Marco Revelli, la Repubblica 24/1/2013, 24 gennaio 2013
UNA MAPPA MENTALE FUORI DALLA STORIA
Di fronte alle immagini dei funerali di Prospero Gallinari, mi sono interrogato anch’io su quello che rimane forse l’ultimo “mistero” delle Brigate rosse: sulle ragioni esistenziali che portarono, nell’Italia del tardo Novecento, un piccolo esercito a varcare quella soglia che separa la militanza politica dall’azione criminale. E il primo riferimento che mi è venuto in mente è stata una vicenda che per la storiografia può apparire marginale, ma che considero rivelatrice.
I fatti risalgono al novembre del 1981, quando alla Stazione centrale di Milano, dopo un conflitto a fuoco in cui muore un agente, vengono catturati due giovani. Uno si chiama Giorgio Soldati, appartiene a “Prima linea”: portato in Questura, sottoposto a un interrogatorio feroce, al limite della tortura, rivela alcuni indirizzi. Trasferito al carcere di massima sicurezza di Cuneo, nella sezione degli “irriducibili”, scrive una lettera al “proletariato combattente”, rivelando la propria “debolezza” e chiedendo di essere giudicato per questo. Il 10 di dicembre (appena cessato, sconsideratamente, l’isolamento) viene sottoposto a processo da parte di un’improvvisata “corte di giustizia” e condannato a
morte. Dichiara di accettare la sentenza emanata in nome del “proletariato rivoluzionario”, chiede solo che l’esecuzione non sia troppo dolorosa. Viene “garrotato” in una latrina da quattro “compagni”, con una corda fatta di stracci e un frammento di specchio.
Giorgio Soldati aveva alle spalle, prima del grande salto nella clandestinità, un’esperienza di volontariato (una fotografia lo ritrae dopo il terremoto nel Friuli intento alla ricostruzione di una scuola), buone letture (tra i suoi appunti, in cella, una citazione di von Kleist) e la memoria partigiana della sua terra. Nella stessa sezione del carcere — inevitabilmente coinvolto in quella atroce sentenza — c’era Alberto Franceschini, del nucleo storico delle Br: quello che incomincia la sua autobiografia raccontando quando un vecchio partigiano gli consegna le sue due pistole e lui le nasconde nella Camera del lavoro di Reggio Emilia, di cui suo nonno era il custode. Anche qui una terra, anche qui una memoria. Come per la cascina emiliana dell’infanzia di Prospero Gallinari, che sembra uscita dal
Novecento
di Bertolucci, ferma nel tempo, dove (come racconterà egli stesso, continuando a definirsi un “contadino”) nei pochi metri dell’aia si confrontavano i mondi contrapposti del padrone e dei lavoratori, separati da un abisso secolare.
Forse sta in questa sorta di mappa mentale, la cifra che può dare accesso al nucleo più intimo di quella scelta: in questo composto eterogeneo di frammenti di storie e di citazioni distorte. In questo universo simbolico postumo, fatto di ombre cinesi in cui confluiscono un po’ tutte le vicende conflittuali del secolo (Rossana Rossanda parlerà appunto di “album di famiglia”), dall’epopea partigiana alla Rivoluzione d’ottobre, dal guevarismo latinoamericano al mito spartachista nella Berlino del 1920, sottratte tuttavia alla Storia e chiamate a invadere esistenzialmente il presente e occuparlo, sostituendosi ad esso in un mortale corto-circuito temporale, nella forma di una tragica “rappresentazione”. Spezzoni fuori contesto, che si sovrappongono al contesto storico e sociale, lo fagocitano, diventano un mondo immaginario in cui abitare. E colpire. Con tutta la carica mortifera che possiedono le cose morte quando escono dalla memoria e pretendono di farsi vita (saranno 80, alla fine, le vittime rivendicate dalle Br, e più di una decina i “propri caduti”).
È come se, a un certo punto, un gigantesco specchio fosse caduto a tagliare, verticalmente, il corso della storia e del secolo, cosicché l’immaginario non potesse
trovare che riferimenti anteriori, replicare miti e simboli pregressi, in una coazione a ripetere che diventa mondo parallelo e deformato, mentre il mondo reale scorre, inesorabile, in direzione ostinata e contraria. Nello stesso momento in cui nel supercarcere di Cuneo si eseguiva quell’infame sentenza, le fabbriche nelle quali avrebbe dovuto nascere la rivoluzione immaginata si stavano svuotando in un esodo biblico durato per oltre un ventennio. Quel “proletariato” nel nome del quale si eseguiva la condanna stava subendo la propria metamorfosi epocale da “produttore” a “consumatore”. E dalla Federal Reserve americana si dava avvio al processo di produzione di denaro per mezzo di denaro che avrebbe portato al capitalismo finanziario di oggi. Sullo sfondo la “Milano da bere” di craxiana memoria. La finanza pubblica facile con gli interessi a due cifre dei Bot a comprare la fedeltà del ceto medio. I nascenti centri commerciali a sostituire le cattedrali della produzione. Senza che nulla di tutto ciò filtrasse nell’involucro impermeabile di quell’immaginario bloccato, che quanto più si divaricava dal corso storico, tanto più rendeva crudele e insensata la propria azione, fino a minacciare di estinzione ogni memoria e ogni conquista per quelle stesse classi sociali nel cui nome era iniziato il percorso.