Antonio Gnoli, la Repubblica 27/01/2013, 27 gennaio 2013
FRANCO FERRAROTTI [I
ricordi da “uomo di carta” del padre della sociologia italiana] –
Per qualche curiosa coincidenza letteraria la figura di Franco Ferrarotti mi appare straripante e dissipatrice, come certi personaggi dostoevskiani. Nell’esaltazione costante del sé non esita a usare le tecniche di distruzione dell’Io. E con sconsolata teatralità egli mette in testa alla nostra conversazione una frase che mi spiazza: «Confesso di essere fin dall’inizio uno sconfitto». Davvero è uno strano mélange quest’uomo che ha “inventato” la sociologia in Italia e che mi riceve nel caos del suo studio, seppellito da carte e da libri. Non ha niente del vecchio accidioso. Dell’accademico risentito. Anzi, continua felicemente a insegnare alla New York University (per l’ultimo anno) e alla Sorbona. I suoi 86 anni comprendono una predisposizione gaia all’istrionismo e alla chiacchiera sconfinata. Il suo verbo è inarrestabile. Ecco, mi dico, un uomo che ha visto e conosciuto parecchio.
Come ci si sente da decano della sociologia?
«Non poteva farmi un insulto peggiore. La sociologia è morta».
Morta?
«Forse non è mai nata. O è nata morta. Una scienza ibrida e dissociata. Auguste Comte, che la fondò, era un noto paranoico. C’è una certa vicinanza tra paranoia e creatività. Lo sapeva?».
Se lo dice lei le credo. Ma che ne è dei “fatti sociali” e delle leggi che li governano?
«È stato tutto diluito dentro una pappetta postmoderna. Anzi liquida ».
Ce l’ha con Zygmunt Bauman?
«Perspicace. Se la società è liquida, se la paura è liquida, se lo stato è liquido, se la modernità è liquida, allora sa cosa faccio? Metto su dei corsi di nuoto».
Fantastico. E poi?
«E poi, e poi! La verità è che soprattutto in Italia abbiamo assistito a una svolta sorprendente. Si è passati in un sol balzo dalla pesantezza opaca del marxismo alla diluizione dei problemi sociali. I vari menestrelli della “società fluida” non sembrano rendersi conto che la nostra società è al tempo stesso dura, congelata, bloccata, in una parola neo-feudale. Ma lei si è chiesto perché Bauman è sempre in Italia?».
Immagino perché è invitato.
«E già. Ma glielo dico io il perché: siamo un paese ancora afflitto dal tardo crocianesimo. Siamo maestri del bel canto, cultori di teorie estemporanee, e culturalmente irresponsabili. È in questo brodo dionisiaco e festoso — da cui peraltro stiamo drammaticamente riemergendo — che Bauman ha piantato le sue palafitte».
Ma che c’entrano Croce e il crocianesimo?
«Lui è sempre presente. Anche quando non si vede c’è. È nell’aria culturale che respiriamo. Pensi che quando tradussi nel 1949, per Einaudi, La teoria della classe agiata di Thorstein Veblen — libro straordinariamente innovativo allora — Croce lo stroncò sul Corriere della Sera. Lo stesso anno su Veblen feci la mia tesi di laurea a Torino. E Augusto Guzzo, crociano, si rifiutò di firmarla. Fu solo grazie a Nicola Abbagnano che potei laurearmi».
Lei dove è nato?
«Sono piemontese, di Palazzolo Vercellese. Quando nacqui mi diedero per spacciato. La mia salute era fragilissima, la mamma malata non poteva allattarmi. Fui spedito a sei mesi a Robella dai bisnonni che mi sfamarono con il latte di vacca. Ero troppo debole e per le dure leggi del mondo contadino venivo considerato uno scarto. Un peso da cui liberarsi».
Non è stata un’infanzia facile.
«Ho cominciato a parlare a cinque anni».
In compenso da allora non ha più smesso.
«Pensavano fossi un ritardato mentale. Paradossalmente fu un vantaggio, perché il silenzio sviluppò in me le capacità di osservazione, che arricchii leggendo. Alla biblioteca comunale passavo le giornate. Mio padre cominciò a odiarmi. Diceva con disprezzo: diventerai un uomo di carta. Non ha avuto tutti i torti».
