Adriano Favole, la Lettura (Corriere della Sera) 27/01/2013, 27 gennaio 2013
LA BATTAGLIA DELLE OSSA TRA INDIGENI E SCIENZIATI
Il 15 agosto del 2002 mi trovavo a Darwin, nel nord dell’Australia. Quel giorno la parte «bianca» della città celebrava la Giornata delle famiglie pioniere, con la proiezione di diapositive degli antenati britannici che, sul finire dell’Ottocento, avevano colonizzato il territorio in cui sorge la città. Due giorni prima, nei pressi della spiaggia più nota di Darwin, Mindil Beach, era andata in scena un’altra cerimonia. I larrakia, gli aborigeni che vivono in quell’area da tempo immemorabile, avevano celebrato un funerale particolare. I resti di 87 persone, saccheggiati un secolo prima da un chirurgo della marina militare inglese per essere venduti all’Università di Edimburgo, erano stati restituiti alla comunità aborigena e vennero ritualmente deposti in un memoriale eretto nel 1991, in occasione della restituzione del primo cranio. Il saccheggio dei resti era avvenuto in un cimitero attivo del litorale, in un’epoca in cui i corpi degli aborigeni australiani erano avidamente ricercati da antropologi fisici, paleoantropologi e frenologi, come testimonianze tangibili di società ataviche e primitive. Le due cerimonie, la Giornata dei pionieri e il funerale larrakia, testimoniavano con palese evidenza la contrapposizione tra bianchi e aborigeni, una memoria tuttora scissa e fratturata, ferite della storia lungi dall’essere rimarginate.
Restituzioni e funerali come quelli di Darwin si sono ripetuti con frequenza negli ultimi trent’anni in Paesi come gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia e la Nuova Zelanda. Il dibattito sulla opportunità di esibire, studiare e conservare i resti umani nei musei ha assunto un’ampia dimensione internazionale e prestigiose riviste scientifiche hanno ospitato articoli e prese di posizione. Per questo stupisce il fatto che le recenti vicende del museo Lombroso di Torino siano trattate alla stregua di questioni tutte italiane, ridotte a folklore politico locale, come se si trattasse di una tempesta in un bicchiere (di acqua del Po). La riapertura del museo Lombroso nel 2009, con l’esposizione di crani e altri resti umani, suscitò fin dall’inizio polemiche e denunce da parte di associazioni borboniche e meridionaliste (ma non solo), che hanno portato prima all’ingiunzione da parte del tribunale di Lamezia Terme (3 ottobre 2012) per la restituzione al Comune di Motta Santa Lucia del cranio di Giuseppe Villella, il «brigante» che ispirò a Lombroso la teoria dell’atavismo criminale; in seguito alla presa di posizione a favore della restituzione da parte del Comune di Torino (14 gennaio scorso). A marzo, la Corte d’appello sarà chiamata a esprimersi in merito al ricorso presentato dal museo e dall’Università di Torino contro la sentenza del tribunale. Un precedente è costituito dal caso di Giovanni Passannante, il repubblicano che attentò alla vita di re Umberto I: il suo cranio, esposto nel museo di criminologia Altavista di Roma fino al 2007, fu poi restituito al Comune di Savoia di Lucania.
A mio parere, senza trascurare le peculiarità del caso, situare in un contesto più ampio l’affaire Lombroso e altre vicende simili che, a cascata, si stanno aprendo nel nostro Paese — ne è testimonianza la recente dichiarazione della direttrice del museo Egizio di Torino di voler rinunciare a esporre le mummie — aiuterebbe non solo a capire meglio cosa sta succedendo nei/ai musei italiani; ma anche a percorrere strade innovative, per far sì che il dibattito non finisca per rafforzare antiche contrapposizioni, «etnicizzando» ulteriormente la memoria storica del nostro Paese.
Tutto ebbe inizio negli anni Settanta, quando attivisti nativi americani e australiani, maori e inuit cominciarono a denunciare le modalità di appropriazione dei resti umani da parte degli scienziati ottocenteschi: furti, saccheggi di antiche sepolture e cimiteri attivi, prelevamento di parti anatomiche in seguito a scontri e violenze furono in effetti tutt’altro che rari nella storia coloniale.
