Carlo Bonini - Paolo Griseri, la Repubblica 28/1/2013, 28 gennaio 2013
ROMA — Un drammatico carteggio tra Bankitalia e Monte dei Paschi e la testimonianza di un banchiere torinese svelano come tra il novembre 2007 e l’autunno 2008 Mussari giocò in un colpo solo Palazzo Koch, il mercato e chi aveva dubbi su un aumento di capitale che nascondeva in realtà un prestito mascherato
ROMA — Un drammatico carteggio tra Bankitalia e Monte dei Paschi e la testimonianza di un banchiere torinese svelano come tra il novembre 2007 e l’autunno 2008 Mussari giocò in un colpo solo Palazzo Koch, il mercato e chi aveva dubbi su un aumento di capitale che nascondeva in realtà un prestito mascherato. Quelli di Siena? «Lo sapevano tutti che volevano la botte piena e la moglie ubriaca». Parla così, chiedendo a Repubblica l’anonimato, un banchiere torinese che nel 2007 mise mano, tra gli altri, alla madre di tutte le operazioni: l’acquisizione di Antonveneta da parte di Monte dei Paschi, l’incipit della catastrofe che ha trascinato sull’orlo dell’abisso il terzo gruppo italiano. «Già, lo sapevano tutti — insiste, ricordando l’operazione — Erano gli anni caldi delle fusioni bancarie ». Monte dei Paschi era una banca liquida. Ma era troppo piccola per competere con colossi come Unicredit che da sola capitalizzava 100 miliardi di euro. Anche Monte dei Paschi aveva bisogno di fondersi. Nel 2005 aveva bussato alla porta di San Paolo Imi, la banca di Torino. La trattativa era stata condotta dall’amministratore delegato unico dell’epoca, Alfonso Iozzo, accusato dai nemici di avere rapporti molto stretti con il Pd. Iozzo tratta in via riservata, i colloqui informali arrivano fino all’inizio del 2006. Informali? «Forse troppo», insinua oggi il banchiere. Perché forse della trattativa il presidente del San Paolo, Enrico Salza, era stato avvisato con qualche ritardo, anche se è difficile credere che non ne sapesse nulla. Ma ci sono ragioni più importanti del risentimento personale per stoppare i senesi: «Chiedevano di mantenere a Siena il quartier generale dell’istituto ». Una richiesta irricevibile pensare che la banca grande (San Paolo) acquistasse quella più piccola (Mps) e la più piccola pretendesse di tenere a Rocca Salimbeni il ponte di comando. «Ma con un obiettivo evidente — chiosa — garantire anche dopo l’acquisizione il funzionamento del Sistema Siena ». La trattativa con Torino muore in primavera. Il no del San Paolo arriva nelle stesse settimane del rifiuto dei milanesi di Intesa, ai quali Siena aveva fatto la stessa “proposta indecente”. Sono settimane turbolente. Ad agosto 2006, pochi mesi dopo il tentativo fallito dei senesi con le due banche del Nord, queste si fondono tra di loro creando il secondo gruppo italiano, Intesa San Paolo, da 80 miliardi di capitalizna zazione. Iozzo, contrario a quella fusione, lascia Torino e va a dirigere la Cassa Depositi e Prestiti. Ci rimarrà fino a quando a sostituirlo non arriverà Franco Bassanini. Nell’estate del 2006, Mps capisce che bisogna agire in fretta. La fusione Intesa San Paolo è anche la pietra tombale sul tentativo dei baschi di Santander di acquisire la banca torinese. Santander vende le sue quote nel San Paolo e diventa a sua volta «liquida». Così rileva il colosso olandese Abn Amro che ha in pancia l’italiana Antonveneta. Che cosa se ne faceva Santander di Antonveneta? «Forse nulla — confessa il banchiere — ma conoscete le regole del rubamazzetto, no? Si prende tutto e poi, con calma, si scarta quel che non serve, cedendolo al miglior offerente». Nel 2007, un offerente c’è. Sono i senesi, che finiscono per considerare Antonveneta l’ultimo treno per diventare grandi nell’Italia post fusioni. Santander capisce che Mps è interessata e alza il prezzo: ha pagato Antonveneta 6 miliardi e la rivende a 9. «Una bella plusvalenza », commenta il banchiere. Alla fine il prezzo, tutto compreso, salirà a 10 miliardi e 138 milioni, e, con l’accollo dei debiti in pancia ad Antonveneta, sfiorerà i 17. All’epoca Mps era certamente «liquida» ma non fino a quel punto. Eppure bisognava comperare. Per rimanere una banca di dimensioni importanti e senza perdere il governo del Sistema Siena. «La botte piena e la moglie ubriaca». Per tirare fuori quella montagna di soldi era necessario un aumento di capitale ed è qui che cominciano i guai. L’acquisizione di Antonveneta è del novembre 2007. Nell’aprile dell’anno successivo Mps ottiene un prestito da un miliardo di euro dalla banca america- Jp Morgan (il cosiddetto convertendo F. R. E. S. H., un obbligazione agganciata al valore fluttuante dell’azione Mps in cui deve essere trasformata). Sono soldi che servono all’operazione ma che, come prestito, non possono entrare in un aumento di capitale. I prestiti si restituiscono con gli interessi, i capitali si utilizzano e si rischiano insieme a quelli degli altri soci. Una bella differenza. «Non una differenza molto grande — osserva il banchiere — perché il prestito poteva essere restituito solo trasformandolo in azioni della banca. Diciamo che era un aumento di capitale differito». E tuttavia il dubbio su quell’operazione è forte già allora. Perché il 23 settembre 2008 la Banca d’Italia scrive a Mps al termine di «un confronto protratto fino al corrente mese di settembre », come affermano nero su bianco i funzionari dell’istituto allora retto da Mario Draghi. Il carteggio Bankitalia-Mps viene pubblicato a maggio 2012 da Reuters e, letto con il senno, di poi, è assai istruttivo. Palazzo Koch segnala che «la predetta operazione non risulterebbe computabile nel core capital» (il capitale di rischio, ndr.). Infatti, quel 23 settembre, gli uomini di Draghi chiedono di fare chiarezza affinché «l’operazione di rafforzamento da 1 miliardo realizzi il pieno e definitivo trasferimento a terzi del rischio di impresa». In sostanza che sia un aumento di capitale vero e non un debito che la banca deve comunque restituire. E che i sottoscrittori di quei bond “F. R. E. S. H.” ne siano consapevoli. Bankitalia dà 10 giorni di tempo a Mps per rispondere. E sottolinea che senza quel miliardo ottenuto da Jp Morgan, Mps «andrebbe sotto il limite dell’8 per cento di total capital ratio», la quota di capitale a disposizione per operazioni di acquisizione consentita dalle regole bancarie. Senza il miliardo infatti l’indice scenderebbe al 7,8 e Bankitalia non potrebbe autorizzare. Mps risponde con una prima lettera a Bankitalia il 3 ottobre, che chiede ulteriori spiegazioni. E solo il 27 ottobre arriva il via libera: «Tenuto conto dell’avvenuta rimozione degli elementi ostativi indicati da questo istituto — si legge — si comunica a codesta banca che l’operazione di rafforzamento patrimoniale del valore di un miliardo risolta compatibile nel core capital ». E’ tuttavia un via libera condizionato «alle assicurazioni fornite dalla funzione di compliance e dal collegio sindacale di Mps». Frase chiarissima alla quale, evidentemente fa implicito riferimento il comunicato di tre giorni fa di Bankitalia. E che oggi consente a via Nazionale di dire: abbiamo vigilato, ma siamo stata ingannati.