direttivi la situazione è ancora molto sbilanciata: siamo all’81 per cento di maschi negli uffici giudicanti e all’89 per cento in quelli requirenti (i pubblici ministeri). Perché solo da poco le donne hanno raggiunto un’età e un’esperienza che offre loro la possibilità di essere nominate ai vertici di procure, tribunali e corti, ma anche perché la maggior parte di esse ha scelto di diventare madre e sobbarcarsi la vita familiare. Sottraendo tempo alle pubblicazioni scientifiche e al conseguimento di altri titoli necessari per accedere a ruoli dirigenziali. «Non ci sono pregiudizi — spiega Paola Di Nicola —, si tratta di uno scoglio superabile solo con l’adozione di criteri diversi per le nomine. Al momento anche il numero di domande delle colleghe, per concorrere a posti di maggiore responsabilità, è inferiore a quelle degli uomini, proprio perché non abbiamo sufficiente tempo extralavorativo da mettere a disposizione della carriera. È una scelta, non un’imposizione, dettata però dalle regole attuali». Chissà se un giorno cambieranno, portando a termine la rivoluzione cominciata cinquant’anni fa.
Giovanni Bianconi