Matteo Fraschini Koffi, l’Espresso 25/1/2013, 25 gennaio 2013
Caccia a al Qaeda– La fotografia sul campo di battaglia è questa: i 2 mila soldati francesi e l’esercito del Mali avanzano verso Nord, per riconquistare la fetta del Paese finito nelle mani dei fondamentalisti islamici
Caccia a al Qaeda– La fotografia sul campo di battaglia è questa: i 2 mila soldati francesi e l’esercito del Mali avanzano verso Nord, per riconquistare la fetta del Paese finito nelle mani dei fondamentalisti islamici. A tenaglia, avanzano su due direttrici. Verso ovest hanno già ripreso Diabaly praticamente senza combattere perché i qaedisti sono fuggiti dopo i bombardamenti degli elicotteri francesi. Più a est sono arrivati a Savaré-Mopti e Douentza, si dirigono verso Konna. Procedono a tappe forzate, con l’obiettivo dichiarato di liberare tutto il territorio passando per le città chiave, Gao, Kidal, la mitica Timbuctù (vedi cartina nella pagina seguente). Lo Stato Maggiore di Parigi aveva fatto appena in tempo a dichiararsi «sorpreso dall’alta capacità militare dimostrata dai ribelli», ed ecco che questi fuggono con una rapidità che fa pensare a una tattica. Una sorta di ritirata strategica per salvare uomini e mezzi in vista di una guerra di lunga durata che è nel pronostico di tutti, compreso il nostro ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata. E del resto i numeri delle forze in campo lo dimostrano. I francesi sono 2 mila (diventeranno 3 mila). L’Unione europea partecipa con alcune decine di consiglieri militari (24 italiani) che avranno soprattutto il compito di addestrare l’esercito del Mali oggi composto da 10 mila uomini, solo un quinto dei quali è motivato a combattere e in diversi hanno già disertato. Contano sugli elicotteri e gli aerei francesi ma non possono vincere la "guerra del deserto" senza l’appoggio decisivo di chi conosce le insidie di quel terreno, cioè le truppe africane che tardano ad arrivare e chissà se arriveranno mai. I Paesi della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) avevano garantito la partecipazione alla "Missione di supporto al Mali" (Misna) con almeno 3 mila militari, ma stanno facendo rapidamente retromarcia. Dalla Nigeria e dal Togo sono arrivate alcune centinaia di soldati. Ciad, Senegal, Burkina Faso Benin Guinea e Niger stanno ancora alla finestra e si riparano dietro una questione economica irrisolta: chi paga i salari alle truppe e la logistica dei vari battaglioni? Sul fronte opposto, gli islamisti possono contare se 4-5 mila guerriglieri fortemente motivati. Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi) ha due brigate di 500 uomini. Il Movimento per l’unicità e il jihad nell’Africa occidentale (Mujao) conta su 500 effettivi e il grosso è garantito dai Difensori della fede (Ansar Eddine) formato da quei tuareg che hanno scelto l’islam estremo (un’altra fetta degli uomini del deserto è rimasta laica e neutrale), rivendicano da tempo un loro Stato e sono stati decisivi, nel marzo scorso, per la conquista del nord del Mali. Insieme posseggono un vero arsenale: mitragliatrici pesanti e cannoni antiaerei che possono montare sui pickup con cui terrorizzano la regione, missili terra aria SAM7, fucili d’assalto Kalashnikov AK-47. Conferma Diakaridia Dembele, uno dei pochissimi giornalisti ad aver incontrato i capi di Ansar Eddine: «Gran parte dell’arsenale del defunto regime libico di Muammar Gheddafi è nelle loro mani. Io l’ho visto». Rincara Salem Ould Elhaj, originario di Timbuctù e professore di storia in diverse scuole del Nord: «Gli islamisti hanno imposto la sharia, con fustigazioni e amputazioni di arti eseguite in pubblico, su un territorio vasto una volta e mezzo la Francia e lo hanno trasformato in un enorme covo per terroristi che conoscono alla perfezione». Fonti d’intelligence di molti Paesi occidentali avvertono: «Ci sono, nel Sahel, campi d’addestramento gestiti da radicali islamisti provenienti da Afghanistan, Pakistan, Cecenia, Indonesia e Nigeria». Diversi testimoni affermano di aver notato «anche alcuni europei di origine africana nelle file dei militanti». E i finanziamenti non sono un problema, arrivano, copiosi, dai traffici di droga, sigarette ed esseri umani, oltre che dai sequestri di persona. Questo è il quadro che induce a parole di prudenza il capitano maliano Samasa, comandante delle operzioni nell’area di Niono e nonostante il successo dell’offensiva: «Ci muoviamo sul terreno con calma perché temiamo che alcune frange dei ribelli non si siano ritirate e si mimetizzino