Daniele Manca, Corriere della Sera 27/01/2013, 27 gennaio 2013
«GLI ULTIMI GOVERNI BOCCIATI SULLA CRESCITA. LA POLITICA NON DELUDA ANCORA GLI ITALIANI»
«Schieramenti, candidature, Mps...». Giorgio Squinzi scuote il capo. Lo dice a mezza voce. Ma si capisce che questa campagna elettorale giocata sinora tutta dentro la logica interna ai partiti, che la gente non capisce più, gli sembra perlomeno inadeguata. Da poco più di 72 ore ha presentato un «Progetto per l’Italia». Così l’ha chiamato Confindustria. «Può apparire pretenzioso. In realtà la situazione è molto difficile. Quando si perde nel giro di sei anni quasi l’8% del Prodotto interno lordo e il settore manifatturiero il 25% del volume di produzione, non si può più aspettare. È necessario porvi rimedio. Ci deve essere l’impegno di tutti. E le imprese sono pronte a fare la loro parte. Il bilancio dei governi degli ultimi anni sul fronte della crescita è magro. La politica adesso non può rischiare di deludere ancora gli italiani. Il nostro Paese deve ritrovare la sua ambizione di ottava potenza industriale al mondo e di seconda in Europa».
Facile a dirsi, meno a farsi...
«Sono fermamente convinto che il nostro Paese possa crescere almeno del 2% l’anno da qui al 2018, riportare la quota di manufatturiero dal 16% al 20% (la Germania è al 26%) e far scendere il debito intorno al 100% del Pil, con un’occupazione che può aumentare di 1,8 milioni di unità sempre entro il 2018».
Giorgio Squinzi, da 8 mesi presidente dell’organizzazione degli industriali, non perde tempo. Classe 1943, nato a Cisano Bergamasco per caso (la sua famiglia era sfollata), in realtà milanese doc, ci tiene a non creare equivoci: «Lei starà pensando che il nostro Progetto sia un elenco di richieste delle imprese...».
Da quello che ho letto, quello che voi chiamate una terapia d’urto sono anche richieste come eliminare progressivamente il costo del lavoro dalla base imponibile dell’Irap, tagliare l’11% degli oneri sociali che gravano sull’industria.
«In realtà è molto di più. È un modello economico articolato, in cui sono indicate misure esattamente quantificate e coperte da un punto di vista finanziario, che servono per ridare competitività al Paese. Sì, ci sono anche cose che chiediamo: che lo Stato rispetti i nostri diritti, ad esempio pagando intanto almeno i due terzi dei debiti commerciali accumulati verso le imprese e rimborsando i crediti di imposta. Mi sembra il minimo. Lo Stato deve onorare i suoi debiti e per primo rispettare le regole. Sono soldi delle imprese che servono per rimettere capitali in circolo, far ripartire l’economia e quindi sostenere gli investimenti in ricerca e nuove tecnologie, la frontiera irrinunciabile della competizione economica».
Lo vede, sono richieste.
«Sono proposte per il Paese. Come la riduzione dell’Irpef sui redditi più bassi, che proponiamo di finanziare con i proventi della lotta all’evasione e una redistribuzione del carico fiscale, che passa anche dall’armonizzazione delle aliquote Iva. E non le rivelo un segreto se le dico che non tutti erano all’inizio d’accordo su questa misura».
Ma non sarà certo con l’armonizzazione dell’Iva che si pagheranno tutte le richieste.
«Assolutamente no. Proponiamo tagli incisivi e selettivi alla spesa pubblica corrente primaria al netto delle prestazioni sociali nella misura dell’1% l’anno. Si dovrà poi dismettere e privatizzare una parte del patrimonio pubblico per incidere sul nostro debito. Proponiamo il riordino degli incentivi alle imprese che ammontano a 31,4 miliardi, dei quali peraltro meno di 3 vanno all’industria. Noi imprenditori siamo responsabili e siamo pronti a fare la nostra parte. Perché o si rimette in moto il Paese o perdiamo tutti: imprese, cittadini e lavoratori».
E proprio a loro chiedete di lavorare 40 ore in più all’anno, una settimana circa... non male.
«Su questa proposta è bene fare chiarezza. È una misura che va letta unitamente a tutte le altre che proponiamo: puntare sul manifatturiero, riducendo i costi per le imprese e sostenendo gli investimenti in ricerca e innovazione, per renderle più competitive sui mercati internazionali e rilanciare così le esportazioni. Questo richiede un aumento della produzione. Per questo proponiamo che le imprese che ne abbiano bisogno utilizzino la possibilità di lavorare 40 ore in più all’anno. Ci sono evidentemente vantaggi per le imprese, ma anche e soprattutto per i lavoratori, che avrebbero più soldi in busta paga perché quelle ore aggiuntive sarebbero detassate e decontribuite. Questo vuol dire retribuzione doppia e rilancio dei consumi. E anche maggiore occupazione: oltre 40.000 unità in più proprio grazie agli effetti di questa misura. Per gestire una crisi bisogna dare orizzonti».
Tutti lo vorrebbero.
«Certo. Però noi facciamo una proposta articolata e completa e ne misuriamo gli effetti. Una proposta che va presa in tutti i suoi aspetti e in tutte le sue parti».
Ma come crede che Susanna Camusso possa essere d’accordo sul far lavorare una settimana in più le persone?
