Francesca Pini, Sette 25/01/2013, 25 gennaio 2013
LA FAMIGLIA CHE VIVE COME AI TEMPI DI GUTENBERG
[Storia di una dinastia vissuta tra Parigi e il Piemonte, tra l’arte dei dipinti e quella dei libri fatti a mano. Tra amici che hanno segnato la storia della letteratura, da Sibilla Aleramo a Pablo Neruda] –
Pensare in grande, in un luogo al di fuori delle performance culturali delle città importanti. Forse è proprio questa distanza geografica, da tutti i “centri” possibili, a stabilire un’eccellenza. C’è chi crede talmente tanto nel progresso tecnologico da consentirgli di correre per inerzia, stabilendo altri primati, lasciando segni in controtendenza all’evanescenza dello schermo video. Stampando ancora “alla Gutenberg”, a mano, non però con un torchio di legno, ma nella progredita versione in metallo, come quel magnifico Stanhope della prima metà dell’800. E allora i versi di una poesia, la prosa di un racconto, impressi nero su bianco, emergono dalla carta come pensiero allo stato nascente. La bibliodiversità al pari della biodiversità. I libri che escono dalla tipografia Tallone ad Alpignano (paesino della cintura torinese), oggi come cinquant’anni fa, sono tutti composti a mano, alla velocità di 1.500 caratteri mobili all’ora. Per i nativi digitali, qualcosa di lontano anni luce. «Ma oggi la tecnologia sta rincorrendo il libro cartaceo (un oggetto del mito), e non l’opposto. Per chi si avvicina al libro in modo utilitaristico ben vengano i supporti elettronici, ma per quel 3 per cento che lo ritiene l’espressione della civiltà, non c’è cosa più materialmente spirituale di questa», dice Enrico Tallone che, insieme al fratello Aldo (scomparso nel 1991), ereditò dal padre Alberto la maestria di quest’arte. «E ora il tablet flessibile altro non fa che imitare la carta! Ma le parole che si vedono su questi supporti sono sempre in affitto. La persistenza dell’arte della tipografia consiste nella sua qualità assoluta. Infatti, oggi, nel mondo, c’è un revival delle edizioni private, e dei libri d’artista». Entrare nella sua officina, vedere lui, i tre figli (Elisa, Eleonora, Lorenzo) e gli operai lavorare al bancone, scegliendo una a una le lettere metalliche (appunto, i caratteri mobili), è come valicare il confine tra passato e presente, ma anche tra civiltà: nei cassoni ci sono “tipi” greci, copti, aramaici, etiopici, musicali gregoriani, e tutti quelli europei. «La tipografia, scriptorium moderno, arredata con questi banconi ha qualcosa di sacrale e di bello, siamo ancora nel pieno dell’Umanesimo», dice Tallone. «Il tempo si è fermato solo nell’atmosfera di questo ambiente, ma se io, con i caratteri Caslon, stampo il libro Boto il delfino rosa di un’autrice di oggi come la brasiliana Márcia Theóphilo (straordinaria “voce” dell’Amazzonia), arrivo alla coniugazione dei secoli, con un’operazione dinamica e moderna». Una passione per le arti grafiche che discende in linea diretta dal padre Alberto (nato nel 1898), cresciuto in una famiglia votata all’arte, figlio del pittore Cesare Tallone (sposò Eleonora Tango dalla quale ebbe undici figli). Lo stesso Alberto aveva esordito come attore (prima di fare anche il libraio), suo fratello Guido si era dato alla pittura. Un altro, Cesare Augusto, (molto stimato da Cortot e da Benedetti Michelangeli) costruì pianoforti, mentre Ermanno diventò antiquario.
