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 2013  gennaio 26 Sabato calendario

LE SENTENZE SUICIDE

Le chiamavano «sentenze suicide». Capitava nelle vecchie corti d’assise, dove le questioni in fatto erano risolte dalla giuria, e può ancora avvenire che decisioni d’un collegio misto, imposte dai componenti senza toga, siano motivate in tal modo da nascere morte, solo che qualcuno le impugni. Rispetto alla Consulta manca un giudice ad quem ma Nómos è Basiléus: la legge vale più del re, sebbene quest’ultimo disponga della forza e in dati contesti i sudditi siano armento docile; finché esistano lettori pensanti, abbastanza indipendenti da manifestare i pensieri, la decisione contro le norme resta prodotto anomalo. Ne abbiamo una sotto gli occhi. Dialoghi del Presidente con un intercettato stanno sui nastri. Il Quirinale pretendeva che il pubblico ministero li incenerisse nel più ermetico segreto. Con una variante (l’atto riparatorio compete al giudice), la Corte gli rende ossequio, a prima vista. Nove fluenti paragrafi spiegano che figura singolare sia l’uomo al vertice: stimola, frena, orienta, coordina, equilibra, modera «i poteri dello Stato», anche tra le quinte, in via informale; e quest’indefinito influsso implica scambi verbali riservati, l’«assoluta protezione» dei quali va letta in filigrana nella Carta, dove non se ne parla; Dio sa come, però, il silenzio gli conferisce la qualità d’«inviolabile», quali erano i monarchi, anche se agisse fuori delle sue funzioni. Supponiamo che un pirata insediato sul Colle discuta d’affari poco edificanti (narcomercato, prostituzione
et similia):
commette delitti giudicabili, fermo restando che i dialoghi siano tabù (l’attuale capo dello Stato va oltre, postulando un’immunità processuale durante l’ufficio); e il divieto vale rispetto alla persona, assolutamente, anche se l’ascolto fosse casuale, nel colloquio con l’intercettato.
Così, volando sull’inespresso, la Corte individua un divieto istruttorio: prove raccolte nello spazio interdetto non sono acquisibili; e siccome i nastri esistono, bisogna disfarsene. Il pubblico ministero li riteneva inutili, quindi avrebbe chiesto al giudice d’obliterarli; in qual modo, lo dicono regole codificate (artt. 268, 269, 271 c. p. p.), una delle quali, capitale, esige il contraddittorio: può darsi che i reperti risultino importanti nel caso
de quo
o altrove; e gl’interessati devono potervi interloquire. Nossignori: tale conciliabolo svelerebbe
quod infandum est,
mandando in fumo la prerogativa. Provveda il giudice, da solo. Se accogliamo premesse sospese nel vuoto, la conclusione appare coerente. L’insuperabile difficoltà sta nell’accordare una presunta norma («assoluta protezione» dell’augusta parola e relativi corollari) con tre testi molto visibili: «La difesa è diritto inviolabile» (art. 24 Cost.); l’art. 110 impone il contraddittorio; e definendo obbligatoria l’azione penale, l’art. 112 esclude che siano virtuosamente liquidati reperti d’un delitto perseguibile.
La chiamavamo sentenza suicida. Dopo tanto impegno oratorio, la contraddizione sopravviene nelle ultime quattro righe. Il giudice ascolti i nastri, indi deliberi, considerando «l’eventuale esigenza d’evitare il sacrificio d’interessi riferibili a principi costituzionali supremi »; e ne indica tre: vita, libertà personale,
Res publica servanda;
in tali «estreme ipotesi» adotti «le iniziative consentite dall’ordinamento ». Formula evasiva ma quali siano, è presto detto: l’empio materiale confluisce nel processo, in barba all’«inviolabilità»; era fiato al vento l’arringa
pro rege.
Alla fine salta fuori Nómos Basiléus, più forte dell’ossequio al rex, e qui la Corte incappa nella seconda contraddizione postulando un giudice imbevuto dello Spirito santo, i cui responsi nascano giusti. Supponiamo che ordini l’incenerimento dei nastri: deve motivarlo; e come, se non sappiamo cosa contenessero? Che la distruzione non offenda interessi tutelabili, è da stabilire nel vaglio dei dati, criticamente: la sua parola non basta; può darsi che fosse disattento o abbia mente corta o renda servizi al rex; l’unico meccanismo che garantisca conclusioni relativamente sicure è il contraddittorio, eretto a requisito indefettibile dall’art. 111 Cost. Sono anticaglie le mistiche dell’organo onnisciente. Da Nicola Toppi, storico dei tribunali napoletani, sappiamo come se ne parlasse anno Domini 1655: i sacerdoti operano su materie sante, e così noi perché «
leges sunt sacratissimae
»; infatti, l’uomo in toga appare grave, severo, incorruttibile, «
inadulabilis
», «
terrificus
» verso i malfattori. Nel tredicesimo anno del ventunesimo secolo non è seriamente pensabile che la parola nuda tronchi questioni forse decisive, essendo negata ai contraddittori la cognizione dei fatti. Quando Ferdinando IV, Borbone napoletano, guidato dal vecchio ministro Bernardo Tanucci, impone sentenze rudimentalmente motivate (prammatica reale 27 settembre 1774), gl’interessati insorgono: la giurisdizione è affalettiva
re esoterico; un malaugurato pubblico rendiconto la dissacra. Sua Maestà ribatte e i rimostranti ammutoliscono ma negli anni novanta una monarchia reazionaria revoca l’editto (la regina e Maria Antonietta sono sorelle).
Documenti simili non diventano precedente autorevole. L’illustre consesso ha spiccato un salto indietro nei secoli: torniamo al monologo inquisitorio; e non lo rendono meno repellente i sentori d’una pesante Ragion di Stato. L’unica via d’uscita (interlocutoria) è sollevare la questione di legittimità costituzionale. Letto senza contorsioni, l’articolo 271 c. p. p. non ha niente d’eccepibile ma la Corte impone d’applicarlo in versione arbitraria, violando tre norme d’alto rango; esca dall’equivoco sciogliendo le contraddizioni. Era prevedibile che quello sciagurato conflitto costasse caro. Non se sentiva il bisogno, tanto meno quando l’ex padrone del governo offre futuri voti al candidabile quirinalesco, purché gli garantisca un salvacondotto penale.