Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 27/1/2013, 27 gennaio 2013
PAOLO POLI, LA LEGGEREZZA DI UN ARISTOCRATICO PRECARIO
Con i corridoi spalancati sul silenzio e uno specchio alle spalle, Paolo Poli nuota nel suo foyer preferito. La terra di mezzo della precarietà aristocratica, dove si è signori nella sottrazione: “Ho sempre fatto le mie schifezzine per conto mio” e signore nell’addizione provocatoria: “La mia paga non è il pur necessarissimo denaro, ma far ridere. Quando accade, so che l’ho fatto venire duro a qualcuno. Che ho rimorchiato, per dirla con linguaggio adatto all’occasione, tanto son certo verrà fuori un’intervista orrenda”. Se al valore dei soldi Poli porge la guancia della memoria: “In trattoria, quando eravamo poveri, inventavamo improbabili parentele con il presidente della Repubblica. ‘Segni, signora’. E quella segnava”, alla testimonianza e alla grigia correttezza del ricordo, tra un “sicché”, e un “mi dà noia”, preferisce il cambio d’abito che non imprigiona. L’equilibrio del fato declinato in cinismo. “La gente pensa in sol-doni, viene qui perché ho 84 anni e a differenza di quelli della mia generazione, non sono ancora morto”. La veste del saggio lo ripugna: “Non credo che la vecchiaia sia un tesoro di sapienza e detesto i giovani che chiedono consiglio”, della santificazione diffida: “Si rispetta la mia anzianità ed è sbagliato. Con gli anni ci si rincoglionisce, pardon, rimbambisce” e riserva alla verità il necessario ruolo dell’esercizio igienico: “È incredibile come si parli di tutto senza dire nulla. Se dio vuole, non ho mai avuto un successo popolare. Quando cinguettano “Davvero non viene in tv? Ci vedranno 2 milioni di persone” li gelo: “Solo 2? Guardi che Hitler ne aveva di più”.
Lei è per la sincerità?
Dipende. Una volta consegnai un premio a Monicelli e lui: “Che me ne fo?”. Gli dico: “Almeno buttalo quando siamo andati via”. Era simpatico e coraggioso, come Sanguineti. Avevo messo in scena uno spettacolo bruttissimo. Edoardo scrisse e mi punì: “È una vera vergogna”. Lo incontrai e corsi ad abbracciarlo: “Finalmente un uomo che si esprime chiaramente”. “Fa schifo, è vero”, gli dissi, “però sa, devo lavorare e anche svergognato, lavorerò”. Facemmo insieme una riduzione per la radio. Il testo, per gli studenti, era pieno di parole come cazzo e fica. Lui aveva tradotto in latino, ma la funzionaria Rai bocciò senza appello.
E poi?
Per aggirare la burocrazia bastava poco. Se dicevi manubrio ti facevi capire lo stesso. Così usai termini allusivi. Lo zampillone. La scatola del pepe. L’idea me l’aveva data la saliera del Cellini. Un uomo e una donna si danno le mani, formano quasi una gondola. “S’intramettevano le gambe, sì come entra certi rami del mare infra la terra, e la terra infra del detto mare”. Lui ha il sedere sopra un pesce e tra le gambe, un tempio greco. La ragazza ha l’elefante sotto il culo e proprio là, la scatola del pepe. La vidi a Vienna. Che meraviglia. Oggi i ragazzi viaggiano molto, non vedono nulla e conoscono solo gli aeroporti. Noi partivamo con un vestitino. Ci abbeveravamo alla vita. Come la prima volta, a Madrid, a 40 anni. Andai al Prado e ci rimasi tutto il giorno. Che gioia. La sera mi esibii in un ristorante. Cantavo canzoni del passato: “Colonnello non voglio il pane” e invece di ridere, piangevano tutti. A fine spettacolo mi chiese l’autografo il Podestà di Firenze, riparato da Franco. Gli spagnoli continuavano a tagliare nastri nelle piazze, quando da noi l’epoca in cui Mussolini ci dava a bere la ricostituzione dell’Impero Romano era tramontata. Per modo di dire. Continuò con la Dc.
