Achille Bonito Oliva, la Repubblica 27/01/2013, 27 gennaio 2013
ALIGHIERO BOETTI
[Viaggi e incontri di un artista nomade] –
«Bisogna avere sempre un posto da cui andar via» (Arthur Rimbaud). È quello che fece Alighiero Boetti (1940-1994) nel 1972 quando si trasferì a Roma lasciando Torino. Città industriale, piena di fermenti e stimoli, luogo di raggruppamento per un’arte urbana, come quella povera.
Al rigorismo ideologico di quella scuola Boetti si sottrasse trasferendosi a Roma, e preferendo l’opulenza della città eterna, al bianco e nero del concettuale la policromia di un’arte colorata e differenziata nelle sue soluzioni formali. Frutto di nomadismo culturale, libertà morale, senso del gioco e costante ricerca di un altrove. Questo
descrive la mostra Alighiero Boetti a Roma curata da Luigia Lonardelli al Maxxi fino al 6 ottobre. Trenta opere che raccontano esodo, viaggio, approdo, spostamenti, dialogo ed incontri con altri due artisti nomadi: Francesco Clemente e Luigi Ontani.
Sicuramente Roma, città imperiale e di quartiere, fomenta desideri di ulteriori viaggi in Alighiero che intesse inizialmente un grande rapporto di amicizia con Mario Schifano, artista emblematico per stile di vita e vitalità pittorica. Un controcanto al rigore nordico ed uno stimolo liberatorio per una creatività forse implosa, ancora sottotraccia, in attesa di una futura esplosione: come si vede in
Mimetico (1968) oppure Rosso Palermo 511 52 27 (1967).
Lo scardinamento delle tecniche, l’indifferenza verso la nobiltà dei materiali, l’acquisizione di scoperte linguistiche provenienti da altri movimenti d’avanguardia, sono la spia di una mentalità, quella di Alighiero e Boetti – fu lui a sdoppiarsi anche nel nome – verso l’arte, che vuole estrarre dalla realtà una regola interna che nessuna perizia tecnica, nata da una applicazione tutta razionale, può esplicitare (vedi Clessidra, cerniera e viceversa, 1981).
Lo spostamento di senso, l’associazione di reperti linguistici del collage, l’indeterminazione di immagini che occultano il loro volto, sono al servizio di una nuova mentalità che parte dal presupposto che chi non cerca trova e anzi forse è trovato. Infatti, i titoli delle opere sottolineano sempre questa possibilità di incontrare un nuovo senso che cambia di segno il dato reale: Sentire una pietra di notte spaccarsi in due, 1982.
Tale atteggiamento nasce dalla constatazione che il soggetto dell’opera, l’artefice dell’opera d’arte, non è l’artista soltanto. Il creatore mette il linguaggio in condizione di produrre un nuovo significato, con la collaborazione surrogante di altre partecipazioni che nascono da elementi imprevedibili. L’automatismo linguistico è l’effetto di un uso di linguaggio che fa scattare i suoi liberi meccanismi: come nel caso di Fregio, 1990, e la straordinaria sorpresa di Orme I e Orme II.
In Boetti il processo creativo si carica di una felicità quasi filosofica e impersonale che confina con la nozione greca di atarassia. Una magia bianca regge l’immagine supportata sempre da un felice pensiero stordito che presiede altre immagini, come nel caso di La natura è una faccenda ottusa, 1981, con le sue sagome di animali che si intrecciano in un’imprevedibile texture e La quinta essenza del sesto senso, 1993.
Viaggi fisici e mentali per l’India, l’Afghanistan in particolare (con sosta nel One Hotel, albergo con una unica camera da lui inventato) sviluppano sempre più l’identità multiculturale di un’opera in cui l’autore si fa duale (Alighiero e Boetti) e l’esecutore plurale (più soggetti al lavoro per la realizzazione di biro, tappeti, arazzi e mappe). Emblematico è Poesia con il Sufi Berang, 1989, cinquantuno elementi che testimoniano una felice antropologia della contaminazione tra poesia e arte, parole e ricamo che trovano nella stesura unitaria della classica scacchiera colorata di Boetti lo scambio tra Oriente ed Occidente.
L’incontro dell’artista con Clemente ed Ontani avviene sul confine dell’altrove, l’amicizia nata a Roma si è fatta progressivamente peripezia in comune, preferenza nomadica per l’Oriente, una condizione solitaria straniera ed estraniata tra Italia, India e Afghanistan.
Francesco Clemente ha sempre operato sullo spostamento progressivo dello stile, l’uso indifferente di molte tecniche, tra cui pittura, fotografia, disegno, affresco, mosaico: Coppia a lavoro, 1978. La sua immagine gioca tra ripetizione e differenza, stereotipi che portano nell’arte un apparente concetto di convenzionalità: Ritratti di Foucault, 1978. Un dono iniziale per lo sguardo, variazioni imprevedibili che creano uno spaesamento, una sospensione temporale e uno stato di rallentamento che portano verso impercettibili differenze: Under the Hat, 1978.
Ontani non disdegna nessun genere, dalla fotografia alla ceramica, dall’acquerello all’uso del marmo. Tutto diventa superficie che riflette sistematicamente l’immagine dell’artista in panni diversi: Krishna, 1978, Tappeto Volante aureo, 1975, l’omaggio a Pierre Loti in En route vers l’Inde, d’après Pierre Loti, 1977, opere che confermano l’idealizzazione di un altrove che accomuna i tre artisti.