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 2013  gennaio 27 Domenica calendario

GIULIANA LOJODICE

[Precoce sul palco, “a soli quattordici anni lavoravo con Visconti”, come nell’amore, “Ero ancora una ragazza quando mi feci conquistare dal cinquantenne Aroldo Tieri: un Leone (io) ammansito da una Vergine (lui)” E oggi che ha superato i settanta, alternandosi tra teatro, tv e cinema, confessa: “Adesso mi piacerebbe scrivere, se non fosse che leggo già troppe cose brutte...”] –
ROMA
«Non so se è stato un bene o un male, ma ho vissuto tutto in anticipo. A quattordici anni recitavo con la regia di Visconti. A diciotto ero la protagonista femminile del primo Ricorda con rabbia di Osborne in Italia, diretta da Sbragia. A diciannove sono apparsa in televisione. A vent’anni mi sono sposata, l’anno dopo ho avuto il primo figlio, Davide, e a ventiquattro m’è nata Sabrina. A ventisei anni scendo a Siracusa per recitare con Aroldo Tieri, che avevo già conosciuto, e vado incontro a un destino che mi segnerà tutta l’esistenza ». Donna di carattere, attrice determinata, personalità cocciuta, madre travagliata, partner indomita e cittadina sensibile, Giuliana Lojodice, classe 1940, artista per tutte le stagioni, fornisce subito i suoi “segni particolari”: «Sono positiva, di negativo ho qualche occasionale sfuriata sul lavoro. Non ammetto la sopportazione: quello che c’è da fare e da dire, si faccia e si dica. So di incutere una certa soggezione, e mi dispiace. Ho fatto tanto, e ho dato tanto, e ho ricevuto
molto.
Nessuno ha mai saputo che a un certo punto non sono stata bene, ma è successo. Zingara di lusso, preferisco vivere in albergo, anche se adesso ho rifatto casa. Politicamente da quando voto sono di sinistra, anche se alcune idee le condivido e altre no. Ho un temperamento deciso, ma poi sono anch’io malinconica, e tendo a chiudermi. Non c’è stato niente di più bello di un Leone (io) ammansito da una Vergine (Aroldo)».
Precoce. E intraprendente, drammatica, brillante, popolare, intellettuale. Sempre una questione di indole. «Fin da ragazzina avevo la disposizione tipica pugliese della capatosta, dell’incosciente, ed ero intollerante alla scuola salvo quando mi facevano “recipicchiare”, recitare. Mi ricordo che una suora laica disse a mia madre “questa bambina ha del talento”, e più tardi un professore di italiano sentenziò “deve recitare”. Il palcoscenico arrivò però sotto forma di palestra di danza, perché condivisi con mia sorella la scuola della Ruskaja: lei andava bene perché era magra come un chiodo, io invece non reggevo alla fatica. Finché mia madre (insegnante di Lettere severa e geniale, che preferiva le borgate dove la faceva fare sotto ai ragazzi col coltello nel banco) seppe da un’ispettrice di danza che il cognato di lei, Valerio Zurlini, preparava un film, e cercava un’adolescente della mia età (quattordici anni), per un provino. In calzettoni bianchi, scarpe di vernice e gonna a pieghe vado da Zurlini. C’era pure Beppe Menegatti. Lì mi presi la prima cotta per un uomo maturo, per Zurlini appunto, che era molto più grande di me, e da brava Lolita in erba tornai da lui di mia iniziativa, da sola, con un pretesto. Ma lui mi rispedì a casa. Sennonché Menegatti m’avvisò che Luchino Visconti visionava delle ragazze per Il crogiuolo di Miller con la Brignone e Santuccio. Vado accompagnata da mamma che era stata in classe con Luchino, e lui concluse che andavo benissimo per fare la streghina (ero in un coro di invasate con la Betti e la Asti). Così entro nello spettacolo e comincio a quattordici anni e mezzo la tournée, con mio padre che, dirigente dell’Inail, lo viene a sapere tornando a Roma dal Messico. “Ciccia in tournée?!” (io mi chiamo anche Francesca, in onore di un mio zio Ciccio di Corato), ma abbozza ». Lì è gavetta in tutti i sensi. «Mi innamorai follemente di un attore, ma dormivo con due ragazze in pensioncine, e mi divertivo come una matta. Tornando a Roma non volli più andare a scuola, e aspettai i sedici anni per entrare in Accademia, dove avevo già provato a essere ammessa, costringendo il direttore Silvio d’Amico, cattolico, a mettersi le mani nei capelli perché come prova avevo portato Proibito di Tennessee Williams. A farla breve, mi prendono, non finisco però di diplomarmi, accettando nel frattempo la scrittura per Ricorda con rabbia.
