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 2013  gennaio 28 Lunedì calendario

SETTORE PUBBLICO, VINCOLO ALLA CRESCITA

La riforma del settore pubblico è questione centrale per la crescita e per la capacità di offrire buoni servizi e alleviare le aree crescenti di povertà ed esclusione sociale del paese. I vincoli europei c’impongono di contenere la crescita della spesa al di sotto di quella del Pil; ma nel nostro caso serve fare di più, perché se non si abbassa il peso della spesa pubblica sul Pil, non sarà possibile ridurre significativamente i carichi d’imposta sul lavoro e l’impresa, oggi insopportabili. In questo contesto, l’opinione prevalente nella classe politica e tra molti esperti di finanza pubblica è che la spesa pubblica sia incomprimibile; poiché anzi serviranno nuove risorse per assorbire l’impatto sul welfare dell’invecchiamento e alleviare le aree di acuta sofferenza sociale, qualcuno già incomincia a pensare all’aumento della compartecipazione dei più abbienti al costo dei servizi, in pratica altre tasse per gli stessi cattivi servizi, e a una redistribuzione di risorse all’interno del sistema, ad esempio colpendo le pensioni in pagamento sopra certi livelli – 40 o 50 mila euro, che sono redditi medio-bassi di persone già piuttosto impoverite. Quasi nessuno mette in questione gli assetti organizzativi o gli incentivi istituzionali che continuano a sospingere la spesa e mantengono l’inefficienza delle gestioni; mentre è diffusa l’ostilità a un coinvolgimento maggiore dei privati nel finanziamento
e nella gestione dei servizi. Questa è una logica di immiserimento crescente per quelli che lavorano nel settore pubblico, per i pensionati e per la qualità dei servizi ai cittadini; mentre il mantenimento della pubblica amministrazione al di fuori di ogni logica di buona gestione è un fattore principale di immobilismo e di freno alla produttività e all’innovazione dell’intera economia. Gli esempi abbondano. Gli appalti pubblici di opere e forniture superano il 15 per cento del Pil; il costo dell’intermediazione politica e della corruzione è probabilmente più vicino al 20 che al dieci per cento delle somme spese. Il danno economico è aggravato dalla cattiva qualità delle forniture e delle opere, sottratte a ogni serio controllo di qualità; la centralizzazione degli acquisti presso la Consip può aiutare e frenare gli abusi, ma irrigidisce il sistema. L’alternativa è che la politica si ritiri una volta per tutte dalla scelta degli appalti e accetti sistemi trasparenti di assegnazione, basati sulle regole europee, per ogni ente di governo e amministrazione. Una volta liberate dal peso della spartizione politica, molte opere potrebbero essere finanziate in maniera trasparente sul mercato dei capitali e affidate ai privati, con vere procedure di gara. La spesa pubblica diminuirebbe, le risorse da investire aumenterebbero. Migliaia di società pubbliche sono scatole vuote create solo per dare posti, stipendi e consulenze. Anche le aziende che prestano servizi pubblici sono occupate militarmente dalla politica: sono piene di personale in eccesso strapagato e ne scaricano i costi sugli utenti in cambio di servizi scadenti. Enormi serbatoi di tecnologia restano non sfruttati per mantenere le aziende piccole, ma in mani locali. Possono i partiti che ci chiedono il voto impegnarsi a smantellare questo sistema puteolente, chiudendo le scatole vuote, affidando le concessioni con vere gare, lasciando le aziende libere di crescere e aggregarsi? Vi è da tempo un largo consenso tra gli esperti e l’accademia migliore sulle linee di modernizzazione dell’università: decentramento e autonomia delle singole sedi nella fissazione di rette e programmi e nella scelta dei docenti, accettando una maggiore differenziazione tra le università, in un sistema finalmente liberato dal ministero dell’università. I finanziamenti pubblici potrebbero almeno in parte essere distribuiti direttamente agli studenti nella forma di voucher, obbligando le università a competere per i fondi e gli studenti migliori. Si dovrebbero aprire ampi spazi per il finanziamento privato di dipartimenti, laboratori e progetti di ricerca, condividendo largamente i frutti della buona ricerca con gli autori. Borse di studio e prestiti d’onore sosterrebbero gli studenti meno abbienti. Di nuovo, si avrebbero insieme meno spesa pubblica e risorse ben maggiori da spendere. Per la sanità, spendiamo, in rapporto al Pil, più o meno come gli altri paesi europei, ma una parte significativa del sistema – forse il 40 per cento – è troppo costosa e di scadente qualità, tant’è che prolifera il turismo sanitario. L’unico rimedio al quale si è pensato è l’introduzione dei costi standard, un sistema centralistico che può aiutare, se non viene stravolto dal negoziato politico; ma può anche irrigidire il sistema ulteriormente. Anche qui, si dovrebbe cambiare radicalmente il sistema: una parte sostanziosa dei finanziamenti procapite per la sanità potrebbe essere attribuita direttamente agli utenti del servizio, che ne dovrebbero però affidare la gestione a mutue (non profit) e società di assicurazione (for profit), le quali competerebbero per quei fondi negoziando con le Asl e gli ospedali le prestazioni per i propri assistiti. Sotto la frusta della domanda degli utenti, le cattive strutture perderebbero rapidamente i pazienti e chiuderebbero, quelle buone prospererebbero e investirebbero in servizi migliori. Il denaro privato potrebbe competere con quello pubblico nel-l’offerta di buoni servizi, rafforzando la pressione per la modernizzazione delle gestioni e alimentando gli investimenti in moderne tecnologie. Resta sullo sfondo, ma non potrà essere elusa ancora molto a lungo, la questione dell’universalismo delle prestazioni. Ragionamenti simili sono possibili per l’assistenza e i servizi di prossimità, dove il contributo privato è anormalmente basso e va incrementato; o per la gestione dei beni culturali, dove un soffocante centralismo impedisce la valorizzazione dei musei e dei siti più importanti e l’afflusso di risorse private. Insomma, il settore pubblico può diventare il centro di una autentica rivoluzione organizzativa e manageriale e di massicci investimenti: mantenendo per tutti minime tutele, ma lasciando poi che al di sopra di queste il sistema si differenzi, con ampio apporto di risorse private. Sia chiaro, la scelta degli obiettivi di tutela e degli standard di servizio deve restare in mano pubblica; ma ciò non richiede di gestire direttamente, basta regolare bene e controllare severamente il rispetto degli standard di prestazione e di fornitura.