Sergio Rizzo, Corriere della Sera 27/01/2013, 27 gennaio 2013
STOP A CONTRADE, SQUADRE E CEDOLE. COSI’ LA BANCA SI «SGANCIA» DA SIENA
Alessandro Profumo si considera «un uomo fortunato». Tanto fortunato da poter rinunciare allo stipendio da presidente del Monte dei Paschi di Siena. La sua retribuzione è il gettone da consigliere di amministrazione: 60 mila euro l’anno.
Se lo può permettere, certo. Ma se il banchiere un tempo fra i più potenti d’Europa ha deciso di essere oggi il meno pagato del mondo non è certo, crediamo, perché abbia deciso di iscriversi a un club filantropico. Sembra piuttosto legittima difesa. Perché il minimo che possa capitare qui a un signore che ha appena ricevuto da UniCredit un benservito da 38 milioni di euro e viene messo alla presidenza del Monte dei Paschi, per giunta senza essere senese, è finire sui carboni ardenti.
Non che Profumo non ci sia passato comunque, sulla graticola. Anzi. C’era chi considerava la nomina uno scandalo: il suo sostenitore Franco Ceccuzzi, ex segretario diessino locale, ex deputato democratico e sindaco di Siena, ha pagato a carissimo prezzo. Questo l’antefatto. La scorsa primavera il partito democratico, che ha la maggioranza in Comune, è andato in mille pezzi. La scintilla è stata la decisione di Ceccuzzi di mandare in tilt il patto tutto interno al centrosinistra senese che da 12 anni garantiva gli equilibri del Monte dei Paschi, di fatto l’ultima banca pubblica controllata dalla politica. Il patto coincide con l’uscita di scena dell’ex sindaco Pierluigi Piccini, diessino, bloccato da un anatema romano quando stava per diventare presidente della Fondazione azionista della banca. Quella poltrona fu invece affidata al suo avvocato Giuseppe Mussari, anch’egli diessino. Dopo cinque anni, la staffetta. Mussari alla presidenza della banca e al suo posto, in Fondazione, Gabriello Mancini: uomo del potentissimo capo della Margherita locale, l’ex dipendente del Monte ed ex deputato dc Alberto Monaci, presidente del consiglio regionale toscano.
Ma sbaglierebbe chi la considerasse una faccenda che riguarda solo i partiti. In questa storia la politica è una foglia di fico, ed è bene non farsi fuorviare. Perché copre beghe locali, interessi di contrada e di corporazione. Anche di logge, dicono i bene informati.
E se era chiaro che l’arrivo di Profumo avrebbe messo in discussione quel patto dalle sfaccettature più svariate, la decisione di negare la poltrona di vicepresidente del Monte ad Alfredo Monaci, il presidente della società immobiliare del gruppo bancario nonché fratello minore di Alberto, è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Gli ex margheritini del Pd non hanno votato il bilancio e la giunta Ceccuzzi è saltata per aria. Con effetti collaterali micidiali. Per dirne una, ci ha rimesso il posto anche il direttore della «Nazione» Mauro Tedeschini: reo di aver dato conto dei contrasti fra la Fondazione e il Comune, si era già complicato la vita con una inchiesta sui costi della Regione Toscana che Monaci senior non aveva esattamente gradito. Per dirne un’altra, Monaci junior, trombato alla vicepresidenza della banca, è ora candidato al Parlamento nella lista Monti.
Ceccuzzi, invece, si è presentato alle primarie del centrosinistra e le ha vinte: ma in un momento che non potrebbe essere peggiore. In piena campagna elettorale, lo scandalo dei derivati ha scatenato una tempesta sul Partito democratico e ogni giorno propone nuove rivelazioni. Fino al sospetto di tangenti corse intorno all’affare della banca Antonveneta. Un acquisto sciagurato da 10 miliardi. Non bastasse la spesa, fatto in contanti: il che ha messo letteralmente in ginocchio la banca.
Insomma, una situazione oggettivamente difficilissima. Ma la bufera, è ciò di cui si lamenta Profumo, oscura quanto è stato fatto negli ultimi sette-otto mesi. Lui ci tiene a sottolineare che è stato chiuso un accordo con i sindacati, sia pure senza la firma della Cgil, per ridimensionare il costo del lavoro. Che cento dirigenti su 490 sono stati avvicendati. Che i consiglieri «esterni», spesso di nomina politica, delle società controllate, sono stati sostituiti (finora una trentina) con dipendenti della banca. E che si è già decisa la dismissione di un centinaio di filiali sulle 400 previste dal piano industriale.
Per non parlare delle sponsorizzazioni. Il Monte foraggia con otto milioni l’anno il Siena calcio della famiglia di costruttori Mezzaroma, e di cui la Fondazione possiede anche una quota di minoranza: il contratto scade a fine stagione e non sarà rinnovato. Stessa sorte subirà nel 2014 l’accordo per la sponsorizzazione della pluridecorata squadra di basket.
Ma anche il generosissimo rubinetto della Fondazione, che secondo il sito «Lettera43» di Paolo Madron ha distribuito sul territorio negli ultimi dieci anni qualcosa come un miliardo di euro, ovvero 4 mila euro per ognuno dei 270 mila abitanti della Provincia di Siena, è destinato a inaridirsi. Quest’anno, niente dividendi. E con l’aumento di capitale di un miliardo la quota nella banca scenderà dall’attuale 34 al 25 per cento. Il Tesoro ha già avvertito la stessa Fondazione che non potrà più avere in futuro come unico asset la partecipazione nel Monte.
Giovedì scorso, poi, Ceccuzzi ha sparato un bel siluro, dichiarando che se verrà riconfermato sindaco il prossimo presidente della Fondazione potrebbe anche non essere senese.
Segnali che qualcosa sta cambiando nel rapporto fra la città, la banca e certa politica? Profumo si dice sicuro che quel legame sia già di fatto spezzato, in modo irreversibile. Perché per Siena e i senesi è preferibile un Monte dei Paschi sano ed efficiente a una banca che distribuisce un po’ di becchime nel circondario ma procede senza rotta. Con il risultato che alla fine si va a sbattere. A parte gli ultimi scandali, la storia recente è costellata di scelte «industriali» a dir poco discutibili. Come l’incorporazione a carissimo prezzo della Banca 121 o la mancata acquisizione della Bnl, per fare solo un paio di esempi.
Per giunta, la vicenda del Monte dei Paschi piomba come un macigno sugli accordi che centralizzano nella Bce di Mario Draghi la vigilanza sulle grandi banche. Suscitando timori e perplessità a proposito del ruolo del nostro Paese in questo passaggio cruciale. Ma riattizzando anche certe nordiche diffidenze, mai del tutto scomparse, a proposito della teoria secondo la quale le banche italiane sarebbero uscite dalla crisi finanziaria mondiale del 2008-2009 meglio degli altri istituti europei perché meno contagiate dai derivati. Fino a qualche giorno fa Giuseppe Mussari non era forse il presidente dell’Abi, ovvero la persona che aveva condotto le trattative sulle nuove regole di Basilea? E se questo succedeva proprio nella banca del capo dei banchieri italiani….
Sergio Rizzo