Gianni Mura, la Repubblica 27/01/2013, 27 gennaio 2013
IL RAZZISMO DA STADIO E L’ESEMPIO DI NAKACHE
Giustamente, anche allo sport della Rai si sono occupati della Giornata della memoria. Ieri, a “Dribbling”, tre servizi, tre storie: Arpad Weisz, Leone Efrati, Nando Valletti. Poi qualcuno ha annacquato il tutto con una lunga intervista di Mourinho che non diceva assolutamente nulla di rilevante. A Mourinho nessun voto perché non è colpa sua, all’annacquatore un sincero 4. “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”, scrisse Primo Levi. E’ necessario anche stare all’erta, come dicono, come urlano le intercettazioni dei gentiluomini e gentildonne di Casa Pound a Napoli. Due iniziative nelle scuole, fra tante. A Sutri (Viterbo) gli studenti hanno fatto un tema di Arpad Weisz, e tre squadre giovanili si sono sfidate ieri in un triangolare a lui intitolato. Nel pomeriggio, nella chiesa di san Francesca, la musica di Django Rheinardt. A Scandicci (Firenze), leggo sul Corriere dello sport, uno spettacolo e una mostra sugli sportivi vittime del nazismo, da Carlo Castellani, calciatore dell’Empoli, alla ginnaste olandesi che hanno vinto l’oro ad Amsterdam. Sono i ragazzi della scuola Spinelli, che indossano una maglietta con la stella a cinque punte, a raccontarle in prima persona. Qualcuno ce l’ha fatta a tornare, come Cestmir Vycpalek da Dachau, come Alfred Nakache, franco- algerino, il “nuotatore di Auschwitz”. Che a Scandicci ha parlato così: “Il 20 gennaio 1944, col treno numero 66, vengo deportato ad Auschwitz insieme alla mia famiglia, Mia moglie Paula e mia figlia Annie, che ha solo due anni, dopo pochi giorni entrano nella camera a gas. Quando le Ss scoprono che sono un nuotatore, mi fanno tuffare nel bacino gelato del campo di concentramento: vogliono divertirsi, tirano i sassi in acqua e io devo riprenderli”. La grandezza di Nakache è nella sfida: nel bacino gelato si tuffa anche quando vuole lui, non solo quando glielo ordinano le Ss. Parteciperà alle Olimpiadi di Londra, nel ’48.
Sul Manifesto (cui va un 8 per il più bel titolo della settimana: “Lavorare sbanca”) è rievocato Attila Petschauser, detto il D’Artagnan ungherese. Sciabolatore, vinse medaglie d’oro olimpiche e mondiali. Una gloria nazionale, infatti in un primo tempo non è destinato al lavoro obbligatorio, come gli inidonei al servizio di leva, ma a una scrivania al ministero della Difesa. Fino al giorno in cui un funzionario non lo chiama “ebreo puzzolente” e si ritrova a terra, è bastato uno schiaffone. Petschauser, non più gloria nazionale, si ritrova in un campo di concentramento in Ucraina, con la precisa consegna di umiliarlo e abbassargli la cresta. A dirigere il campo è il vicecolonnello Kalman Cseh, lui pure ha rappresentato l’Ungheria alle Olimpiadi, con la squadra di equitazione. Sa bene chi è Petschauser, ma preferisce rispettare le consegne. All’alba del 20 gennaio 1943 due guardie obbligano D’Artagnan a spogliarsi nudo e a salire su un albero, ce lo lasciano per un po’ e quando scende gli tirano addosso secchiate d’acqua gelida. A Zavidovo il termometro segna meno 35. Petschauser muore congelato.
Obiezione dal fondo. Ma quelli di Napoli, gli intercettati, e quelli che vanno allo stadio con la svastica queste cose non le sanno. E’ una possibilità, e oggi documentarsi è più facile di ieri. Un’altra possibilità è che queste cose le sappiano benissimo e non vedano l’ora di poterle rifare. Quanto al razzismo da stadio, quasi sempre saldato a quell’altro, non pare che ci sia una grande volontà punitiva da parte dell’Uefa e della Fifa. Questo è il penultimo avviso. Questo è l’ultimo. Questo è l’ultimissimo. Questo è l’ultimissimo-issimo-issimo. Parole tante, stangate niente.
Meglio passare a Crozza. Nessuno è perfetto (nell’imitazione di Guccini chiede Barbera e gli passano un fiasco: quando mai?) ma se fosse un arciere i suoi tiri al bersaglio non scenderebbero sotto l’8. Venerdì sera, tra 9 e 10 la sua versione di Masterchef, uno dei programmi più insopportabili del dopoguerra, una costante educazione alla maleducazione. Tre tipi famosi giudicano gli aspiranti chef (mai dire la parola cuoco, è poco fine) con una certa brutalità. Prevista dal copione, incoraggiata dal copione, la pubblica umiliazione funziona sempre. Fornisco gratis un’ideona: prendiamo un pizzaiolo, un cuoco di trattoria e una casalinga e portiamoli in tv a giudicare i piatti del famoso signor Cracco, del signor Barbieri e del signor Bastianich (sua madre non si discute, ci ho mangiato diverse volte ai mondiali del ’94, ma lui è un’altra storia). Io mi divertirei un sacco e credo anche molti telespettatori che ne hanno abbastanza dell’arroganza spacciata per spettacolo. Si divertirebbero meno lorsignori, e sarebbe già un bel risultato.