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 2013  gennaio 28 Lunedì calendario

C’È UNA

voglia matta di considerare la vicenda del Monte Paschi come un caso isolato, un episodio estremo riflesso del localismo miope della classe dirigente senese. O di un manipolo di amministratori ambiziosi e forse anche incapaci. Questa interpretazione conviene a tanti. Conviene a chi vuole approfittare dell’episodio per lucrare sui consensi del Partito Democratico addossandogli la responsabilità della discutibile gestione di Mps, essendo quel partito il dominus senese. Conviene al Pd nazionale che può smarcarsi dalla responsabilità sostenendo che è stato il suo sindaco a reagire prontamente nominando i nuovi amministratori, salvo poi venire sfiduciato dalla lobby senese. Conviene, alle altre fondazioni bancarie trattare Siena come una anomalia, una mela marcia in un cesto integro: è proprio questo il senso della dichiarazione di Giovanni Bazoli quando dice che il sistema è sano mentre Siena è infetta. E’ lo stesso spirito con cui Giuseppe Guzzetti definisce oggi illegittimo (proprio ora!) lo statuto della Fondazione Mps, dimenticandosi di aver voluto Mussari come proprio vicepresidente, nonostante fosse stato eletto proprio con quelle regole illegittime alla guida prima della fondazione Mps e poi del Monte dei Paschi. Insomma, il male è li, ben localizzato a Siena e non altrove, non nelle altre fondazioni.
Non è così. Pur nella sua patologia, la vicenda del Monte Paschi è figlia del legame, ancora irrisolto, tra politica e credito che domina in Italia — non solo a Siena ma anche a Milano come a Torino, a Verona come a Sassari o a Palermo — pur con pieghe, accentuazioni e forme diverse. E’ un legame che va avanti almeno dagli anni 30 e i cui malanni li abbiamo potuti toccare con mano nei primi anni ‘90, quando un buon numero di banche pubbliche dovettero, a causa della cattiva gestione frutto di quell’assetto, essere salvate, ristrutturate, incorporate. In alcuni casi questo è avvenuto con il sussidio diretto del Tesoro (vedi Banco di Napoli). In altri casi, si pensi al Banco di Sicilia o al Banco di Sardegna, si
è proceduto favorendo l’acquisizione della banca dissestata da parte di un’altra in migliori condizioni. Spinti dalle regole europee pro-mercato e forse mossi dalla lezione del passato, nei primi anni ‘90 si decise di trasformare le banche pubbliche, Casse di Risparmio incluse, in società per azioni e di privatizzarle. Era il modo per mettere una diga tra finanza e politica che si erano sovrapposte ed intrecciate a lungo, alterando non poco il flusso dei finanziamenti ai settori ed imprese più profittevoli fino a compromettere la stessa stabilità del sistema creditizio. Si voleva porre fine alle cosiddette notti delle BIN, con trattative estenuanti fra i politici di turno per arrivare a nomine di persone del tutto incompetenti, ma compagni di corrente prima ancora che di partito, ai vertici delle banche di interesse nazionale. Ottima, rispettabile idea. Ma lo si fece all’italiana. Anziché cedere le partecipazioni sul mercato ad acquirenti che attingevano al proprio patrimonio per esercitare il governo di quelle organizzazioni, assumendone in proprio il rischio e anche l’eventuale profitto, si decise di creare padroni fittizi — le fondazioni di origine bancaria. Si dava così vita a dei “mostri” nelle parole del loro stesso creatore, Giuliano Amato: le fondazioni sono enti doubleface, che, da un lato, hanno obiettivi non-profit, di
carattere sociale e beneficenza, dall’altra svolgono il compito di fare “i padroni delle banche”. Nelle intenzioni del legislatore questa seconda funzione doveva essere a tempo: dovevano gradualmente dismettere le quote di controllo cedendole a veri azionisti per dedicarsi unicamente alla prima funzione, filantropica, gestendo oculatamente il proprio patrimonio onde poter vivere dei rendimenti dello
stesso. Tuttavia questa transitorietà delle fondazioni nell’esercizio del controllo delle banche si è scontrata con gli incentivi della classe politica che, notoriamente, non molla mai posizioni di potere. Gli amministratori delle fondazioni — e per loro tramite quelli delle banche — erano e sono espressione dei poteri locali e, attraverso questi, dei partiti che a turno si affermano sulla scena. Le fondazioni il veicolo
attraverso cui la politica, che si è tentato di cacciare dalle banche dalla porta, vi rientra dalla finestra. Di politica e politici di professione le fondazioni sono intrise. Di tutto l’arco politico, il che spiega anche la prudenza con cui i partiti, tutti, comprese molte nuove formazioni civiche, si pronunciano sul futuro delle fondazioni. Secondo la ricostruzione degli organi sociali che ospiteremo prossimamente su lavoce.info, non meno del 30 per cento dei membri dei consigli d’amministrazione delle fondazioni sono politici di professione, con forti concentrazioni al Nord, addirittura due terzi vengono nominati direttamente o indirettamente dalla politica locale. Nel caso del Monte dei Paschi, dove 14 consiglieri su 16 sono di nomina politica, due terzi delle poltrone ai vertici sono oggi occupate da politici. In non pochi casi, come in quello di Mussari, la carica nella fondazione è solo il primo passo per la nomina ai vertici della banca “conferitaria”. Singolare che il codice di autodisciplina recentemente varato dall’Acri, il sindacato delle fondazioni, sia del tutto silente su questo aspetto permettendo che continui la pratica delle fondazioni di nominare propri amministratori ai vertici delle banche.
Il problema è che la politica riporta dentro gli enti creditizi le sue distorsioni e le sue logiche che sono molto lontane da quelle della ricerca della redditività e della gestione prudenziale. I politici hanno usato il loro potere di influenza per rallentare il processo di dismissione di partecipazioni nelle banche e per confezionare leggi che mettessero le fondazioni, create dopotutto con denaro pubblico o di fonte mutualistica, al riparo da futuri interventi del legislatore, come la trasformazione delle fondazioni in enti di diritto privato.
Se c’è allora una lezione importante da apprendere dal caso Monte Paschi questa è che bisogna completare il processo di privatizzazione del sistema bancario iniziato nel 1990 portando a compimento la separazione tra banche (e finanza più in generale) e politica. Questo oggi comporta che alle
fondazioni, non solo a quella senese, si chieda di recidere una volta per tutte il loro legame con le banche cedendo pacchetti rilevanti dove il criterio per definire la rilevanza non può essere i 51% del capitale della banca (definito dalla attuale assurda legge), ma il peso delle azioni della banca conferitaria in un portafoglio di mercato. E’ questo peso, infatti, che definisce il massimo di diversificazione che un portafoglio può raggiungere. I politici che in questi giorni dichiarano a parole di volere la separazione fra banche e politica dovrebbero esprimersi su questo semplice principio. Altrimenti ogni loro affermazione potrà essere considerata come l’ennesimo atto di ipocrisia nella storia dei rapporti fra banche e potere pubblico. A proposito: come mai Franco Bassanini, che ieri ribadiva in una lettera a questo giornale la sua “nota convinzione che i partiti devono stare alla larga dalla finanza e dalle banche (così come dalle fondazioni di orgini bancaria)” si è nel 2006 battuto per non imporre il limite del 30 per cento alle quote delle fondazioni nelle banche conferitarie? E come mai oggi nega di essersi interessato dell’acquisto Antonveneta, costato, solo pochi mesi dopo, un terzo in più che ad Abn Amro, acquisto da lui definito nel 2007 “la migliore operazione che si potesse fare”?