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 2013  gennaio 27 Domenica calendario

BENVENUTI A SAIGONELLA

Drone significa fuco, ma naturalmente la rivista «The aviationist» non preconizza un’invasione di api in Sicilia definendo «Sigonella, Italy, la prossima capitale mondiale dei droni».
La parola del vecchio inglese dran è diventata per tutti sinonimo di aereo senza pilota, unmanned aerial vehicle (Uav), per meglio dire aeromobile a pilotaggio remoto. Nel 1935 gli inglesi misero a punto un modello radiocomandato chiamandolo Queen Bee, ape regina, da cui leggenda vuole si arrivò al nome di drone. In effetti fino agli anni 80 i droni erano inetti e marginali al pari dei fuchi. Inaffidabili come velivoli spia, cadevano spesso (nella guerra del Vietnam oltre 400 andarono persi). Sembra incredibile che i loro eredi, «giocattoli» lunghi una decina di metri (i modelli più usati: Predator A e B ovvero Reaper), stiano cambiando il modo di fare la guerra o di monitorare la pace. Eppure è vero: gli Stati Uniti hanno già un alveare di settemila esemplari (erano una cinquantina 15 anni fa) grandi e piccoli e oltre 1.300 piloti (per riempire i ranghi ne mancano 300) che li guidano da terra con il joystick, seduti per ore davanti a una selva di schermi e comandi. La Nato punta sui collaudati Global Hawk (che avranno base a Sigonella) per il sistema Alliance Ground Surveillance (Ags) che veglierà dal Mediterraneo all’Europa dell’Est a partire dal 2015-2017.
Se il loro cielo oggi è soprattutto afghano (i britannici hanno appena raddoppiato la flotta in loco), le prime vere missioni furono in Europa: nei cieli della Bosnia, anni 90. Poi l’Iraq: alla base White Horse di Baquba, nel 2005 un colonnello americano parlava del suo Hunter da ricognizione che inseguiva i cattivi sunniti spinto da un motore di moto Guzzi. Questa meccanica di recupero non era un’eccezione: per i Predator in origine si usavano i motori dei gatti delle nevi. Gli ultimi Reaper, top di gamma, che sganciano missili Hellfire e bombe a guida laser sui capi talebani e su chi li circonda, hanno un motore a turbina, sono sempre lenti (per sfuggire ai radar) ma salgono a 15 mila metri: la Cia li impiega per gli omicidi (poco) mirati di sospetti terroristi in Paesi con i quali gli Usa non sono in guerra: Yemen, Somalia e in particolare Pakistan (dove secondo uno studio del Dipartimento diritti umani dell’Università di Stanford i droni hanno ucciso in un decennio circa tremila persone, di cui una stima che varia tra i 474 e gli 881 civili, 176 minorenni). E la corsa ai droni non poteva non contagiare la Cina: all’ultima fiera aeronautica di Zhuhai lo scorso novembre sono stati presentati il CH-4 e lo Pterodattilo che sono cloni degli americani Predator e Reaper, mentre il Dragone Ascendente sembra un cugino del vecchio Global Hawk, il più grande Uav in circolazione che nidifica anche nel Mediterraneo dove i droni sono sempre più comuni.
In prima linea, dalla guerra in Libia alla crisi in Mali. Il Reaper, il drone killer che (insieme ai caccia tradizionali Mirage) ha colpito la colonna delle auto di Gheddafi nell’ultima inutile fuga, si è alzato in volo probabilmente dalla base di Sigonella che ospita anche la Naval Air Station della Marina Usa. Gli americani la chiamano Saigon, giocando sull’assonanza dei nomi e la diversità dei luoghi: niente per loro è più lontano dalla guerra del Vietnam (anche se proprio in terra siciliana subirono una piccola cocente sconfitta nel 1985 ad opera degli italiani che rifiutarono di consegnare l’aereo di Abu Abbas). Diversità di luoghi e di epoche: oggi «Saigonella» è il simbolo della guerra a distanza, telecomandata, negli intendimenti chirurgica. La guerra dei droni, ex gregari inaffidabili e artigianali che vanno colonizzando da protagonisti le forze armate di mezzo mondo.