Allo stesso modo, a essere denunciate furono le logiche espositive: non solo per il gusto del macabro che esse suscitavano, ma perché i musei occidentali, con le loro tipologie fisiche e con lo sguardo evoluzionista, hanno rafforzato rappresentazioni a sfondo razzista. A partire da queste denunce, molti Paesi hanno messo a punto revisioni legislative, provvedendo a distinguere i resti umani e, in alcuni casi, anche gli oggetti sacri da altre tipologie di beni culturali: il Native American Graves Protection and Repatriation Act del 1990 ne è un esempio, ma molti altri Paesi (compresi, di recente, la Gran Bretagna e la Francia) hanno intrapreso percorsi simili — senza che i musei siano stati «svuotati», come paventato da numerosi esponenti del mondo scientifico italiano.
La prima fase della protesta ha avuto toni piuttosto radicali e ha portato anche alla restituzione di resti molto antichi. Nel 1990 in Australia, una collezione di resti umani (la «Kow swamp collection») datati tra i 9.000 e i 15.000 anni furono restituiti a una comunità, gli echuca, che non poteva vantare alcuna discendenza biologica con quegli antichi abitanti, ma viveva nell’area in cui furono ritrovati gli scheletri. La perdita di quei resti — che sono stati restituiti e inumati —, preziosi per capire le dinamiche del popolamento dell’Australia, è stata paragonata all’impatto che avrebbe per un egittologo la distruzione delle piramidi!
Una seconda fase della protesta, apertasi a partire dagli anni Novanta, ha portato a riflessioni più meditate. Da un lato è emerso che non tutte le società auspicano la restituzione. A più riprese ho avuto occasione di discutere con alcuni kanak della Nuova Caledonia sull’opportunità di rimpatriare il cranio di Ataï, il leader politico che nel 1878 aveva guidato una rivolta antifrancese. Catturato e ucciso, Ataï venne decapitato e la sua testa inviata come trofeo a Parigi, dove fu studiata dal celebre neurologo e antropologo fisico Paul Broca. I kanak vedono con difficoltà il rimpatrio di quella reliquia storica, che porrebbe problemi legati al luogo di sepoltura, all’identificazione dei discendenti, oltre a riaprire antiche ferite.
Nel 1998, in un articolo apparso sulla rivista americana «Current Anthropology», D. Gareth Jones e Robyn J. Harris hanno identificato alcuni criteri importanti per decidere eventuali restituzioni, tra cui l’antichità dei reperti, la data di ritrovamento, la liceità o meno del prelievo, la possibilità di tracciare un legame di discendenza con i pretendenti alla restituzione. Questa tipologia è lungi dall’essere soddisfacente, ma lavori simili hanno avuto il merito di aprire la strada a soluzioni nuove. In Nuova Zelanda, per esempio, alcuni musei hanno sperimentato forme di custodia condivisa dei resti umani, che sono depositati in aree «sacre» all’interno dei musei stessi. Sottratti alle esposizioni (un provvedimento attivo ormai in quasi tutti i Paesi occidentali), essi possono essere studiati con il consenso delle tribù maori che vantano rapporti di discendenza biologica o affettiva.
È in queste forme di «patrimonializzazione condivisa» che risiede uno degli esiti più interessanti del dibattito su resti umani e musei. Le richieste di restituzione non segnano necessariamente una sconfitta della scienza, il trionfo del particolarismo sull’universalismo. Antropologi e archeologi, per esempio, sono oggi molto più attenti a discutere gli obiettivi e i risultati delle loro ricerche con le comunità locali. Questo rinnovato dialogo non può che prendere le mosse dal riconoscimento della natura intrinsecamente ambivalente dei resti umani: se il riduzionismo scientista li trasforma in «campioni di studio» e «beni culturali», non si può dimenticare che per gran parte delle persone si tratta pur sempre di «resti di umanità» che oscillano tra materia e persona, tra oggetto e soggetto, tra cose e antenati.
Adriano Favole