Chi è stato il suo padre spirituale?
«Più che padri, fratelli maggiori. Uno fu Cesare Pavese. Ebbi la fortuna di incontrarlo, nel 1943 durante la Resistenza, a Casale Monferrato dove si era nascosto. Era un uomo molto timido. Io estroverso lui introverso. Tra noi funzionò la legge degli opposti che si attraggono. Una sera recitammo in tedesco il finale del Faust mentre passava una colonna nemica. Poi ci perdemmo di vista e solo alla fine della guerra, nel 1947, ci rivedemmo».
In che occasione?
«Lavorava alla Einaudi, mi chiamò proponendomi di tradurre La teoria della classe agiata.
Era scritto in un inglese molto complicato — Thorstein Veblen, l’autore, era un norvegese trapiantato in America — che aveva fatto desistere sia Vittorio Foa che Antonio Giolitti. Fu un bel biglietto da visita che mi servì, tra l’altro, nei rapporti che in seguito stabilii con Adriano Olivetti».
Come lo conobbe?
«A una cena. Vidi quel testone calvo, inghirlandato da una coroncina di riccioli biondi, discettare di nazionalizzazioni. Mi avvicinai e gli dissi che in questo modo gli operai non avrebbero più avuto un padrone contro cui lottare. Mi guardò stupito. Ero molto sfrontato. E scoprii che aveva un grande rispetto per le idee altrui. Mi venga a trovare, disse».
E lei andò?
«Andai, certo. Anche perché non è che a Torino in quel momento facessi chissà che. Traducevo dall’inglese e dal tedesco e mi ero fidanzato con Anna Maria Levi, la sorella di Primo levi, il quale allora stava cercando un’occupazione da chimico e nessuno sapeva tutto quello che poi avrebbe raccontato nei suoi libri. Insomma, rividi Olivetti e mi propose di lavorare per lui. Con Geno Pampaloni e Renzo Zorzi diventammo i suoi collaboratori più intimi. Si stabilì un clima culturale fantastico. Ma ero un inquieto».
Ivrea le stava stretta?
«L’Italia semmai. Mi sentivo in gabbia. Poi accadde che Olivetti ebbe un infarto. Andai a trovarlo in clinica e gli dissi che il mio progetto era di trasferirmi per un periodo negli Stati Uniti. Mi guardò con stupore e rammarico. Dal letto si sollevò lentamente e con una smorfia mi rispose che non se ne parlava punto. Gli dissi che quell’esperienza la facevo anche per lui e alla fine, un po’ a malincuore, si convinse. E così partii».
Che anno era?
«Feci la traversata in nave nel settembre del 1951. Giunto a New York mi trasferii all’Università di Chicago».
La roccaforte del neoliberismo.
«C’era Von Hayek, ma all’inizio non era molto amato dagli altri economisti. Il vero punto di riferimento, l’autorevolezza culturale, proveniva da Leo Strauss».
Lo ha conosciuto?
«Dopo che gli feci la traduzione letterale del Principe di Machiavelli diventammo molto amici. Alcune volte sono stato a cena a casa sua. Un giorno mi chiese se ero ebreo. Rimasi sorpreso, ma poi seppi che era il più grande complimento che potesse farmi. È stato talmudista e cabalista. Un grandissimo erudito che non amava la modernità. Spesso ripeteva: le leggi non valgono nulla, ciò che conta è il costume di un popolo».
Un chiaro richiamo al mondo classico.
«Era affascinato dalla tradizione. Tutto il contrario di Herbert Marcuse che conobbi, molti anni dopo, all’Università del Massachusetts prima che si trasferisse in California».
Che tipo era?
«Burbanzoso. Il più tedesco, per mentalità, tra tutti quelli che erano finiti in America. Si dava l’aria del profeta. Ma l’unica, tra gli assistenti, che pendeva dalle sue labbra era Angela Davis. Bellissima, uno splendore. Marcuse era gratificato da quella presenza femminile. Come del resto dal seguito che aveva tra gli studenti. Era appena uscito L’uomo a una dimensione, il libro che avrebbe influenzato il movimento studentesco. Gli dissi che trovavo fiacche le sue analisi. Mi guardò fisso negli occhi, poi si tolse il grande sigaro spento che aveva tra i denti. Lo impugnò e fece il gesto di pugnalarmi. Che tipo! Mi fa venire in mente Marshall McLuhan».
