Giuliano Ferrara, Foglio dei fogli 21/1/2013, 21 gennaio 2013
Stille, un grande libro che uccide il padre e lo resuscita nel figlio – Mi imbatto per la seconda volta nel libro di un figlio che in questo secolo piuttosto stronzo sente il dramma del suo conformismo nel confronto con la cinica noncuranza etica del padre novecentesco, e sublima il dramma nella scrittura memoriale, raccontando la storia della sua famiglia
Stille, un grande libro che uccide il padre e lo resuscita nel figlio – Mi imbatto per la seconda volta nel libro di un figlio che in questo secolo piuttosto stronzo sente il dramma del suo conformismo nel confronto con la cinica noncuranza etica del padre novecentesco, e sublima il dramma nella scrittura memoriale, raccontando la storia della sua famiglia. Il primo caso un anno o due fa è stato quello di Gad Lerner e del suo Scintille, un bel viaggio alle radici dell’ebraismo aspro, tragico, sulle tracce di un padre un po’ matto di famiglia, idiot de la famille, e della dolcezza orientale del ramo libanese materno. Ora ho letto un capolavoro nel genere dei memoirs, di nuovo in un’atmosfera intensamente e disperatamente ebraica, il libro di Alexander Stille su suo padre e sua madre. Il titolo è La forza delle cose, l’editore è Garzanti, quasi cinquecento pagine: un lungo racconto di tratto intimo ed epico insieme, in uno stile da Upper West Side di New York reso celebre da tanti maestri e in particolare da Philip Roth, che lì approda dal suo slang di Newark N.J., con una vena di umorismo generoso che fa pensare al Barney Panofski di Mordechai Richler. Non mi aspettavo gran che. Stimo come persona il figlio di Stille, ma come intellettuale militante e come pubblicista di Repubblica lo consideravo vittima dell’uso di mondo e della insaziabile curiosità di suo padre. Mi sembrava che Alex si fosse messo i paraocchi e giudicasse in modo rattrappito e meschino la realtà italiana per emanciparsi dall’immoralismo costituzionale, deontologico e storico di un celebre padre che detestava a pelle i pregiudizi politicamente corretti, troppo seriamente coinvolto dalla guerra tra il bene e il male per non capire quanto le due divinità siano inestricabilmente intrecciate. Invece mi sono sbagliato. Non sulla letteratura civile e banalmente antitaliana dei suoi pamphlet contro Andreotti o Berlusconi, cose appena degne di un Maurizio Viroli o di altre spocchiose teste d’uovo che non capiscono un cazzo di quel che è capitato a questo paese: su quello mantengo intatto il raccapriccio. Mi sono sbagliato su quanto alla fine è più importante, sull’anima di Alexander, sulla genuinità della sua ricerca di libertà e di luce nell’ombra necessaria di una paternità ingombrante, e soprattutto non avrei mai pensato che un saggista politico e polemico avaro di fantasia e di ritmo scrivesse infine un libro famigliare di rara bellezza, un racconto letterario e un’autoanalisi che ho divorato d’un fiato in un sabato e domenica, roba fortissima e da comprare e leggere per il piacere di entrare guidati da una mano sicura nel gioco di specchi delle generazioni, delle personalità, delle culture che legano e dividono Europa e America in storie più che centenarie. Il memoriale di Alex è il ritratto di due persone, il padre Misha Kamenetzky (Ugo Stille è il suo nome d’acquisto, prima pseudonimo giornalistico condiviso con Giaime Pintor), con la sua famiglia e la magnifica sorella Lally, incrociato in modo sapiente con la storia parallela della madre americana, Elizabeth Bogert. Misha era un ebreo bielorusso fattosi italiano in gioventù tra Napoli e Roma, studi seri di filosofia, grandi amicizie e celebri nei Guf anni Trenta e nell’intellighenzia migliore (tra tutte quella con Giaime Pintor, esteta, italiano irrequieto e giovanissimo caduto sulla linea di faglia dell’occupazione tedesca nel momento alto della ribellione e della resistenza), poi le leggi razziali, l’emigrazione in America, il ritorno come GI all’atto dello sbarco americano in Sicilia, il coinvolgimento nei servizi di informazione e controinformazione, una lunga carriera di causeur e di giornalista raffinato, corrispondente esclusivo del Corriere da New York, grande giocatore di poker e incantatore di salotti mondani, fino alla direzione del giornalone di via Solferino, accettata solo al limite massimo della vecchiaia dopo una vita intensamente americana, a partire dalla cittadinanza. Ma il sale del racconto famigliare è naturalmente nella storia di un amore, cioè di un matrimonio con figli e dei cento tic personali e privati di un uomo pubblico che solo gli amici più cari, e nessuno come il figlio, conosce (anche nel ricordo leggendario). Una sera degli anni Cinquanta a una festa per Truman Capote, che era all’inizio del successo, Misha corteggia e fa sua una splendida figliola nata nel mondo wasp (white anglo saxon protestant) del midwest americano, la rampolla capricciosa, trasgressiva, indipendente, molto militante dei Bogert, Elizabeth. Qui il libro si apre a una narrazione di amore e morte con tutta la sofferenza del mondo, che nell’arte della memoria è bellezza pura, bellezza russa (come diceva George Steiner parlando dello spazio religioso e metafisico degli scrittori russi e americani dell’ottocento). E l’intreccio diventa quello di mondi incompatibili integrati dalla forza della storia e dei sentimenti e dei pregiudizi, sempre sul punto di esplodere e sempre salvati nella loro unità innaturale sotto gli occhi di un ragazzino che cresce e che si forma un occhio di scrittore e di memorialista capace di stupirci a ogni pagina, di incantarci e di istruirci. Alex Stille è finalmente diventato anche un Kamenetzky, senza orgoglio, senza rinunce, con passione e dolore: uno spettacolo meraviglioso. Si è immerso nelle ricerche sul padre e sulla madre, fra testimonianze della propria non banale interiorità e apparati documentali rintracciati frugando nelle montagne di nevrotiche cartacce lasciate in eredità dal padre; è riuscito nell’abile e ironica catalogazione delle asciutte “liste” della spesa e delle cose da fare dei Bogert, di generazione in generazione. Ha percepito finalmente che gli uomini e le donne sono fatti così, si fanno attraversare dalle curve della storia e della morale, e mantengono le loro virtù, quando ci siano, anche nel disincanto. Bentornato, Misha.