Carlo Bonini, la Repubblica 27/01/2013, 27 gennaio 2013
QUEL PRESTITO MASCHERATO PER TAPPARE I BUCHI
SIENA
NEL peccato originale di Mps – l’acquisizione di Antonveneta – ci sono le stimmate del primo degli inganni al mercato, a Bankitalia e alla sua vigilanza. Un prestito da un miliardo spacciato per aumento di capitale.
SE È vero, infatti, che la catastrofe di Mps cominciò nel novembre 2007 con l’acquisizione di Antonveneta, per 9 miliardi di euro (lievitati a 17 con l’assunzione dei debiti) e che nel sovrapprezzo di quell’operazione di Sistema (2 miliardi di euro) venne ritagliato, tra gli altri, il dividendo per la politica, c’è senz’altro una seconda verità — questa documentale — acquisita all’inchiesta. Parliamo di un’operazione cruciale per concludere quell’acquisto e che oggi spiega perché la Procura proceda nei confronti dell’ex management del Monte per falso in bilancio, turbativa del mercato e ostacolo alla vigilanza. Per finanziare l’acquisizione di Antonveneta, la Banca di Mussari dovette dissimulare un prestito come un aumento di capitale. Si caricò in modo opaco di un’esposizione da 1 miliardo di euro nei confronti di Jp Morgan che doveva apparire agli occhi del mercato e della Banca d’Italia capitale di rischio, ma che tale non era. Per dirla con le parole di una fonte inquirente, «fu come per l’impiccato infilare consapevolmente la propria testa nel cappio che lo avrebbe strangolato, confidando nel fatto che nessuno avrebbe mai avuto né interesse, né coraggio a chiamare le cose con il loro nome».
È la vicenda del cosiddetto “convertendo fresh” (Floating Rate Equity-linked Subordinated Hybrid Preferred Securities, obbligazioni legate alla fluttuazione di un titolo azionario).
Siamo nel 2007. E per ottenere semaforo verde da Bankitalia all’acquisizione di Antonveneta, il Monte è chiamato ad un aumento di capitale da 5 miliardi di euro. Buona parte dello sforzo è sostenuto dalla Fondazione Mps. Ma non è sufficiente. E così nella primavera del 2008, 1 miliardo di euro arriva da Jp Morgan con un’emissione di obbligazioni. Questa liquidità, per rispettare le indicazioni di palazzo Koch, dovrebbe essere un conferimento nel capitale di rischio e come tale viene formalmente iscritto al bilancio. In realtà è un prestito, che come tale deve essere occultato, perché ha un costo ed esclude appunto il rischio di chi lo ha sottoscritto (circostanze, l’una e l’altra, che possono essere dichiarate, a meno di non voler svelare la manovra). Il Nucleo valutario della Guardia di Finanza e la Procura di Siena ne hanno presto la prova documentale. Quando, l’estate scorsa, dopo che i pm Nastasi e Grosso hanno rianimato un fascicolo che da qualche tempo è all’attenzione di quell’ufficio giudiziario, acquisiscono la documentazione di quel “convertendo” Jp Morgan dagli advisor dell’operazione: gli studi Benessia e Chiomenti, la banca Rotschild di Alessandro Daffina, il banchiere d’affari indicato nelle informative dell’inchiesta napoletana sulla P4 come uno dei “contatti” di Luigi Bisignani.
Del resto, la prova che quel miliardo sia un “prestito” lo dimostrano a posteriori una serie di operazioni ad altissimo rischio che, a partire dal 2008 in avanti, Mps è costretta a fare sul mercato dei derivati per finanziare il 10% di interesse assicurato dai bond di Jp Morgan collocati agli investitori (ne sono prova i cosiddetti e ormai noti contratti “Santorini” con Deutsche bank e “Alexandria” con Nomura). In una corsa verso il precipizio che ricorda come un calco il “caso Parmalat”. Dove per nascondere il peccato originale, la sua crisi di liquidità e il suo reale stato patrimoniale, l’indebitato è costretto a ricorrere con sempre maggiore frequenza a finanziamenti sul mercato necessari a onorare più o meno occulti debiti in scadenza e a spalmare nel tempo perdite inconfessabili. E dove, curiosamente, proprio come nel caso Parmalat, nessuno sembra porsi la domanda più ovvia. Come mai tra il 2008 e il 2010, una banca come il Monte, pure dai bilanci scintillanti, è costretta a ricorrere con tanta frequenza al mercato per operazioni che, di fatto, servono ad assicurare liquidità nel breve termine?
E’ la domanda che, a quanto pare anche con una qualche ruvidezza, nei mesi scorsi, si sono sentiti rivolgere dagli inquirenti il ministro Vittorio Grilli, nella sua veste di ex direttore generale del Tesoro e Anna Maria Tarantola, allora capo della vigilanza di Banca d’Italia. E a cui, sostanzialmente, è stata data una risposta che, all’osso, suona così. Quel diavolo di Mussari e dell’allora capo dell’area Finanza Gianluca Baldassarri (sui cui conti è stato individuato almeno 1 milione di euro oggetto di approfondimento della Finanza) sarebbero riusciti ad ingannare, da soli, tutti. Organi di controllo del Monte, Banca d’Italia e mercato.
Possibile? Che quel “convertendo” Jp Morgan da 1 miliardo di euro avesse qualcosa che non funzionava sembrava in qualche modo intuibile già alla fine del 2008. Quando è proprio la Banca d’Italia a chiedere al Monte dei Paschi di correggere il regolamento dei bond perché fosse chiaro a chi lo aveva sottoscritto l’assunzione del rischio nel capitale della Banca. E che Mps navigasse in acque agitate è dimostrato dall’onerosità crescente che le banche d’affari imponevano al Monte per operazioni che non era più in grado di negoziare in posizione di equilibrio. Dunque?
Certamente Mussari conosce la risposta. Così come conosce le ragioni di quei 2 miliardi di sovrapprezzo pagati per Antonveneta giustificati genericamente in cda con l’urgenza di superare il rilancio di una banca concorrente e il loro percorso successivo. Sin qui ha taciuto con gli inquirenti, preferendo posare da “svagato”. Continuerà a farlo? E a che prezzo?