Come donna, a diciotto anni, ero ormai svirgolina e scafata, con un flirt accademico e varie attenzioni di uomini maturi, tra cui Leopoldo Trieste che si prese una cotta pazzesca per me. Lui logorroico folle (m’affascinava la chiacchiera), io che non mollai finché cedetti a quello che sarebbe stato il mio primo marito, Mario Chiocchio, bellissimo compagno di lavoro più grande di me di tredici anni, da cui ebbi presto i miei figli». Ma un prologo di lei ancora diciannovenne avrebbe cambiato tutte le carte in tavolo. «Appena entrata in tv m’ero imbattuta in Aroldo che, da gran volpe, mi invitò a casa sua per un tè, e io, ancora non sposata, l’andai a trovare a scappa e fuggi, ispirandogli una battuta ironica quando mi salutò, “tanto tu qua stai”, cui reagii ridendogli. Fatalità volle che, appena uscita da un Ciao Rudy con Mastroianni ci si ritrovasse sette anni più tardi in un’Antigone, a Siracusa. Colpo di fulmine. Lui, cinquantenne, seppe prendere la farfallina. Il suo charme, la sua testa, la sua dedizione seria annullarono i ventiquattro anni di distanza tra noi, e iniziò una storia durata quattro decenni, finché lui c’è stato». Cominciò anche, per Giuliana Lojodice, una difficile scissione famigliare. «Fu grave, lo so, che i miei scoprissero la cosa attraverso le insinuazioni della stampa, e scoppiò un disastro, finimmo dai carabinieri. Per evitare una “separazione per colpa” io accettai che i figli coabitassero col padre, anche se poi presi in affitto una camera sopra di loro e tutti i giorni piombavo a pranzo per stare con Davide e Sabrina. Più tardi, Aroldo mi chiese di andare a vivere a casa sua. Soffrii, sempre tra l’incudine e il martello, perché i miei figli sopportavano appena il mio legame con Aroldo, e lui era silenziosamente geloso. Ma ognuno è stato splendido, e sono anche riuscita a riunire tutti in un clima di famiglia allargata, lavorando scritturata da Mario in una
Danza macabra di Strindberg con Herlitzka».
La carriera di Giuliana, per tanto tempo consolidata dal marchio artistico con Aroldo, registrerà man mano altre occasioni, come Copenaghen di Frayn con Orsini e Popolizio, e Le conversazioni di Anna K. di Chiti da La metamorfosi.
«Aroldo cominciò a sentire che io accettavo anche cose diverse, tipo Quel che sapeva Maisie di James con Ronconi, e rimase anche un po’ male, ma mi adorava e faceva finta di non essere geloso. Noi stavamo troppo bene insieme: o mi faceva incazzare a morte, o mi faceva ridere, perché era divertentissimo. Mi conquistava con una barzelletta, e quando rideva lui per primo mi incantava: aveva la bocca più bella d’Europa, e aveva avuto donne da prima pagina, io le so tutte, e lo superavo in gelosia. Siamo stati due meridionali...».
Se ne stupisce lei stessa, di questa ferrea vocazione. «Da quando ho cominciato a stare con lui non ho più guardato in faccia gli altri uomini, come se mi fossero caduti tutti gli ormoni, e invece ce li avevo tutti». I capelli di Giuliana Lojodice sono stati un termometro di femminilità e disciplina, e storia del costume. «Ce li ho avuto castani scuri, lunghi fino alla vita. Poi biondi per Nina nel Gabbiano, per un bel po’ col taglio Vergottini, e ricci e spontanei solo in Esuli di Joyce, e rosso irlandese per Oscar Wilde, e per Care conoscenze e cattive memorie di Horowitz». Fondamentale, questo lavoro, che nel 1992 ha rivelato un altro-da-sé temibile e bellissimo di lei. «La scelta del testo fu di Giancarlo Sepe (col quale abbiamo condiviso molte storie importanti, fino a L’amante inglese della Duras), io non m’ero mai buttata in un ruolo così violento. Smisi di fare la bella donna e la signora del teatro, stronzate che ci riempiono la testa per narcisismo, mentre qui c’era da buttar fuori la tempra di una magra e cattiva quasi assassina, animata da voglia di rivincita su un professore che ha rovinato lei e famiglia, finché costui, prima di morire di cancro, le fa capire, con un nuovo esame di musica, dove sta l’impeccabilità, la conoscenza».
A che imprese attribuisce emozioni? «Al Gabbiano che m’ha fatto capire la mia natura. Per Ciao Rudy ho smesso d’essere indolente, affrontando canto e danza. E oltre al testo di Horowitz, una forte sensazione l’ho avuta in Esuli di Joyce». Dove agisce di più il suo spirito sociale? «Con altri attori mi sono anni fa schierata per dare una mano alla casa di riposo dell’attore “Alda Borelli” di Bologna, che era stata ridotta quasi a un lager, e con l’appoggio della Regione la struttura fu restaurata, ma dato che non sono molti i pensionati il sostegno pubblico non c’è più, e allora noi soci assicuriamo almeno il decoro. Do una mano anche all’associazione del Teatro Eliseo, che tanto ha fatto per noi attori in decenni passati». Intanto è stata (fino a venerdì scorso) la signora Frola, diretta da Michele Placido, in Così è (se vi pare), e nel film Una piccola impresa meridionale (di prossima uscita) sarà la madre del regista Rocco Papaleo.
A conclusione. «Preferisco essere severa e modesta. Lo sa che se ci penso non mi dispiacerebbe scrivere? Ma leggo troppe cose brutte. Adesso stimo solo Irène Némirovsky. E ho a cuore il linguaggio dei miei figli».