Camilla Conti e Luca Piana, l’Espresso 25/1/2013, 25 gennaio 2013
L’Agenzia delle entrate ha dichiarato guerra prima a Google e a Facebook, e ora anche eBay. A cui ha chiesto 76 milioni di tasse non pagate
L’Agenzia delle entrate ha dichiarato guerra prima a Google e a Facebook, e ora anche eBay. A cui ha chiesto 76 milioni di tasse non pagate. Ecco come ha scoperto tutti i loro trucchi– Evasore totale. Per un gigante da cento milioni di clienti, capace di guadagnare 2,6 miliardi di dollari solo nell’ultimo anno, non dev’essere motivo di grande gioia vedersi affibbiare l’etichetta riservata ai furbetti che non pagano le tasse. Eppure per eBay, il sito Web di maggior successo nel mondo per la compravendita di oggetti usati e non, il rischio c’è tutto, almeno in Italia. In seguito a un’indagine condotta dalla Guardia di finanza di Milano, l’Agenzia delle entrate ha infatti inviato alla società un conto piuttosto salato, certificando l’accusa di non aver pagato per anni un euro di imposte mentre faceva affari d’oro sul territorio italiano. Se la commissione tributaria di Milano non accoglierà il ricorso già presentato dal gruppo americano, per togliersi dai guai eBay sarà costretto a versare allo Stato una cifra considerevole. Secondo quanto ha ricostruito "l’Espresso", infatti, la richiesta complessiva formulata dall’Agenzia nel cosiddetto "avviso di accertamento" è di 76,8 milioni di euro: 21,2 milioni come tasse non pagate nei primi anni di attività, più altri 55,6 di sanzioni e interessi. Quello di eBay rappresenta solo uno dei molti fronti su cui i governi europei stanno combattendo una battaglia durissima e, finora, povera di soddisfazioni. Mentre l’esplosione del commercio online, via telefonino e tablet sta rapidamente gonfiando i loro fatturati, colossi del Web come Apple, Google, Amazon, eBay e Facebook si ritrovano infatti in una situazione di grande vantaggio. Fin dai primi passi della loro rapida espansione, hanno studiato le regole tributarie europee e si sono dati la struttura fiscale «più efficiente possibile», come ripetono i loro manager di fronte alle crescenti accuse di eludere le tasse. In pratica, hanno ridotto al minimo il prelievo che il fisco può far loro in Paesi dove hanno milioni di clienti e dove i rispettivi business si stanno diffondendo a macchia d’olio, come Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia. Le loro attività ufficiali, al contrario, le hanno concentrate nelle legislazioni fiscalmente più convenienti, dai classici paradisi offshore fino in Irlanda, Lussemburgo e Olanda. Economie più piccole dove il numero dei clienti è forzatamente inferiore. Ma dove, in modo non sempre cristallino, fanno confluire i proventi degli affari conclusi in Paesi nei quali sarebbero tenuti a pagare tasse più elevate. Chi più, chi meno, tutte le multinazionali di Internet hanno dovuto fronteggiare inchieste giudiziarie o ricostruzioni giornalistiche che ne hanno messo a nudo le strategie. Il quotidiano "New York Times" ha rivelato che Apple, l’azienda fondata da Steve Jobs e che gestisce il fortunato negozio online di musica, film e software iTunes, grazie a un’articolazione internazionale studiata ad hoc è riuscita a ridurre il proprio carico fiscale di 2,4 miliardi di dollari in un unico anno, il 2011. Mentre in Italia Vieri Ceriani, attuale sottosegretario all’Economia, ha confermato in Parlamento i risultati di una clamorosa indagine della Guardia di finanza, che l’Agenzia delle entrate sta tentando con una certa fatica di trasformare in un avviso di accertamento vero e proprio. In pratica tra il 2002 e il 2006 Google, che vende la propria pubblicità attraverso una holding irlandese, non ha dichiarato al fisco un reddito imponibile di 240 milioni di euro e non ha versato l’Iva per un importo di 96 milioni. Una situazione che va avanti tuttora, con volumi d’affari che rispetto a