Perché questo accostamento?
«Perché se c’è stato un grande pensatore rivoluzionario, per niente legato al canone della tradizione, questi fu McLuhan e non Marcuse. Lo conobbi al Trinity College di Toronto, dove tenevo un seminario su Max Weber. E mi stupì l’agilità di mettere assieme San Tommaso e le fibre ottiche. Le sue analisi seppellirono la figura dell’intellettuale umanista. Ci rivedemmo altre volte. Era ossessionato dalla televisione».
Ne intuì tutte le conseguenze.
«Nessuno era in grado, neppure lui, di valutare gli effetti di quella protesi. Annientamento dell’uomo o nascita del post-umano? Questo era il dilemma nell’ultima fase della sua vita».
E lei da quali dilemmi era preso?
«Stavo benissimo: insegnavo, mi ero sposato, avevo comprato una macchina, guadagnavo bene. Olivetti mi chiamava tutti i sabato. Quando torni? Mi chiedeva».
E non resistette.
«Rimisi piede in Italia nel 1953. Mi rituffai nella comunità di Ivrea. Poi nel 1958 Olivetti fu messo da parte nell’azienda. Lo estromisero dalla carica di amministratore. La lunga contesa con la famiglia finì con la sua sconfitta. A lui non rimase che leggere il futuro nei fondi del caffè».
Vuole dire che ci fu un conflitto interno?
«Voglio dire che parte della famiglia non amava quel modello di impresa e non amava me reputandomi una specie di anima nera. Di fatto mi ritrovai disoccupato. Adriano morì di infarto un paio d’anni dopo nel corridoio di un treno. Meglio che nel suo letto. Io partii per Parigi e mi rifeci una verginità. Fu un colpo di fortuna. Mi venne offerto il ruolo di diplomatico speciale come membro osservatore dell’Oece. Una pacchia. Poi divenni deputato, professore universitario. E inventai la cattedra di sociologia che è diventata la scienza allegra dove tutti dicono la loro».
Ancora Bauman!
«È più forte di me. Pensi che negli anni Quaranta è stato perfino nel Kgb».
Non è possibile.
«Me lo disse Adam Podgureski, un valente sociologo polacco, che lo aveva incrociato a Varsavia nel 1945 con l’uniforme del Kgb».
Non è che è invidioso del suo successo?
«Alla mia età me ne frego. Non ho mai fatto progetti nella mia vita e sono vissuto sempre nel disordine. Ma un’analisi sociale seria non può fondarsi sull’acqua. Neppure Gesù Cristo potrebbe camminarci sopra. Spieghi l’attuale crisi economica e sociale con le categorie “liquide” e tra qualche anno ci rideranno appresso».
A lei cosa evoca la parola crisi?
«Una volta dissi al mio vecchio amico John Kenneth Galbraith — che aveva scritto un bel libro sul 1929 e la Grande Depressione — che avrebbe dovuto farsi un giro nella campagna piemontese per capire cosa fu il dramma della depressione».
Si spieghi.
«Sono nato nel 1926. E tutte le sere per alcuni anni si sentiva nelle campagne un odore acre di bruciato:
“udur ad brusà”, dicevano le madri. La notte si illuminava e dalla collina si vedevano lungo tutta la pianura bagliori di fiamme e folate di fumo. Erano i contadini che davano fuoco alle loro cascine. Strangolati dai debiti, vessati dall’usura, piuttosto che cedere alle banche le loro proprietà preferirono bruciare le case e poi impiccarsi. Ecco cosa fu la crisi. E sono troppo vecchio per poter piangere. Ma non abbastanza per dimenticare».
Come immagina la sua fine?
«L’ho anche scritto: sono nato in mezzo ai libri. Morirò baciando la loro polvere. Aveva ragione mio padre: sono un uomo di carta».