Andrà a votare?
Temo di no, potrei essere ad Avellino o a Biella. Mi allargo, mi stringo, recito molto. E amo la provincia che venera la liturgia del vestito buono. Qui ormai arrivano con scarpe di plastica, tute da corsa con le righe e a sipario chiuso, scappano via. Nelle città dove il teatro ha ancora un valore, pubblicano Bellezze del Regio: “Parma. È stata notata in platea la moglie dell’avvocato ‘tu mi stufi’ con il vestito mela e rosa pesco”. A Verona mi hanno fatto sedere tra due produttrici di pandoro, ma io furbissimo, le ho anticipate: “Non mangio dolci”. Altrimenti avrei dovuto dire quale fosse il più buono.
La sua ultima apparizione al cinema è del 1974.
Potevo andare a Napoli, fare Histoire du soldat, risalire a Roma, andare sul set e poi tornare nel pomeriggio. Dopo i 70 ci si tranquillizza. La biologia non la freghi. Ti dicono: “Poli, non esageri, non sembra, sta benissimo” e io “Sembra, sembra”. A differenza di altri, delusi o giubilati, il teatro l’ho scelto. Dal loggione ne ho scoperto uno davvero bellissimo. Il genio di Cechov, la scenografia girevole, i colori delle stagioni. Il cinema era un’evasione. Poi la mia giovinezza tutta denti e occhi briosi lasciò posto ai Marlon Brando ingrugniti. Mettevano un piede davanti all’obiettivo, ma pur osservando una pera per 2 ore, quella restava una pera. Per il palcoscenico avevo rifiutato la Dolce Vita e facevo solo limitati cammei. In Peramore…permagia di Tessari, Morandi era Aladino e io il sarto, Jo Babà. Tiravo un filo e con un effetto villereccio, Gianni rimaneva nudo.
L’ultimo film di Mina.
Ma non recitavamo insieme. Mina me la ricordo anche con Buscaglione a Carosello. “Chi beve birra campa cent’anni”. Il cantante era morto il giorno prima. Una tragedia per la ditta, immagino. Rascel invece ritmava una danzetta: “Non me lo faccio un brodo? Ma me lo faccio doppio. Doppio brodo star”. Ne interpretai alcuni anch’io, grazie alla vedova Campari. Nel ‘60 al Gerolamo, scendevo tra la gente durante lo spettacolo. Giocavo, scherzavo. Lei si invaghì, mi mandò un mazzo di violette. Colore nefasto, ma io non ho pregiudizi. Ho venduto l’articolo più che ho potuto e se non ho scritto è perché se non sei Flaubert, è meglio star fermi.
Quando insegnava portò le sue alunne al bordello.
Le ragazze dicevano : “Maestro, noi non s’è mai visto. È inutile che ci spieghi Maupassant se non guardiamo con i nostri occhi. Andammo. La puttana più grassa mi mise le poppe sul volto. Le ‘bimbe’ si divertirono molto. Avevano 18 anni, sapevano già tutto. Nel realismo imperante non c’era film in cui un bimbo non cagasse nel vasino. Faceva attualità.
L’attualità amorosa?
Sono stato in una scuola. Ho visto bigliettini atroci: “Se vuoi stare con me, metti la croce”. Noi conservavamo angoli di infimo romanticismo. Ora certe coppiette vengono a vedermi sognando un transfert erotico che non posso restituire. Ho i miei ormoni. Sia maschili che femminili. Sempre adoperati senza vergognarmene.
La solitudine?
Adoro. Non mi annoio mai. L’unica convivenza possibile è quella di Calvino, con i due operai che attaccano a turni diversi e non si incontrano. Sa come dice Bergman? “L’attore deve avere molta salute e poca memoria”. Ricordo il lavoro. Mai l’amore. Altrimenti non si farebbe che piangere. Da giovane ho pianto molto. Da vecchio voglio ridere.