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 2013  gennaio 27 Domenica calendario

GADDA, GATTOPARDO

& C. LE VERE OPERE D’ARTE SI RICONOSCONO SOLO COSI’ - La casa editrice Atlante di Bologna pubblica dei bei libroni intitolati: 501 film, 1001 libri eccetera. È un’idea che nasce a Londra e che in Italia trova un terreno fertile. L’impronta anglosassone è più che evidente: bisogna sistemare tutto, bisogna essere veloci ed esaurienti e, se possibile, anche eleganti: il sapere, il buon sapere, in un volume solo.
Sfogliando 1001 libri è difficile non riflettere su cosa significhi una simile selezione. Essa ha la sua nobile origine ne Il canone occidentale di Harold Bloom, un libro del 1994; ma ha le sue mille e una diramazioni di tipo popolare (mi riferisco sempre al mondo anglosassone) esemplate nei «Reader’s Digest». Ovviamente la radice dell’idea è più antica. Non saprei dire a quando risalga. Leggendo Il manoscritto di Stephen Greenblatt — la storia del ritrovamento da parte di Poggio Bracciolini del De rerum natura di Lucrezio — si vede come nella testa dell’umanista questa idea, l’idea del libro prezioso, ovvero del capolavoro, fosse presente e piuttosto precisa.
Precisa? Qui cominciano i dolori. Che Poggio Bracciolini avesse ritrovato un testo famoso per i tramandamenti altrui scritto quindici secoli prima, e pensasse d’avere in mano un simile oggetto, cioè un capolavoro, è normale. Non è normale, ossia non è scontato, che quel tale testo potesse essere così definito. Di fronte al manoscritto del De rerum natura, o a una sua qualunque copia a stampa, è più giusto parlare di classico. Il De rerum natura è sicuramente un capolavoro, ma prima ancora è un classico, qualcosa che dura nel tempo. Classico e capolavoro sono due cose differenti.
L’esigenza di definire capolavoro un testo penso debba essere ricondotta in modo sempre più perentorio alla contemporaneità. Per due motivi, antitetici all’idea di classicità. Il primo deriva dall’abbondanza della produzione. Si realizzano così tante opere (di tipo estetico) che diventa legge di sopravvivenza una rapida scrematura. Chi ha voglia di leggere tanti libri, vedere tanti film, assistere a tanti spettacoli e visitare tante mostre? Se poi pensiamo che questa esigenza selettiva si sposa con l’altra esigenza, quella commerciale e pubblicitaria, eccoci alla conclusione che il concetto di capolavoro non è antico, non è moderno, è postmoderno. Quaranta, o trent’anni fa, tutti i libri di Italo Calvino erano capolavori. Oggi che cosa sono? Oppure: qual è il capolavoro di Calvino? Scrisse un libro che per qualità si distingue dagli altri?
Rimanendo nell’ambito d’una contemporaneità in senso ampio (ne uscissimo torneremmo a parlare di classici: Svevo è un classico, Pirandello è un classico, e lo sono Ungaretti e Montale) è giusto osservare che capolavori si danno, che cioè potremmo usare questo termine senza rischio d’essere sbeffeggiati, allorché su un nome o su un titolo converge una sia pure ipotetica unanimità.
Allora, sono indubbi capolavori due libri degli anni Cinquanta del XX secolo, Quer pasticciaccio di Carlo Emilio Gadda e Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Ma come metterla con Cima delle nobildonne di Stefano D’Arrigo, un romanzo del 1976, o con Ogni terzo pensiero di Giovanni Raboni, che è del 1993 — libri che sono capolavori in sé ma che a maggior titolo tali ci appaiono nel contesto dell’opera dei loro autori? Un margine d’oscillazione, nel pensiero d’un testo, talvolta è quanto ne attesta il valore più che un verdetto definitivo.
Il secondo motivo lo si legge in un articolo ironico e disincantato di Guido Vitiello uscito su «la Lettura» della scorsa settimana. Vitiello poneva in luce come il pensiero del bello stia svanendo dalle nostre coscienze (benché di questa parola, bellezza, si faccia sproporzionato uso) e ad esso si vada sostituendo il pensiero del carino. Carino e capolavoro sembrano refrattari l’uno all’altro: di opere carine, ossia di capolavori, ve ne sono sempre di più, è facile averne, si possono compilare una quantità innumerevole di libri come quelli dell’editore Atlante: 1001 gioielli, 501 giardini eccetera.
Chi compila questi libri può metterci ciò che vuole. Apro a caso 1001 libri. La pagina che ho di fronte mostra una foto dello scrittore americano T. Coraghessan Boyle, del quale si riassume il romanzo La fine del mondo («immensa sinfonia di temi, motivi, variazioni»), e una scheda per La fata carabina di Daniel Pennac («tutti i problemi della vita quotidiana»). Sono questi due libri dei capolavori? Sinceramente ne dubito. Eppure, nelle pagine precedenti vi erano ben altri nomi e ben altri titoli. È dunque null’altro che un problema di prospettiva temporale o geografica (il luogo dal quale si emette la sentenza)? Un poco sì, ma non solo. A parte l’ansia di accumularne un bel numero il problema resta quello di definire che cos’è un capolavoro. Direi con molta semplicità che la ragione di questo termine è nel suo etimo: la cuspide di una serie di opere. E già si apre un nuovo problema: in rapporto alle opere di un autore o in rapporto a un tempo limitato, a un’epoca, a un luogo, a tutti i tempi e luoghi?
Definito in via preliminare il campo prospettico — operazione indispensabile ove non si voglia scadere nel mero strillo pubblicitario — ecco che capolavoro è quasi certamente il tentativo di fissare un’opera nei termini di un raggiungimento, d’una pienezza, ovvero d’un’esemplarità. Ma c’è da precisare, una volta ottenuto il risultato d’una misura, se la qualità di capolavoro non sia per caso reversibile: in un tempo successivo ciò che ci appare oggi in una luce di splendore, anche un testo che ci precede di tre secoli, in futuro non sembrerà sgraziato, fuori norma, smisurato?
Vale ciò che Susan Sontag scrisse per Hitler, un film dalla Germania di Hans-Jürgen Syberberg: «Il suo film appartiene a quella categoria di nobili capolavori che chiedono e sanno imporre un vassallaggio. Dopo aver visto Hitler, c’è il film di Syberberg, e poi ci sono altri film che si possono ammirare. Come è stato detto, con rimpianto, da Wagner, guasta la nostra tolleranza verso tutti gli altri». Se davvero c’è un capolavoro, questo è solo il testo che si comporta come Wagner suggeriva — in specie a noi, che siamo tutti diventati iper-tolleranti e di bocca buona.
Franco Cordelli