Il generale Norton Schwartz, fino al 2012 chief of staff dell’Air Force, ex pilota che nel 1975 partecipò alla missione per evacuare Saigon, ha detto che nel prossimo futuro i piloti di terra supereranno per numero quelli dell’aria (attualmente non più di 3.600), anche se almeno fino al 2030, prevede Schwartz, ci sarà un posto per i top-gun dei cieli. Gli uni e gli altri per ora condividono le stesse basi nei deserti del Sud-Ovest, gli eletti dei caccia F-22 e i pantofolai dei Predator, gli assi della cloche e i pendolari del joystick, come ha raccontato William Langewiesche in Esecuzioni a distanza (pubblicato in Italia da Adelphi, 2011). La vita dei piloti di terra può sembrare la routine di chi va in ufficio la mattina. In macchina nel traffico, la base, la postazione con tastiera accanto all’assistente operatore addetto al puntamento laser e alla telecamera (l’intero equipaggio è composto da due persone). Una mano sulla leva dell’acceleratore, l’altra sul joystick del volo manuale, anche se per la maggior parte del tragitto i droni si guidano con l’autopilota. E per forza: possono stare in aria per 24 ore di fila, sorvolando una zona, aspettando una preda. Le operazioni di decollo, atterraggio, manutenzione, caricamento armi sono curate nelle più piccole basi in teatro (che siano in Afghanistan, Etiopia o nel Mediterraneo). Al decollo questo secondo equipaggio guida il drone via radio per circa un minuto prima di lasciarlo nelle mani dei compagni che di solito sono back home, negli Stati Uniti. Dalla tastiera del pilota i comandi giungono a destinazione dopo due secondi dal clic, attraverso i collegamenti in fibra ottica sotto l’Atlantico fino a una centrale in Europa e da lì al satellite che li rilancia all’antenna del drone collocata nella parte anteriore in una specie di abitacolo cieco. Non c’è visuale diretta perché il pilota vede le immagini parziali della telecamera del drone, sta in chat con i superiori e gli esperti legali che eventualmente danno il via libera per il lancio di un missile o di una bomba. Più adrenalina o più noia? I ricercatori del Mit di Boston, dipartimento aeronautica, hanno studiato una trentina di piloti di droni (maschi e femmine). Hanno performance migliori solo quelli che ogni tanto si distraggono (musica, telefonate, popcorn). «La noia è il nemico principale — sostiene la curatrice Mary Cummings — come in tutti quei sistemi in cui un essere umano fa da babysitter a una macchina».
Le cose sono molto più complicate ed entusiasmanti per Vincenzo Sicuso, 45 anni, colonnello della nostra Aeronautica, che ha pilotato sia i caccia (F-16, F-104) sia i droni (Predator). La differenza non è tra terra e cielo, top-gun e nerd al computer. «Io li chiamo pilota tradizionale e pilota ad alta tecnologia — dice a "la Lettura" —. Il bagaglio del primo è indispensabile per gestire al meglio le nuove competenze del secondo». Emozioni diverse ma stessa intensità. Sicuso è stato tra i primi italiani a pilotare i Predator (più economici dei jet), prima in Iraq e poi in Afghanistan. «Ricordo che allora pensavo: tra 50 anni voleranno quasi tutti così». Il fatto che non sei in aria sopra i monti afghani ma seduto ad Amendola, provincia di Foggia, non facilita le cose. Anzi. «Devi immedesimarti nel tuo velivolo con tutti i suoi sensori. La tecnologia non riduce l’elemento umano, anzi lo rende ancora più necessario». Il colonnello ora addestra i futuri piloti di droni. Non è come un videogioco: «Capisco che sono pronti quando comincio a vederli sudare». L’Aeronautica ha 6 Predator-A in Afghanistan, mentre 6 nuovi Predator-B nella base di Amendola non sono ancora operativi. L’Italia ha chiesto all’America il via libera per l’acquisto dei kit di armamento (privilegio accordato finora solo alla Gran Bretagna). Anche noi droni killer? Da un anno la richiesta è ferma al Congresso di Washington; c’è chi è contrario a esportare tecnologia militare del genere. Nel Sud della California, l’industria dei droni dà lavoro a 10 mila persone. Tutto è cambiato da quando negli anni 40 un reporter militare scopriva una star fotografando una dipendente bionda con un drone radiocomandato in braccio: Marilyn Monroe.
Michele Farina