«Stiamo parlando di meno di un’ora aggiuntiva a settimana. Ripeto: pagata il doppio. Il gioco vale la candela. Bisogna essere pragmatici. Con questo metodo in altra veste e altro ruolo nel sistema confindustriale ho firmato 6 rinnovi contrattuali senza un’ora di sciopero».
Sembra una critica velata a Marchionne che invece di accordi separati ne ha fatti... E per farlo è anche uscito da Confindustria.
«Non cerchiamo ombre dove non ci sono. No, nessuna critica, Marchionne è un grande manager, che ha fatto valutazioni rispetto a una particolare contingenza. Con l’intelligenza che lo contraddistingue un giorno potrebbe valutare la situazione in modo differente...».
Si aspetta una telefonata?
«Ho un rapporto personale recente e lo sento sempre con grande piacere».
Confida insomma in un appoggio dei sindacati? Anche Camusso ha presentato il suo Piano del lavoro venerdì, chiamato così come quello di Di Vittorio del 1949.
«Mi piace questo richiamo ai tempi della ricostruzione, perché della ricostruzione del Paese bisogna parlare. Ci sono alcuni obiettivi e misure condivisibili nel piano della Cgil, altre meno, com’è normale che sia. C’è una visione verso le imprese, che oggi mi pare un po’ antiquata, ma c’è un importante punto di contatto: il rapporto tra rigore e crescita. È un punto di partenza su cui ci confronteremo, con l’obiettivo di riportare al centro dell’agenda politica l’industria e il lavoro, che è il vero interesse comune. Con i sindacati c’è un dialogo costante. Proprio martedì scorso, infatti, abbiamo avviato il tavolo sulle regole della rappresentanza. Come ho già detto: siamo di fronte a una tempesta perfetta dove tutti devono remare nella stessa direzione».
Ma non le pare un po’ troppo ambizioso già dal nome un Progetto per l’Italia?
«L’Italia deve tornare ad avere ambizioni. E comunque più che essere ambiziosi, miriamo al bene di tutti. Dopo la guerra eravamo un Paese ancora in gran parte agricolo e siamo diventati una potenza industriale. Adesso vogliamo fare finta che il fatto che più del 28% della popolazione italiana sia a rischio povertà o esclusione sociale non sia un motivo sufficiente per spostare più in alto l’asticella e cominciare a farlo da subito?»
Lo dicono tutti però...
«Certo, ma il nostro documento esce dagli slogan e parla di contenuti, perché noi parliamo del Paese che vogliamo per noi e, soprattutto, per i nostri giovani. Un Paese dove le imprese sono, ed è un dato di fatto, un elemento insostituibile, anzi trainante, dove il perimetro dell’azione dello Stato deve diventare certo e certe le regole. Ma guardi l’Ilva...»
Cosa c’entra l’Ilva?
«L’Ilva è emblematica di come i problemi vadano affrontati in modo diverso. Se l’Ilva dovesse chiudere, a rischio sarebbe l’intera siderurgia italiana e andando avanti così la chimica, il cemento, la carta, e tanti altri settori. Lungi da me dare valutazioni o esprimere giudizi, i problemi però si risolvono affrontandoli e non cancellandoli. Chi investirà più in questo Paese se manca la certezza del diritto o la legge non viene applicata?»
Ma le regole vanno rispettate.
«E ci mancherebbe. Le regole però devono avere una logica, essere chiare e la loro applicazione veloce e certa. Per quale ragione nelle province di Varese, Sondrio e Lecco si delocalizza in Canton Ticino? Forse per il peso eccessivo del fisco italiano, di sicuro perché per avere una valutazione di impatto ambientale là ci vogliono al massimo 60 giorni, mentre in Italia bisogna aspettare due o tre anni. Pensi che per ampliare due miei stabilimenti ho ricevuto le autorizzazioni dopo 7 anni».
Non ci dica adesso che la Confindustria non ha potere di pressione o che la politica non la ascolta.
«C’è purtroppo una differenza tra la disponibilità ad ascoltare e la capacità di realizzare. Abbiamo lavorato molto e bene ad esempio sulla delega fiscale con Vieri Ceriani, ma alla fine questa non è stata approvata...».
Lei è quello che ha definito una «boiata» la riforma Fornero sul lavoro...
«Sì, in una riunione interna dove non mi aspettavo che le mie parole fossero riportate. Ma anche il ministro mi pare abbia capito la sostanza del mio giudizio e non mi serba rancore. Sono stato troppo schietto? Forse. Ma adesso si sta parlando di come modificarla e allora...».
Non mi pare ottimista sul fatto che la politica la ascolti.
«Sarebbe un bene che la politica, nell’interesse del Paese, tornasse ad ascoltare chi porta contributi concreti e seri. Soprattutto per se stessa: non può ancora una volta deludere gli italiani. Il Paese si aspetta di mettere la testa fuori da questa cappa di piombo. Io sono un ottimista per natura e vorrei trasmettere a tutti il messaggio che ce la possiamo fare. Vede, ricordo ancora quell’aziendina dietro il portone di legno, allora alla periferia di Milano, dove mio padre con sette dipendenti provò e riuscì a ripartire. Ed era appena finita la peggiore guerra dell’umanità. Lui mi diceva sempre: nella vita non si deve mai smettere di pedalare. I nostri figli e nipoti non meritano che proprio adesso lo si faccia»
Daniele Manca