Storico atelier. Enrico Tallone non sarebbe diventato il mastro tipografo che è, se la madre Bianca (tuttora vivente), diventata vedova, non avesse tenuto duro nel mandare avanti l’attività. Anche lei credeva negli ideali che il marito Alberto (29 anni meno di lei) aveva abbracciato andando a bottega a Parigi, nel 1931, da maître Darantière (già stampatore a Digione della prima edizione dell’Ulysses di Joyce). Sette anni dopo, Tallone rilevò lo storico atelier, attivo fin dalla Rivoluzione Francese, insediato nel parigino Hôtel de Sagonne. Ci furono poi gli anni difficili della guerra, con l’energia elettrica razionata. Tallone aveva fra i suoi clienti un grande bibliofilo, dirigente della Michelin (all’epoca militarizzata), che gli permise di trasferire il torchio in azienda, dove lui poteva stampare di notte, usufruendo della corrente.
Mondo alla rovescia. Dopo i successi parigini, Alberto Tallone sentì il richiamo dell’Italia, e come gli artigiani rinascimentali volle costruirsi nella proprietà di famiglia ad Alpignano (sul 45esimo parallelo, in un microclima speciale che fa crescere in giardino tamerici, palme, bambù) una casa-officina. Frequentata da famosi scrittori del tempo, come Pavese e Neruda. Ora lì troviamo Enrico, i suoi figli e la moglie Maria Rosa, tutti uniti nel lavoro. «Mio padre morì quando avevo 14 anni. Di sicuro avrebbe ambito che io continuassi il suo lavoro. Grandi editori (tra cui Rizzoli) vennero per comprare il marchio, però mia madre, con due anziani operai, rifiutò e resistette finché io e mio fratello Aldo diventammo grandicelli», racconta Tallone. «Monsieur Roger Lautray, classe 1902, che era stato stampatore di papà a Parigi veniva ogni estate a insegnarci il mestiere. Si può dire che fosse un umanista. Questo operaio era già stato nobilitato dal lavoro fatto con Darantière, dal quale aveva conosciuto Joyce, Hemingway, Malraux, Paul Valéry». Tallone padre rilevò e portò ad Alpignano le macchine e i caratteri usati da Darantière, tra cui la “font” Caslon, inventata nel 1720 da questo inglese che incideva i nomi dei nobili sulle sciabole e sulle canne dei fucili. «Io, che ancora oggi stampo con quei caratteri fusi nelle matrici originali, è come se possedessi la “calligrafia tipografica” di questo grande incisore», dice Enrico Tallone. Con questa dinastia, siamo davvero nel solco di grandi stampatori come Aldo Manuzio (1449/1515) e Bodoni (1740/1813), di cui il fondatore Alberto veniva considerato il degno continuatore nel ’900. Da Bodoni aveva mutuato anche l’idea che i caratteri fossero delle sculture. Nel secolo delle macchine industriali, il capostipite Tallone aveva scelto una strada lenta, faticosa, senza compromessi, quella del comporre a mano. Un processo alla rovescia, in cui le parole vengono formate da sinistra a destra, con i grafemi a testa in giù, creando delle linee di frasi. Pur non essendo totalmente iconoclasta, anche il figlio Enrico parla del libro come di una musica muta. La migliore illustrazione è il testo stesso, l’insieme dei segni. Sta alla fantasia del lettore arricchirla con le proprie libere visioni, non dettate da altri. La decorazione è tutta nel carattere, nelle parole. Poi c’è la scelta dei bianchi nella interlineatura, tra un verso e l’altro: gli stacchi sono spazi pneumatici che permettono al lettore di seguire un ritmo, di sintonizzarsi con l’autore. Da questa tipografia sono usciti veri capolavori, che nascono senza fretta. Per la nuova edizione, nel 2004, del Canzoniere del Petrarca (stampato tutto in corsivo, con una nota di Gianfranco Contini e Carlo Ossola) ci vollero quattro anni, per i Sonnets di Shakespeare un anno. Ma si lavora a più testi contemporaneamente, anche se i titoli che poi escono sono al massimo quattro all’anno. Fresco di torchio quel Lamine d’oro orfiche, esercizio estremo di abilità grafica, composto in corpo 6, in omaggio al Bodoni (nel bicentenario della morte che cade quest’anno) che si era cimentato con quei segni minuti. E se, in tanta abnegazione, s’infila l’“errore di stampa”? «Montale diceva che un libro non è tale se non ha almeno un errore. Così come un nodo sbagliato nei tappeti orientali. Il rullo, con la vischiosità dell’inchiostro può anche mangiarsi il ricciolo di una lettera: ecco un incidente, ma entro 6/7 copie lo correggiamo».