quei primi anni sono cresciuti a dismisura. Le conseguenze sono ovvie. Con la recessione che colpisce duro, i governi delle principali economie europee si ritrovano nella difficile condizione di incassare imposte sulle attività d’impresa sempre più basse. Ma non basta: i concorrenti nazionali dei giganti del Web, anche quelli capaci di ritagliarsi posizioni di tutto rispetto - come le italiane Yoox nella moda e Ibs nella vendita di libri e dvd - soffrono di concorrenza sleale. Per loro, essere nati e cresciuti in Italia è una condanna: se rispettano le regole, il carico fiscale è intatto, anche quando varcano i confini e iniziano a sviluppare un’attività di vendita all’estero. Spiega Paolo Ainio, fondatore di Banzai, un gruppo milanese che possiede popolari siti internet come GialloZafferano e SoldiOnline: «Non posso dire nulla contro i manager delle multinazionali, che approfittano delle opportunità e dei buchi normativi perché altrimenti vengono cacciati dai loro stessi azionisti. Ma se nessuno si impegna per riequilibrare la situazione, le aziende come la nostra dovranno trasferirsi in Lussemburgo. E lo Stato smetterà di incassare le tasse che almeno noi, oggi, siamo tenuti a pagare». Per comprendere l’importanza del fenomeno bastano pochi esempi di vita quotidiana. Chiunque scarichi via iPad la canzone "Skyfall" della popstar Adele per la modica cifra di 1,29 euro, che si trovi a Roma o a Madrid, si vede recapitare una ricevuta da una società lussemburghese di Apple, la iTunes Sarl, che verserà nel Granducato l’Iva sul brano venduto. Un’Iva, va detto, molto più bassa del 21 per cento che pagherebbe in Italia, poiché in Lussemburgo il prezzo di una canzone venduta online viene spacchettato così: il 75 per cento è considerato diritto d’autore e sconta un’imposta sui consumi pari al 3 per cento; il restante 25 per cento è invece trattato come una prestazione di servizio da parte di iTunes, sulla quale è dovuta un’Iva che, in base a specifici accordi con l’amministrazione locale, può essere ridotta fino al 6 per cento del prezzo. Sempre dal Lussemburgo arriva, invece, la fattura per chi acquista attraverso il sito di Amazon il cofanetto di dvd di "Downton Abbey", pluri-premiata serie di culto della tivù britannica. In questo caso, un cliente che si trova a Genova o a Pescara almeno l’Iva la paga in Italia, perché c’è la consegna di un bene materiale e i trattati internazionali lasciano poche scappatoie. Tuttavia, grazie a una complessa architettura societaria lussemburghese, il colosso del commercio elettronico creato da Jeff Bezos ha ridotto al minimo le imposte che altrove sarebbe tenuto a pagare sui profitti realizzati nell’attività d’impresa. Uno dei risultati di questa strategia lo si ammira leggendo l’ultimo bilancio disponibile (il 2011) di una delle diverse società del gruppo con sede nel Granducato, la minuscola Amazon Europe Holding Technologies, sorella di quella che fattura gli acquisti. Del tutto priva di dipendenti, dotata di un capitale sociale di appena 3.864 euro, risulta intestataria di molteplici diritti, brevetti e marchi utilizzati dalla rete mondiale dei siti del gruppo, che per questo usufrutto le pagano fior di quattrini. Risultato: in appena nove anni di attività, l’iper redditizia cassaforte lussemburghese ha accumulato - esentasse - un patrimonio da Guinness: 1,89 miliardi di euro. Prendere al laccio le multinazionali e costringerle a pagare le tasse non è mai stato facile, anche quando la new economy non esisteva. Oggi però, con il boom del commercio digitale, la fuga oltre confine dei profitti da tassare sta diventando una valanga. E le autorità dei Paesi più penalizzati, dopo anni di disinteresse e di connivenze varie, stanno cercando contromisure. In Italia, come si è visto, le prime risposte sono arrivate dalla Guardia di finanza. Oltre a eBay, sono finite nel mirino Facebook e - nuovamente - Google, con gli investigatori che poco prima di Natale si sono recati nelle sedi milanesi dei due gruppi per acquisire documenti. Sempre a livello investigativo, la Francia ha invece tentato una stoccata nei confronti di Amazon, chiedendo il pagamento di tasse arretrate per 200 milioni. A livello internazionale, però, non sono mancate prese di posizione da parte delle istituzioni politiche. L’iniziativa più spettacolare è stata probabilmente quella del Parlamento britannico, che ha costretto Google, Amazon e la più tradizionale catena di coffee-shop Starbucks a rispondere in diretta tivù sulla Bbc a una raffica di affilatissime domande. E a mettere per la prima volta nero su bianco una serie di meccanismi societari internazionali e di dati confidenziali che, fino a oggi, erano stati fatti passare il più possibile sotto silenzio (vedi box a fianco). Un evento che ha spinto David Cameron a rompere gli indugi e a promettere che della questione si occuperà il vertice del G7 - l’associazione delle principali economia mondiali - che si terrà a fine primavera nel Regno Unito. Un appuntamento che, se si riveleranno fondate le indiscrezioni del quotidiano "Le Figaro", potrebbe essere anticipato già a febbraio dall’Ocse, l’Organizzazione per lo sviluppo e la cooperazione economica, che detta le linee guida per la definizione di alcuni principi della tassazione degli scambi commerciali. Se l’Unione Europea stenta ad affrontare il problema per i veti dei Paesi più piccoli, decisi a difendere i loro vantaggi, Ocse e G7 hanno sulla carta maggiori margini di manovra. Conferma un osservatore qualificato come Stefano Simontacchi, direttore del "Transfer Pricing Research Center" dell’Università di Leiden e socio dello studio legale Bonelli Erede Pappalardo: «L’Ocse e i governi stanno lavorando su alcune priorità. E la prima riguarda proprio come adeguare le condizioni dei prezzi di trasferimento che i gruppi applicano ai beni e ai servizi che si scambiano le loro filiali internazionali. È una delle partite più importanti dei prossimi dieci anni, come si può intuire se si considera che ormai i due terzi delle operazioni commerciali mondiali sono infra-gruppo». Oggi, però, il compito delle autorità fiscali non è facile. Gli esperti sono infatti concordi nel sostenere che, abusi a parte, in gran parte le multinazionali non hanno fatto altro che sfruttare i vantaggi offerti da alcuni Paesi europei. Non è un caso se, come con Google, ora anche chi fa pubblicità su Facebook si vede recapitare le fatture da Dublino. In Irlanda è infatti lecito costituire uno schema societario che, grazie a una triangolazione con Olanda e Bermuda, permette quasi di azzerare le imposte sui profitti. Con i prodotti tradizionali, questi stratagemmi potevano essere aggrediti dal Fisco più facilmente perché, per vendere, i produttori avevano spesso bisogno di strutture fisse nelle nazioni dove si trovavano i clienti. E se c’è una cosiddetta «stabile organizzazione», le multinazionali sono costrette a pagare le tasse in loco. Con l’economia digitale tutto si fa più sfuggente. Per fortuna in alcuni casi le armi delle autorità sembrano funzionare ancora, come mostra la vicenda di eBay, che si è vista accusare di avere in Italia una stabile organizzazione occulta. Ma in altri rischiano di essere spuntate. «I vecchi principi erano efficaci se si trattava di tassare Ford o General Motors», dice Tommaso Di Tanno, uno dei maggiori esperti italiani di diritto tributario internazionale. Che continua: «Oggi, invece, può esserci una vera e propria aggressione di un mercato da parte di un’azienda che sta davvero all’estero». La soluzione? «C’è un’unica possibilità», dice Di Tanno: «Va ribaltato il principio secondo cui ognuno tassa le proprie imprese. Occorre stabilire una soglia e, chi vende di più, deve pagare le tasse come se fosse un’azienda di casa».