con la popolazione civile». Preoccupazione condivisa da un suo collega, il capitano Ibrahim Sanogo, che si trova sull’altro corno dell’avanzata, il fronte verso Douentza: «Cerchiamo di ripulire dalla presenza di terroristi le grotte che ci sono nella regione e che sono un ideale rifugio». Teme che i qaedisti in fuga, oltre a sabotare le antenne per i telefonini in modo da rendere difficili le comunicazioni, abbiano lasciato alle spalle piccoli gruppi isolati di combattenti in grado di condurre operazioni di guerriglia. E la preoccupazione è condivisa dallo stesso prefetto di Douentza, Issaka Bathily, che si è dovuto rifugiare a Mopti quando i terroristi hanno preso la città. Operazioni di guerriglia e attentati suicidi sono le possibili azioni che tolgono il sonno anche a Bamako, la capitale del Mali. Gli abitanti hanno tirato un sospiro di sollievo grazie all’intervento francese che ha scongiurato la caduta della città. Ma l’aria resta molto tesa. Molti stranieri solitamente presenti l’hanno abbandonata e i pochi rimasti hanno ricevuto il consiglio di muoversi con cautela di giorno e di stare in casa la sera. «Non un ordine categorico», afferma una funzionaria del Programma alimentare mondiale (Pam), «però noi lo rispettiamo, chiamiamolo coprifuoco ufficioso». Gli abitanti mostrano gratitudine a Parigi sventolando per le strade bandierine dai colori bianco, rosso e blu, ma il centro culturale francese ha annunciato la chiusura degli uffici «per i prossimi quattro mesi». Nella residenza dell’ambasciata, confida un cameriere che ci lavora, «ci sono stabilmente quindici militari armati fino ai denti, nove in uniforme e sei in borghese». I diplomatici occidentali si aspettano il primo attentato suicida e in tutte le sedi di rappresentanza sono state rafforzate le misure di sicurezza. Perché, al di là del folclore delle bandierine, non tutti credono alle buone intenzioni della Francia e, sotto la cenere, serpeggiano l’accusa di neocolonialismo e un certo malumore verso gli interventi dei soldati francesi. Solo un’azione decisa da François Hollande per aiutare il Mali, ridargli la sovranità sul Nord occupato e estirpare il terrorismo da questo avamposto troppo vicino all’Europa? «Qualcosa non torna», dice Kodio Coulibaly che gli occidentali li conosce bene perché li porta al fronte con la sua automobile. «Se i ribelli avessero voluto prendere Bamako l’avrebbero potuto fare e senza troppa fatica alcuni mesi fa». Il sospetto è che, dietro ai motivi ideali, se ne nascondano, al solito nelle guerre, di più prosaici. La regione, benché poverissima, ha un enorme potenziale economico. Spiega Mohamed Haidara, guida turistica e originario di Timbuctù: «Secondo gli studi di diverse società energetiche che ho visto sul terreno durante i miei viaggi, il nostro sottosuolo ha ricchissime risorse di petrolio, uranio e gas». Il bacino di Touadenni, incastonato tra Mauritania e Algeria, è già oggetto di esplorazioni da parte di società petrolifere italiane (Eni), algerine (Sonatrach) e australiane (Baraka Petroleum) ed è giudicato uno dei campi energetici più promettenti della regione. Senza contare che la minaccia islamista avrebbe potuto mettere a rischio le miniere di uranio del vicino Niger oggi sfruttate dalla francese Areva per le centrali nucleari. Calcoli che si fanno nelle cancellerie. Mentre sul terreno infuria una guerra in cui le grandi assenti sono le immagini. Mancano dal Nord dove vige la sharia e mancano anche dalle aree riconquistate dove i tuareg denunciano che è già iniziata la «stagione delle vendette» con esecuzioni sommarie di cui si sarebbero rese responsabili le truppe del Mali. Dice Moussa Ag Assarid, portavoce del Movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad (il nord del Mali a maggioranza tuareg): «I soldati, originari del sud del Paese non distinguono tra combattenti e civili. E temiamo che se arriveranno soldati di altri Paese africani incapaci di distinguere tra un cittadino e un ribelle, la nostra popolazione sarà sterminata prima della fine della guerra». L’ong Human rights watch ha già accusato con un comunicato ufficiale i militari maliani di «uccisioni e torture ai danni di civili innocenti». Mentre Judy Dacruz, capo-missione a Bamako dell’Organizzazione internazionale della migrazione, lancia l’allarme profughi. Sarebbero già almeno 150 mila. E molti stanno fuggendo dalle aree di guerra: «Mancano linee di comunicazione, non hanno mezzi di trasporto e devono passare zone minate dai terroristi difficili da identificare».