Tondo e corsivo. La creazione materiale dei caratteri mobili ha molto a che fare con la gioielleria. Diversi strumenti usati allo scopo sono gli stessi degli orafi. E decine le operazioni necessarie: dai punzoni alle matrici, da queste ai caratteri, poi realizzati in una lega di piombo, antimonio e stagno che li rende “elastici”. Il parigino Charles Malin fu l’artigiano che incise lo “specimen”, impostato da Alberto Tallone a metà degli Anni 40 e completato nove anni dopo. Lo pensò durante un soggiorno sull’isola di San Giulio, sul Lago d’Orta, e poi alla palladiana Villa Barbaro a Maser. Disegnò i suoi caratteri con questo respiro neoclassico dentro, ma la “effe” proprio non gli riusciva, non trovava la giusta dimensione. Finché tornato a Parigi, seduto al bistrot, sovrappensiero, tracciò su un tovagliolo di carta una linea che risolse quell’arrovellamento. «Mio padre introdusse una grande innovazione estetica, l’uso del corsivo (definito italico, nel mondo) nell’interezza del libro, per accompagnare le lunghe letture in scioltezza», dice Tallone. «Il corsivo, in tipografia, fu un’operazione di alta tecnologia compiuta da Manuzio e dall’incisore bolognese Francesco Grifo. Così, nel ’500, si aggiunse questa ventata di leggerezza. Si pensa in corsivo, in modo più libero e scorrevole». Le arti tipografiche sono anche un incontro di civiltà, come avviene con il carattere gotico, che tanto assomiglia ai castelli medievali sul Reno, da espugnare. «Ma, a Venezia, l’incontro del gotico con l’Umanesimo, cambia le cose. La sua cadenza passa al ritmo latino del romano minuscolo, e del corsivo. All’occhio risulta molto più gradevole quella proporzione cinquecentesca elaborata da Aldo Manuzio, che inaugura l’uso di questo carattere tondo nel De Etna di Pietro Bembo, nel 1496, e di quello corsivo nell’Eneide del Virgilio, datato 1501». Questione di alchimia straordinaria, l’arte della stampa, dove le parole s’imprimono nella carta così come un sentimento nell’anima. Enrico Tallone ha in progetto il Manuale Tipografico III, dedicato alle carte e agli inchiostri. Per le carte (in fibra di cotone, che fanno da “letto” ai
caratteri), oltre la grammatura, ciò che conta molto è la lucentezza, e il processo di fabbricazione. Si va dalla francese Montval (che ha in filigrana una donna con un drappo) a quella prodotta dalla Cartiera Di Sicilia ad Aci Bonaccorsi, e trattata con acqua purissima che scende dal fiume Alcantara. «Eccezionale, come quella della storica cartiera Ventura di Cernobbio, che purtroppo ha chiuso», dice Tallone. In questo mestiere la raffinatezza non è mai troppa, e il tipografo ha voluto stampare un Pinocchio su carta toscana, di Pescia. C’è poi il capitolo inchiostri. «I migliori sono quelli tedeschi, di uno straordinario nero, profondo e solenne. Non chimici, ma organici. Il pigmento è fatto di quei gas che sorgono dalla terra (ossia le antiche foreste carbonizzate) e il fumo più sottile è il nerofumo degli inchiostri». I più eccelsi tipografi del passato hanno creato dei capolavori assoluti usando tamponi per inchiostrare, costruiti ad hoc, il cosiddetto “mazzo” ricoperto con pelle di cane, non porosa (l’animale non suda). A fine giornata, la pelle veniva schiodata, pulita e messa nell’urina, che la manteneva morbida. Come si dice, proprio “farsi un mazzo”.