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 2013  gennaio 27 Domenica calendario

SCARAMANZIA, UN CULTO

Un filone della scienza divinatoria ebraica fa derivare, dall’abbinamento delle lettere dell’alfabeto ad altrettante cifre, la possibilità di rappresentare un nome in forma numerica: si sommano i valori corrispondenti ai caratteri che lo compongono, e si divide quindi il risultato per sette o per nove. Nomen est omen. Il destino è nel nome, ma non perché ci si chiami Lucia o Benedetto; è piuttosto una questione di cifre. A divulgare nell’antica Grecia la divinazione per mezzo dei numeri, importandola dall’Egitto, sarebbe stato Pitagora.
Numeri sacri o magici, il sette e il nove. Come il tre e l’uno. E numeri dispari. Come il tredici e il diciassette. O il ventinove e il trentuno, che corrispondono alla durata dei mesi nel calendario romano. I Romani, in materia, erano dei veri campioni: nella loro religione, fortemente ritualizzata, superstizioni e tabù non si contavano. L’antica Roma era piuttosto refrattaria ai numeri pari. In quanto divisibili, a parte il due, erano espressione di delicatezza e flessibilità femminile; i numeri dispari, molti dei quali indivisibili (tre, cinque, sette, undici, tredici, diciassette, diciannove, ventitré...), manifestavano la forza e l’inflessibilità maschile. Ma la flessibilità rassicura, l’inflessibilità molto meno. Il mistero aleggiante da più di due millenni sui numeri primi, l’inspiegabile casualità con cui si succedono, avrebbe fatto il resto. Le paure dei superstiziosi si sarebbero concentrate sui dispari, in particolare sull’imprevedibilità di quelli indivisibili, e sui multipli di dispari. Funesti, soprattutto, se riferiti ai giorni di un mese: da temere il 13 e il 17, ma anche il 7 e gli altri contenenti il 7 o multipli di 7: il 27 e il 28.
CREDULITÀ
Helmut Hiller, nel suo bel Dizionario della superstizione (Castelvecchi, 280 pagine, 22 euro), ci prende per mano in un delizioso viaggio, fra gesti scaramantici e preziosi amuleti. Secondo Goethe, la superstizione «è la poesia della vita»; la recitiamo però di frequente come un mantra, perché non ne conosciamo – o non ne ricordiamo più – il significato. Quante volte abbiamo toccato ferro? O maledetto il momento in cui abbiamo versato il sale sulla tavola o infranto uno specchio, o un gatto nero ci ha attraversato la strada? O ripetuto infinite volte a noi stessi di non aprire un ombrello in casa, o di non passare sotto una scala? O rimproverato qualcuno per aver messo il suo cappello sul nostro letto? Se passiamo sotto una scala, e sopra c’è qualcuno, la scala potrebbe cedere o qualche oggetto abbattersi pesantemente sulle nostre teste. Se il gatto è nero e si pianta in strada, la notte è fonda e siamo alla guida di un veicolo, possiamo accorgerci dell’animale all’ultimo secondo e rischiare un incidente. Gli specchi, un tempo, erano oggetti molto costosi e di laboriosa lavorazione: rifarne uno poteva richiedere anche anni di lavoro. Anni di guai, dunque; non saranno stati proprio sette, ma qui è l’infausto numero a metterci lo zampino. Anticamente si credeva che il ferro proteggesse da influssi malefici e spiriti maligni. Era «il metallo della guerra», scrive Hiller, «più prezioso dei metalli preziosi» in fatto di scongiuri; e un ferro di cavallo, portafortuna contro incendi e fulmini, se «inchiodato – secondo alcuni senza dir parola – alla porta della casa, della stalla, o all’albero di una nave, teneva lontane le disgrazie». Cappelli sul letto e ombrelli aperti in casa vanno quasi a braccetto. In un Libro delle superstizioni di qualche anno fa, curato da Marino Niola ed Elisabetta Moro (L’Ancora del Mediterraneo), si legge: «Secondo l’antica liturgia cattolica l’ombrello veniva usato per coprire il prete quando questi faceva visita ai morenti per somministrare loro l’estrema unzione».
LE USANZE
A quel prete poteva capitare di posare il cappello sul letto del morente; quello stesso cappello che un amico o un parente, nella circostanza di un evento luttuoso, aggiunge agli altri cappelli di chi è venuto a trovarci per una parola di conforto, poggiandolo alla rinfusa sulla massa di sciarpe, giacche o cappotti che si è nel frattempo formata sui nostri letti e divani. Né si dimentichi l’usanza di porre sulla bara di un morto in battaglia il suo elmo. Già nel Settecento, in ogni caso, il veronese Scipione Maffei (Della scienza chiamata cavalleresca) annotava come fosse reputato «somma ingiuria», nell’opinione corrente, il costume di mettere il cappello sul letto, allora attribuito agli ungheresi.
Un atto ben diverso dal gesto apotropaico di toccare ferro o battere sul legno. Fra le più classiche forme di scongiuro, per terminare in bellezza, l’italianissimo gesto delle corna. Va a pranzo a le dua. Destinata a un marito che «chiude gli occhi sulla condotta della moglie», ricorda Filippo Chiappini (Vocabolario romanesco), quella frase era accompagnata a Roma dal gesto delle corna: «Si dice, nello stesso senso: Che ciavemo pe ppranzo? Lumache». Altre corna, dunque, ramificate verso l’alto. Quelle di scongiuro, se vogliamo che ne sortiscano gli effetti sperati, dobbiamo puntarle decisi contro lo iettatore. Altrimenti verso il basso, per scaricare a terra il malocchio.